Una lunga ricerca di archivio su carte recentemente desecretate, che ha portato alla luce nuovi elementi, e la toccante testimonianza delle figlie di Pinelli, Silvia e Claudia, rendono il nuovo libro di Paolo Brogi Pinelli l’innocente che cadde giù (Castelvecchi) una lettura necessaria, essenziale, indispensabile, direi. Oltre a ricostruire la verità dei fatti, Brogi ci restituisce un ritratto di Giuseppe Pinelli a tutto tondo, non solo il “caso” Pinelli, ma l’uomo, il suo mondo di affetti e i suo impegno come staffetta partigiana, ferroviere, anarchico, esperantista, attivista nonviolento.
«Ancora oggi di quella vicenda mi colpisce la costruzione, avvenuta nelle ore successive alla strage di piazza Fontana, del “mostro” da sbattere in prima pagina. Valpreda arrestato, Pinelli “suicida” reo confesso nella notte tra il 15 e il 16 dicembre. Che mostruosa invenzione!», dice a Left il giornalista e scrittore che in questo lavoro ha messo acribia di ricercatore e passione civile. «Pino Pinelli era un uomo mite e perfino nonviolento – ricorda Brogi -, attento alle ragioni degli altri, un lavoratore, con una famiglia, la moglie Licia e due bambine piccole. Un bersaglio scelto dalla polizia per essere gettato nel tritacarne delle istituzioni come un misero capro espiatorio. Colpisce la solennità con cui la Costituzione all’articolo 13 declama che la libertà personale è inviolabile, dopodiché si constata come sia possibile farne lettera morta».
Alcune ore dopo lo scoppio della bomba in piazza Fontana, Pinelli era stato portato in questura e trattenuto con un fermo illegale che si era protratto ben oltre le 48 ore, ci ricorda Brogi. «Colpisce che, di fronte alla sua inconcepibile morte, media importanti funzionarono allora come buca delle lettere per le orribili menzogne che il Questore Marcello Guida disse a ridosso di quel volo mortale giù dal quarto piano di quella sua Questura di Milano mentre era in corso un interrogatorio. Un innocente, come disse finalmente il presidente Giorgio Napolitano dieci anni fa, “vittima due volte, prima di infondati sospetti e poi di un’oscura morte…”. Una ferita che è rimasta ancora aperta, dopo cinquant’anni».
Pinelli entrò vivo in commissariato e morì “cadendo” dalla finestra. Stefano Cucchi è stato ucciso di botte da esponenti delle forze dell’ordine che avrebbero dovuto garantire la sua incolumità. Ci sono delle analogie?
Non si può e non si deve morire quando si è in custodia dello Stato. Almeno non si dovrebbe. Eppure è successo e si è ripetuto orrendamente nel corso del tempo. Perché? Perché le istituzioni non si occupano adeguatamente di questi orribili abusi? Perché a farsi carico della ricerca della verità, poi, devono essere quasi sempre e solo i poveri familiari delle vittime? Non ci sono elementi di garanzia che dentro le istituzioni facciano i conti con gli abusi che vengono commessi? Tutte domande che a ancora oggi stentano a ricevere degne risposte… Dunque c’è un abuso che continua, diciamo fisiologico. Con Pinelli l’abuso è stato commesso dentro un piano che prese nome di “teorema anarchico”, la pianificazione di una copertura ai terroristi golpisti ottenuta scaricando i loro misfatti su altri, in quel caso gli anarchici. I servizi costruirono impunemente la pista anarchica.
La storia dei servizi in Italia è annosa e in buona parte ancora da chiarire?
Nel nostro Paese qualcuno ha prodotto l’assurda definizione “Servizi deviati”. Una sorta di salva capra e cavoli per far andare avanti il sistema. La Divisione affari riservati del Viminale, che nel mio libro così come in altre ricerche come quella di Paolo Morando si mostra come l’artefice prima del “teorema degli anarchici” su cui scaricare la responsabilità delle stragi, è stata la cabina di regia con cui coprire lo stragismo fascista golpista e con cui colpire invece capri espiatori come gli anarchici allora. Ebbene, questa Divisione da cui dipendevano in tutta Italia gli Uffici politici delle questure (poi Digos) consisteva allora in meno di cento funzionari, al 90% addetti a mansioni esecutrici. E il restante 10%? Dirigenti, molto coesi e coordinati, con all’interno personaggi davvero inquietanti come Silvano Russomanno (ex repubblichino, ndr), il numero due del servizio, che ritroviamo a Milano nelle ore in cui muore Pinelli… Come si fa a definirlo un servizio deviato? Erano loro, senza altre sfumature o alternative, e il potere politico aveva delegato carta bianca.
Governo, ufficio affari riservati, servizi, fascisti, americani…quale
fu la trama dei rapporti e delle responsabilità?
Ci restano al momento alcune affermazioni di cui vorremmo proprio chiedere conto. Prendete il senatore Taviani, già ministro dell’Interno. Ha dato alle stampe prima di morire diari in cui riferisce che l’esplosivo usato a piazza Fontana era stato portato in Italia da un agente segreto Usa, dell’esercito, da una base in Germania e dato agli ordinovisti neri della cellula veneta. Il bello è che l’ex ministro lo sa e lo scrive, come fosse il fatto più scontato possibile… Come diceva Norberto Bobbio noi abbiamo vissuto e forse viviamo ancora tra due livelli, quello sopra delle istituzioni e quello sotto, definiamolo operativo, che fa in apparente libertà tutto ciò che vuole, livelli interdipendenti a tutto vantaggio dei secondi. Allora nel ’69 la sudditanza dei ministri e del governo rispetto a questi uomini era assai evidente: il ministro per fare dichiarazioni o quant’altro chiamava al mattino il capo di fatto della Divisione affari riservati, Federico Umberto D’Amato, e si faceva dire…
C’erano stati dei precedenti come scrive Morando in Prima di piazza Fontana la prova generale (Laterza). Fu un piano ordito lucidamente, qual era l’obiettivo delle stragi fasciste? Stava emergendo un cambiamento sociale che doveva essere stroncato?
L’obiettivo era un colpo di Stato. Volevano costringere il presidente del consiglio Mariano Rumor a decretare sull’onda delle stragi le leggi eccezionali, l’emergenza. Gli Affari riservati sono uno dei gangli di questo piano, il Sid (i servizi segreti italiani dal 1966 al 1977, ndr) ne è comprimario, una fitta rete di eversori attraversa armi e istituzioni varie. Se non ci sono riusciti lo dobbiamo anche alla reazione di quel vasto movimento che si era formato tra il ’68 e il ’69 in Italia. Dobbiamo ringraziare ad esempio gli operai della Breda e della Pirelli a Milano che per primi si mobilitarono in piazza.