La pandemia che ha travolto e sconvolto il mondo intero ha fatto emergere prepotentemente e senza mezzi termini tutte le contraddizioni del nostro tempo. Disparità e disuguaglianze sociali, quando non vere e proprie situazioni di indigenza, emergono quotidianamente e in quantità preoccupanti. Tutto un pregresso decennale di violazioni di diritti umani, civili e sociali sono il terreno su cui gli uomini delle istituzioni devono muovere i propri passi, correndo il rischio di mettere un piede su mine pronte ad esplodere. Dagli ospedali – ed in generale in tutto il sistema sanitario -, dalle carceri – come per tutto il sistema giustizia, in tutte le sue componenti e diramazioni – per finire alla scuola e all’università; da tutti quei luoghi e istituzioni, insomma, in cui le cittadine e i cittadini sono letteralmente nelle mani dello Stato (paradossalmente, dovrebbero essere i luoghi più sicuri, con le dovute ed inevitabili differenze) emergono criticità vecchie quanto la nostra Repubblica, le cui soluzioni sono state continuamente rimandate, quando non sacrificate sull’altarino elettorale. V’è una di queste anomalie che riguarda il mondo dell’Università e che chiama in causa addirittura l’articolo 26 della Dichiarazione universale dei diritti umani, il quale ci dice che l’istruzione superiore dovrebbe essere accessibile in base al merito. Già, merito, non reddito.
Sono più di mezzo milione gli studenti che – chi per un motivo, chi per un altro – ogni anno scelgono atenei lontani dalla propria terra d’origine. La maggior parte di essi, secondo i dati ISTAT proviene da Puglia, Sicilia e Calabria (regioni che sono di per sé in uno stato perpetuo di emergenza almeno dal 1861). Sono ancora impresse nella memoria collettiva degli italiani le immagini degli studenti che hanno inondato le stazioni di treni, bus e gli aeroporti per far ritorno dalle loro famiglie prima che i confini delle città venissero “blindati”, i movimenti personali limitati alle necessità indispensabili. Altri, più saggiamente, sono rimasti dov’erano per non mettere in pericolo la salute delle persone loro più care. Ma in tutto questo v’è un problema nel problema, un’emergenza nell’emergenza, un ordigno che non tarderà ad esplodere se non vi sarà una risposta celere, tempestiva ed efficace da parte del Governo e del Parlamento. Il lockdown sancito a colpi di Dpcm fino ad ora non ha tenuto alcun conto di questa categoria di studenti.
Se tutto è fermo, se le attività economiche sono chiuse – per altro, con una prospettiva di ripresa nella migliore delle ipotesi incerta – come si può pretendere che i pagamenti degli affitti, delle tasse universitarie, delle bollette, ma anche dei libri indispensabili per poter preparare gli esami, continuino come se nulla fosse? Può essere considerato moroso chi non può permettersi di onorare contratti e far fronte alle spese correnti? Il mondo dell’associazionismo si è tempestivamente mosso per denunciare questa assurdità, sono diverse le iniziative organizzate sui social (l’unico mezzo attualmente praticabile per manifestare). La sola possibilità ad oggi per gli studenti fuorisede resta quella di tentare un accordo con i rispettivi proprietari, i quali – sia chiaro! – hanno tutto il diritto di salvaguardare i propri interessi e che, comunque, non possono sostenere sulle proprie spalle quelle che sono le gravi responsabilità, carenze e ritardi delle Stato. È urgente e necessario un intervento concreto da parte del Governo e del Parlamento, non solo per limitare e ridurre quanto più possibile i danni, ma che scongiuri situazioni di estrema difficoltà e gravità, oltre che profondamente ingiuste. Governare un Paese come l’Italia, va detto, è impresa ardua anche nel migliori dei momenti. Questo è chiaro a chi abbia la minima contezza di come vanno le cose. Ma a pagare le conseguenze e il prezzo non possono essere gli studenti che, lungi da ogni romanticismo, sono il futuro dell’Italia e dell’Europa tutta: un futuro che si prospetta cupo e pieno di incertezze.
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Giovanni Zezza è membro del consiglio generale del Partito Radicale