In queste settimane abbiamo dovuto imparare tante cose nuove. La normalità della vita quotidiana come la conoscevamo prima, la consuetudine delle giornate accompagnate dalla cacofonia delle informazioni, sempre eccessive e quasi surreali, per attirare la nostra attenzione attraverso il frastuono provocato dall’eccesso di informazioni, si è improvvisamente interrotta. Ci siamo ritrovati nel giro di pochi giorni in una realtà del tutto nuova e la quasi totalità delle informazioni che abbiamo iniziato a ricevere è diventata monotematica: la realtà invisibile e (per ora) sconosciuta del virus è comparsa ed ha manifestato la sua pericolosità.
Il virus è una realtà inanimata. Non è vivo. È una struttura biochimica molto complessa del tutto inerte che sfrutta la “vitalità” delle cellule con cui viene in contatto per attivarsi. In realtà non fa proprio nulla di suo. È la cellula bersaglio che fa entrare il virus al suo interno ed è il nucleo della cellula che produce le proteine virali seguendo le istruzioni del Rna del virus. Il virus è di fatto un sistema di riscrittura, di hacking, del normale sistema operativo della cellula.
Il virus la riprogramma ed è la cellula stessa che riproduce il virus.
Quella che si svolge nell’organismo è quindi una battaglia tra “programmi” differenti. Quello dell’organismo che viene “attaccato” e quello del virus, che riprogramma le cellule per creare copie di sé stesso.
Abbiamo imparato che il virus Covid-19 è molto insidioso. Ha un tempo di incubazione in cui non manifesta i propri sintomi che può durare fino a 14 giorni e si trasmette per via aerea. Infetta le alte e le basse vie respiratorie, e può provocare, come ormai sappiamo bene, una pericolosa polmonite interstiziale.
La decisione di chiudere tutte le attività e obbligarci tutti a casa è senza precedenti per il nostro Paese. Ma è servita per ridurre drasticamente e rapidamente il contagio.
È servita soprattutto per guadagnare tempo, per riuscire a capire di più del virus, per cercare di avere il tempo di organizzare una difesa che sia più agile del lockdown e che ci permetta di tornare ad uscire di casa e ad incontrare gli altri.
Il lockdown è infatti la soluzione estrema. Quello che è necessario fare quando non ci sono altre possibilità.
Ora sappiamo tante cose in più di questo virus. Iniziano ad esserci studi a doppio cieco (ossia verificati scientificamente) che ci dicono che combinazioni particolari di farmaci, possibilmente somministrati nelle fasi iniziali della malattia, conducono a una fortissima riduzione della mortalità.
Sappiamo che esistono contagiati che rimangono asintomatici per tantissimo tempo e che hanno una carica virale assolutamente equivalente a quella dei malati (questo è un dato che proviene dallo studio epidemiologico di Vò Euganeo a cura del prof. Andrea Crisanti).
Sappiamo anche che, in questo periodo di lockdown, la gran parte delle infezioni avviene in famiglia e negli ospedali, pochissime sul lavoro.
Sappiamo che in tutti quei Paesi in cui si è proceduto ad effettuare un tracciamento all’indietro dei contatti di ogni positivo che viene individuato (contact tracing), si sono ottenuti risultati eccezionali in termini di contenimento dell’epidemia. Se questo poi viene associato con una presa in carico dei pazienti da parte dei medici sul territorio conduce anche ad una riduzione significativa della mortalità. Sto pensando in particolare a Corea del Sud, Germania e Portogallo.
Per migliorare l’efficacia del contact tracing si è anche molto parlato, tra le altre cose di un’applicazione da installare sui nostri smartphones che aiuti a memorizzare vicino a chi ci siamo venuti a trovare negli ultimi 20-30 giorni. Applicazione utilissima per avvisarci nel momento in cui una di quelle persone si dovesse ammalare oppure venisse trovata positiva al virus.
L’app di per sé è soltanto uno strumento. È una macchina della memoria che ci permette di sapere se siamo entrati in contatto con un positivo.
Nel momento in cui lo scopriamo dobbiamo poter accedere al tampone, per verificare il contagio, ed in caso di malattia avere il supporto necessario.
Ci vuole in altre parole un’organizzazione che rintracci, isoli e testi tutte le persone che l’applicazione ci indicherà.
Più questo processo è veloce e più riusciamo a isolare e controllare la diffusione del virus.
Basterebbe capire questo ad eliminare ogni tipo di polemica sull’applicazione.
Va detto che anche in Italia, che noi stessi consideriamo troppo spesso con sufficienza, ci sono state realtà che hanno gestito l’epidemia in modo straordinariamente virtuoso.
Penso al Veneto, dove Crisanti ha dato delle linee guida molto stringenti (molto più stringenti di quelle dell’Oms seguite nel resto del Paese) che hanno permesso di ridurre molto rapidamente i contagi e di salvare gli ospedali dal diventare dei focolai di contagio, cosa purtroppo successa per esempio in Lombardia.
E anche di aumentare il numero di tamponi effettuati potendo così più facilmente tracciare i positivi e isolarli.
Penso anche ai “Medici di frontiera” della Lombardia, un gruppo di medici di base che hanno applicato in “scienza e coscienza” protocolli sperimentali sui loro pazienti senza aspettare che arrivassero in ospedale, quindi prima che si aggravassero. Protocolli che gli hanno permesso di avere una riduzione significativa della percentuale di pazienti deceduti.
Insomma, questi due mesi di tempo che abbiamo strappato al virus con enormi sacrifici ci hanno permesso di comprendere moltissime cose. Soprattutto ci hanno permesso di comprendere quali armi potremo usare nei prossimi mesi estivi e soprattutto in quelli invernali, in cui gli esperti già prevedono una possibile riacutizzazione dell’epidemia.
Il governo deve però essere molto più coraggioso di quanto è stato finora.
Le tante task force che partoriscono topolini («Andate in giro in bici, chiudete gli anziani in casa»), le assurde discussioni su aspetti del tutto irrilevanti e soprattutto superabili per legge in una situazione di emergenza estrema come questa (la questione privacy dell’applicazione Immuni), l’ignorare completamente Scuola e Università, due cardini fondamentali su cui far leva per la ripartenza del Paese (nemmeno un accenno nel discorso di Conte del 26 aprile), dilungarsi su questioni che interessano il Vaticano (i funerali, le cerimonie religiose), non riuscire a elaborare un piano strategico che permetta di uscire da questa situazione senza il rischio di ricascarci… ecco tutto questo dà la netta sensazione di un governo che è guidato dalla paura e non dal coraggio.
Paura di prendere qualunque decisione che non sia prima validata e contro validata da una qualche commissione di super esperti per non volersi mai assumere una responsabilità diretta.
Ecco questo non va bene e può essere più distruttivo dell’epidemia in sé.
La politica deve assumersi responsabilità. Deve prendere decisioni che inevitabilmente, in questa situazione di emergenza, comportano dei rischi non solo politici.
Se la politica ha una visione del futuro deciderà, sapendo che quei rischi porteranno nel medio-lungo termine un vantaggio e un’uscita della crisi.
Non subiremo più l’epidemia ma la gestiremo.
È questo quello che dovrebbe fare un piano. Decidere cosa serve per abbattere il contagio e far lavorare tutti gli apparati dello stato e della società civile nella stessa direzione.
Spiegando chiaramente e fino in fondo quali sono le scelte che si fanno e perché. Allora anche il singolo cittadino, responsabilizzato, farà quello che è necessario dato che saprà il perché le sue azioni sono importanti.
Se si trattano i cittadini da persone intelligenti la reazione sarà intelligente. Poi ci potrà essere qualcuno che reagirà male, ma saranno una minuscola minoranza.
Se invece si trattano i cittadini da persone stupide, la reazione sarà negativa. Molto negativa. Perché pensare che gli altri siano stupidi è una violenza orrenda e soprattutto molto stupida.
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