A colloquio con lo storico dell’arte che avverte: «Abbiamo aperto i negozi a Natale per non riaprire le scuole a gennaio, è un suicidio. La scuola non è solo luogo di conoscenza ma anche di superamento delle disuguaglianze»

Esattamente un anno fa Tomaso Montanari pubblicava il libro Dalla parte del torto, per la sinistra che non c’è, un appassionato pamphlet che oggi ci appare più attuale e urgente che mai, dopo un anno di pandemia, mentre la crisi avanza e con essa si allarga la forbice delle disuguaglianze.

Nel volume edito da Chiarelettere, lo storico dell’arte che non ha mai disgiunto l’impegno accademico da quello civile fa una lucida disamina critica della deriva del centrosinistra folgorato sulla via di Damasco dal neoliberismo blairiano e poi, negli anni, impegnato a rincorrere le destre sul loro terreno: la legge Turco-Napolitano che istituì la detenzione amministrativa per i migranti aprendo la strada alla legge Bossi-Fini e ai decreti Salvini, la guerra umanitaria in Jugoslavia e la riforma del Titolo V (D’Alema), la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio (Monti) sono solo alcune “perle” di una «sinistra di destra» che ha portato la sinistra quasi all’estinzione. In occasione del centenario della scissione del 1921 fra comunisti e socialisti (di cui ci occupiamo con un libro edito da Left) in questa storia di copertina torniamo a interrogarci sulle radici di questa profondissima crisi, cercando idee ma anche proponendo un pensiero nuovo per ripartire.

Su questi assi si è sviluppata questa nostra conversazione con il saggista e docente dell’Università per stranieri di Siena che nelle settimane scorse, dopo aver espresso in tv una legittima opinione sulla svendita di Firenze (che è sotto gli occhi di tutti) è stato investito da una ingente richiesta danni del sindaco Pd, Dario Nardella.

Tomaso Montanari come sta la sinistra in questo  difficile inizio del 2021?

Vedo un totale smarrimento delle ragioni fondanti della sinistra. Mi pare emblematica in questo senso la canea ingaggiata, non dalle destre come ci si potrebbe aspettare, ma da esponenti di centrosinistra verso chi (come Fabrizio Barca, ndr) condannando i fatti di Capitol Hill ha parlato anche di disuguaglianza. Gli assaltatori perlopiù sono stati descritti dai media come un manipolo di fascisti folcloristici. Ciò è certamente vero ma dietro ci sono 74 milioni di persone che hanno votato per Trump e rappresentano la parte più povera dell’America. Non sono i più poveri in assoluto – i neri non sono elettori Trump – ma quelli che sono stati tagliati fuori da un certo tenore di vita, dall’istruzione, dalla conoscenza. C’è un impoverimento della conoscenza dietro questa svolta distopica che assume la forma di una guerra fra populisti e meritocratici (dove la meritocrazia è cristallizzazione della disuguaglianza). In Italia la reazione di Italia viva è stata rimuovere il problema stesso delle disuguaglianza. Non c’è nulla di sinistra in questo. In realtà questo tipo di centrosinistra italiano ed europeo ha soltanto una vocazione a tutelare lo stato delle cose; il che significa agire a favore dei sicuri, dei salvati dei protetti. È la negazione più totale di una sinistra che si pone l’obiettivo di ribaltare l’ordine delle cose a favore degli esclusi, dei sommersi, dei “marginali”. È da cercare in tutto questo la causa dell’astensione. Io penso che sia proprio lì il popolo di sinistra. Va cercato tra quelli che non votano più, non tra quanti votano a destra.

Tu scrivi che la sinistra dovrebbe ripartire dalle lotte quotidiane, da un fronte del lavoro che tenga dentro anche quello povero, sfruttato, precario. Penso per esempio all’importante lotta sindacale dei riders. Ma c’è il rischio che queste lotte siano parziali e il quadro resti parcellizzato?

Castelvecchi ha appena ripubblicato i diari di Bruno Trentin, a mio avviso una delle menti più lucide degli ultimi anni in Italia e per questo isolato. Mi hanno fatto pensare a una questione che mi appare oggi come fondamentale: il punto non è come far andare la sinistra al governo, non è neanche la rappresentanza parlamentare, ma è quella che chiamerei la sinistra di ogni giorno.

Una nuova militanza?

La sinistra di ogni giorno per me è la capacità di governarsi più che di governare; è la restituzione alle donne e agli uomini della capacità di prendere in mano la propria vita. Lavoro significa poter vivere dignitosamente, il lavoro libera dalla schiavitù, dal ricatto e dall’oppressione. Questo è un problema che va affrontato prima di tutto a livello culturale e di formazione. Io penso che ci sia un enorme lavoro da fare sul senso comune, sulla visione del mondo. C’è il potere con la P maiuscola che è quello dei governi, della politica intesa come volontà di potenza per dirla con Bobbio. Ma c’è anche un darsi potere, un empowerment, che è quello della liberazione delle coscienze, della capacità di uno sguardo critico radicale nella vita di ogni giorno. Su questo sono impegnate associazioni, comitati, lotte dal basso che cambiano la vita, prima di tutto, di chi le fa, in primis da un punto mentale e morale. Non è un ripiegamento, è una premessa a cui abbiamo rinunciato. Il che spiega perché poi non si riesca ad avere tutto il resto.

In un momento come quello drammatico che stiamo vivendo, la questione del lavoro si lega ancor più strettamente a quella della giustizia sociale e della democrazia?

Il lavoro è importante anche come presa di coscienza dei propri diritti. La lotta di classe c’è, ma è fatta dall’altro verso il basso in maniera devastante e vincente ormai da tanti anni, tanto che il punto oggi è ricostruire un lessico comune, potersi capire… ed è quasi impossibile, in verità. Questo è il primo sforzo da compiere. C’è un lavoro da fare sul piano del pensiero e della lettura della realtà, perché di fronte a certi eventi ci siano elementi comuni di giudizio, che oggi non ci sono.

Qui veniamo al ruolo cardine svolto dalla scuola, bistrattata in Italia, e all’importanza dell’università su cui pesa l’essere stata «aziendalizzata», come tu scrivi. C’è un deficit molto grave anche nel centrosinistra nel valutare l’importanza dell’istruzione?

Io credo che quello che stiamo vedendo con la didattica a distanza sia gravissimo. Non solo, banalmente, perché la scuola è chiusa. Mi spiego: io avrei anche potuto accettare che, dovendo chiudere tutto a causa della pandemia, prima poi saremmo arrivati al punto di dover chiudere anche la scuola. Ma non è stato fatto questo e soprattutto non è stato impostato così il discorso. La scuola doveva essere l’ultima barriera, l’ultima barricata, l’ambito su cui investire tutto. Ma è successo invece quello che, purtroppo, è accaduto anche nella sanità e per le terapie intensive. Con il Covid, del resto, sono venuti al pettine i nodi che ci portiamo dietro da trent’anni.

Calamandrei parlava della scuola come organo costituzionale, ma neanche il centrosinistra ha fatto propria questa visione. Perché?

Della scuola non importa nulla a nessuno. Il fatto che sia il Pd il partito che preme di più per chiudere le scuole in presenza è incredibile. Evidenzia che si è perduto l’idea stessa del valore sociale dirimente della scuola. Essa è il luogo dove si superano o si perpetuano le disuguaglianze. Lì si gioca tutto, perché è lì che si possono mitigare e superare le differenze familiari. Rimandare i ragazzi a casa, costringerli in famiglia con la didattica a distanza, significa cristallizzare le disuguaglianze, aumentarle entropicamente e far perdere anche la speranza di un cambiamento. Ci stiamo giocando una generazione. Non sul piano cognitivo, come si dice. Il problema non è tanto da quali medici saremo operati, ma quale coscienza civile avremo. Questa è davvero una responsabilità enorme. Ed è un paradosso che sia una simile ministra M5s a difendere la scuola, mentre il Pd – e devo dire anche Leu – la vogliono tenere chiusa. Io sono esterrefatto, è la cosa più grave a cui stiamo assistendo. C’è un totale menefreghismo: abbiamo tenuto le discoteche aperte ad agosto per chiudere le scuole a settembre. Abbiamo fatto lo shopping natalizio per non riaprire le scuole a gennaio. Ci stiamo suicidando. Si sta suicidando la sinistra, non la destra: Salvini è all’opposizione.

Se la sinistra è lotta all’oppressione è anche riscatto, liberazione dall’ignoranza. L’articolo 9 della Carta tutela la libertà di ricerca come ricerca di base, ma anche, tu sottolinei, come ricerca della conoscenza. Come fare in modo che la politica e la cultura mainstream riconoscano l’importanza di questo aspetto che oggi è completamente negato?

Ci sono due aspetti. Il primo appartiene proprio alle scienze di base, alle scienze dure. Vediamo cosa sta succedendo sui vaccini… l’ha dovuto dire il papa che non ci dovrebbero essere brevetti sui vaccini. Il paradosso è che i soldi pubblici servono a finanziare vaccini che producono profitti privati. L’amministratore delegato della Pfizer ha venduto 5 milioni di azioni personali nel giorno in cui l’azienda ha annunciato il vaccino. Non riusciamo nemmeno ad avere un’idea di ricerca i cui frutti siano bene comune dell’umanità. Anche su questo aspetto agisce la dittatura del mercato.

Il secondo aspetto?

Riguarda appunto il tema della conoscenza intesa in un senso più largo. L’articolo 9 fu scritto dopo il fascismo. Il ventennio era cominciato bruciando i libri ed era finito con la complicità all’Olocausto nazista degli ebrei e dei diversi. C’è un elemento di continuità: la persecuzione della conoscenza, la persecuzione del pensiero libero, non solo del pensiero critico. Quella idea che la Repubblica si fondasse sulla ricerca comprendeva anche l’idea che si fondasse proprio sulla ricerca della verità e quindi sul dissenso come valore.

Oggi la libertà di ricerca e di pensiero in che modo viene sostenuta o osteggiata dalle istituzioni?

Ora siamo in un momento in cui si vorrebbe abolire la libertà dei parlamentari imponendo il vincolo di mandato, grazie al riflesso autoritario del M5s. Dall’altra parte Matteo Renzi propone che il rettore non venga più eletto dai docenti universitari e dagli studenti e dal personale tecnico amministrativo pro quota. Vorrebbe che fosse nominato dal cda. E questo mentre le università si sono date già dei cosiddetti codici etici, che in realtà sono liberticidi e paiono pensati apposta per stroncare il pensiero critico. Tutto questo cospira a fare dell’Università un luogo di formazione tecnocratica di funzionari dello status quo, non più un luogo rivoluzionario e di sedizione del pensiero critico come dovrebbe essere. Una università che non diffonde pensiero critico e coscienza civile non è una università. Io penso che il modello insuperato sia ancora quello del Galileo di Brecht. La libertà di pensiero deve poter trovare nell’università la sua massima garanzia, la conoscenza non deve avere nessun limite. Ora invece siamo passati agli uffici studio di Confindustria, la quale per altro non ha veri uffici studio, tanto che non riesce nemmeno a fare ricerca per il profitto. Siamo messi così.


L’articolo prosegue su Left del 15-21 gennaio 2021

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