«Il mio lavoro mi piaceva tantissimo ma era diventato estenuante. Durante il lockdown potevo arrivare a lavorare anche quindici ore di seguito. In più avevo solo due settimane di ferie a disposizione. In pratica non avevo più tempo di programmare la mia vita al di fuori del luogo di lavoro. Quindi mi sono licenziata e ora sto cercando un’altra occupazione, non importa se a tempo indeterminato, purché mi possa consentire di vivere in un modo nuovo, che mi corrisponda». Selene è una giovane operatrice nel sociale e ci racconta con trasporto i motivi della sua decisione. Una decisione che in questi ultimi due anni si son trovati a prendere milioni di persone nel mondo occidentale, riconsiderando e rimodulando drasticamente le proprie ambizioni, esigenze e priorità di vita. Questo fenomeno, che riguarda anche l’Italia, viene chiamato The great resignation, in italiano “le grandi dimissioni”. Se ne è iniziato a parlare, e si è cominciato a osservarlo, negli Stati Uniti, nel pieno della pandemia. Nel 2021, secondo un report dell’Ufficio statistiche del ministero del Lavoro statunitense le great resignation hanno coinvolto oltre 42 milioni di persone. Uno studio pubblicato sull’Harward business rewiew dal titolo Who is driving the great resignation? ha tracciato l’identikit di chi abbandona il proprio lavoro. Colpisce il dato che riguarda l’età: a prevalere sono gli impiegati fra i 30 e i 40 anni.
Orari di lavoro non personalizzabili, ambienti lavorativi non accoglienti e aziende che non sanno o non vogliono valorizzare i propri dipendenti, sono fra le motivazioni di questo fenomeno. Nel nostro Paese il fenomeno delle “grandi dimissioni” sembrerebbe aver attecchito in forma meno aggressiva rispetto agli Usa e certamente su questo incide la diversa conformazione e flessibilità del mercato del lavoro. Ma non lo si può considerare un fenomeno marginale.
Secondo i dati del…
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