Malgrado l’elevata capacità dei ricercatori italiani di competere coi propri omologhi nel mondo, il loro percorso professionale non viene adeguatamente valorizzato. Ottenere scatti di carriera è una vera impresa. E il governo ha deciso di intervenire con una riforma “a metà”

La debolezza strutturale del sistema della ricerca italiana è nota da tempo all’opinione pubblica. Oltre alla questione del finanziamento della ricerca scientifica ridicolmente più basso rispetto ad altri Paesi avanzati – anche tra quelli dell’Unione europea – però, c’è un altro vulnus meno noto. Ossia l’ingiusta (e autolesionistica) esclusione dei ricercatori italiani dal riconoscimento della qualità del loro lavoro e dei risultati conseguiti, anche attraverso un adeguato percorso di carriera e di valorizzazione professionale.
Malgrado la condizione di forte svantaggio in cui il ritardo nella progressione professionale li pone rispetto ai colleghi stranieri, i ricercatori italiani riescono comunque ad acquisire ingenti finanziamenti internazionali in bandi competitivi, consentendo all’Italia di collocarsi al terzo posto in una classifica recente dei Paesi che attraggono finanziamenti europei per ricerca scientifica.

Il problema della mancata valorizzazione professionale, in realtà, affligge soprattutto gli enti pubblici di ricerca (Epr) e in primis il Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) che è il principale e più importante di essi. I suoi ricercatori, dopo aver attraversato un periodo spesso molto lungo di precariato, devono superare un secondo collo di bottiglia, rappresentato dal congelamento al livello iniziale di carriera, che si protrae a volte per decenni e persino per tutto il corso della vita lavorativa, pur avendo conseguito abilitazioni scientifiche universitarie di professore associato o di ordinario o idoneità per livelli più alti nelle procedure di valutazione interna, che non si convertono in effettivi avanzamenti solo per mancanza di risorse economiche.

Tale sperequazione è stata chiaramente descritta su queste pagine da Federico Tulli (v. Left del 17 settembre 2021): più del 70% dei ricercatori del Cnr è fermo al terzo livello (quello di partenza); meno del 10% ha raggiunto il livello di vertice, mentre negli atenei italiani i professori ordinari e associati sono rispettivamente il 30% e il 48% dell’intero corpo docente. Una situazione particolarmente punitiva se si pensa che, ad esempio, al Cnr i ricercatori contribuiscono al bilancio dell’Ente per circa un terzo, attraverso i finanziamenti derivanti dai bandi competitivi vinti.

Qualcosa, in effetti, sembrava stesse cambiando. Da alcuni mesi è in discussione al Parlamento un disegno di legge (il ddl n.2285) che ridefinisce il percorso professionale nelle università e negli enti di ricerca con l’obiettivo di abbreviare significativamente la permanenza nei livelli iniziali per chi opera negli Epr. L’approvazione di questa legge renderebbe disponibili i fondi stanziati nell’ultima legge di bilancio, tramite un investimento pari a 40 milioni di euro, destinati per tre quarti a nuovi concorsi di progressione e per…

L’articolo prosegue su Left dell’1 luglio 2022 

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