«La morte della piccola Diana ci ha lasciati tutti attoniti, scioccati ed increduli per la “ferocia” del comportamento della madre Alessia, 37 anni. Virgolo la parola ferocia perché in realtà non si può parlare di un gesto efferato o di un omicidio violento a livello di agito fisico. Ma è feroce la lucidità e la freddezza con la quale questa donna ha agito». Con Marzia Fabi, psicologa e psicoterapeuta, coautrice di diversi saggi per la collana di psichiatria e psicoterapia Bios Psychè de L’Asino d’oro edizioni, torniamo a parlare del caso di Milano. Per tentare di capire.
È un omicidio molto diverso dagli altri figlicidi accaduti in Italia negli ultimi decenni» aggiunge Fabi. «Penso al delitto di Cogne oppure alla mamma che anni fa aveva messo la bambina nella lavatrice. Quello che è avvenuto la scorsa settimana – lasciare sola in casa per 6 giorni una bimba di 18 mesi, sola, senza cibo (se non con un biberon di latte accanto) per raggiungere il compagno a Bergamo – è di gran lunga molto più grave a livello psicopatologico e più inquietante a livello umano, anche di molti casi che più hanno scosso l’opinione pubblica negli ultimi anni».
Non a caso questo fatto, a distanza di diversi giorni, è ancora molto presente sulle pagine dei principali giornali e, dice Fabi: è difficile districarsi tra i numerosi articoli di giornale pieni di notizie e di ipotesi tra le più varie. «Difficile è ancora farsi un’idea chiara su chi sia Alessia Pifferi o anche tentare di delineare un profilo psicologico di questa donna descritta come schiva, irascibile, bugiarda, solitaria, da tre anni disoccupata. Quello che secondo me è stato riportato in maniera molto chiara sono, invece, le dichiarazioni della madre nell’ambito dell’interrogatorio avvenuto in carcere. Sicuramente la frase che colpisce di più è: “Sapevo che poteva andare così” cioè la donna sapeva che sarebbe potuta accadere qualsiasi cosa lasciando Diana sola: poteva cadere dal lettino, poteva avere sete, fame, poteva sentirsi male, poteva avere il terrore di ritrovarsi sola giorno e notte, poteva piangere a squarciagola senza che ci fosse nessuno ad ascoltarla…poteva morire!!! E alla donna non è servito neanche questo pensiero per non andare, per fermarsi lì con sua figlia. Ha chiuso la porta ed è andata via, dal suo compagno con il quale voleva a tutti costi portare avanti una relazione già difficile».
E, da quanto raccontato dalla donna stessa durante l’interrogatorio, negli ultimi week end di giugno e di luglio, l’aveva sempre lasciata sola per due/tre giorni… raccontando a tutti tante, troppe bugie, alla madre, alla sorella, al compagno da cui si recava. «Avrebbe potuto lasciarla davvero a qualcuno ma aveva paura del giudizio, del compagno e della sorella». Un’altra cosa che ci colpisce è anche come i suoi familiari e il compagno non si siano mai stupiti quantomeno del fatto che, lasciare tutti i week end una bambina di 18 mesi con qualcun altro (secondo quanto lei raccontava) può sembrare quantomeno prematuro e forse eccessivo. A quell’età, come chiunque sa, i bambini sono ancora molto piccoli per stare troppo lontani dalla mamma, troppo spesso.
«Tornando alla frase “sapevo che poteva succedere”, a livello umano, ma anche psicologico e psichiatrico, è una frase agghiacciante che ci deve far pensare» osserva la psicologa e psicoterapeuta. «Dietro questa lucidità – riconosciuta anche dal gip – si nasconde un orrore che rende questo caso diverso da tanti altri. L’orrore di una freddezza emotiva, di una assenza di emozioni, di assenza di preoccupazione e, soprattutto di rapporto con la realtà. La realtà di una bambina di 18 mesi che dipende totalmente dalla madre. Lei è andata via pur sapendo che avrebbe rischiato di farla morire». La madre si è assunta consapevolmente questo rischio perché? Non le importava? Voleva che Diana morisse? «Quello che sappiamo è che tutti i gesti fatti dalla madre sono stati dettati da lucidità e consapevolezza, la lucidità che le viene imputata dal giudice: omicidio volontario aggravato da futili motivi». Tutto ciò, prosegue Marzia Fabi, rende il quadro in cui è maturata la morte di Diana diverso per esempio da quello in cui un genitore “dimentica” il bambino in auto sotto il sole.
«Quanti casi abbiamo sentito di questo genere? Il genitore scende dall’auto e non “ricorda” che sul sedile posteriore, nel seggiolino c’è suo figlio. Anche qui usiamo le virgolette perché in realtà non è una dimenticanza ma un sintomo gravissimo di malattia, una pulsione di annullamento che scatta, in maniera del tutto inconsapevole solo in persone con una determinata realtà psichica. La persona non “vede” più il bambino come se lì non ci fosse e non ci fosse mai stato. La pulsione di annullamento, teorizzata dallo psichiatra Massimo Fagioli già 50 anni fa nel libro Istinto di morte e conoscenza, fa sparire l’altro e il rapporto con l’altro». Di cosa si tratta? È una pulsione inconscia che, potremmo dire, arriva ad intaccare la coscienza per cui il genitore non “sa” più che con lui c’è il bambino».
Di conseguenza lo lascia in macchina e va a lavorare, va a fare le sue cose e quando torna, dopo ore, lo trova morto e improvvisamente realizza quello che è successo. «Questi genitori, poi, sono disperati – precisa Fabi – perché si rendono conto di aver avuto una sorta di black out: il bambino sparisce, non esiste più nella loro mente. Mentre nel caso di Milano la bambina c’è. La madre racconta che Diana è da sua sorella al mare, è perfettamente lucida, c’è un’intenzione di lasciarla a casa da sola, sapendo perfettamente cosa sta facendo o comunque sapendo di andare incontro a questo rischio».
L’altra cosa che colpisce nei racconti riportati dai giornali è che lei dice di non essersi accorta di essere incinta, se ne è accorta solo quando ha partorito, in casa del compagno, in bagno! Come è possibile? «O è una bugia oppure è vero – dice Fabi -. Se davvero non se ne è accorta (e non se ne è accorto nessuno intorno a lei) sarebbe una sorta di annullamento della gravidanza simile a quello fatto da chi abbandona il bambino in auto? Ma poi dal momento in cui la bambina nasce, stando a quello che riportano i giornali, lei ha sempre cercato di far finta che la figlia non esistesse…». E il compagno? Possibile che anche lui non si sia accorto che la donna era incinta?
Su alcuni giornali si è parlato di un forte stato depressivo, lei cosa ne pensa?
«In base agli elementi che emergono dico con certezza che non si tratta di depressione, assolutamente, ma di un quadro clinico molto diverso e più grave. Ed è difficile fare un’ipotesi diagnostica e forse è anche fuori luogo in questo contesto. Questi sono discorsi e confronti da fare tra colleghi non sui giornali. Anche perché non conosciamo direttamente la signora e la sua storia». Forse nelle prossime settimane emergeranno altri elementi su cui poter discutere. «Ho letto però un articolo molto interessante – prosegue Fabi – in cui la ginecologa Alessandra Kustermann, che lavora da anni in un centro antiviolenza, parla di “impermeabilità emotiva”. Mi ha colpito molto questa definizione. Noi psicoterapeuti fagioliani, parliamo di anaffettività, di freddezza, di lucidità razionale, calcolatrice, dietro cui si cela il totale disinteresse per le sorti della bambina; dove prevale solo la necessità di soddisfare le sue esigenze o i suoi bisogni. E dentro questa anaffettività, in questa intenzionalità esplicita di “cercare di far finta che la bambina non esista” (come lei stessa ha dichiarato), possiamo dire che c’è in fondo la volontà di liberarsene? Di lasciarla morire. Questa per noi psicoterapeuti è chiaramente e palesemente malattia mentale». Ma il giudice non ha richiesto la perizia psichiatrica. «Dobbiamo chiederci perché, questa cosa è inquietante».
Possiamo pensare che un bambino piccolo possa resistere un giorno da solo? «Certo che no ma neanche un’ora. Non esiste! Non è una cosa “normale, sana”, non si lascia un bambino solo neanche per cinque minuti. Non è possibile che un giudice pensi che questo sia normale. Che vorrebbe dire? Che tutte le donne potrebbero avere rapporti simili con i bambini? Mettere davanti al neonato altre priorità…con il rischio che muoia? Questa non è sanità mentale, anche se la signora appare capace di intendere e di volere. C’è qualcos’altro dietro la razionalità, ci deve essere un amore, un affetto, un interesse profondo e se non c’è, è malattia, malattia della mente non cosciente, il cui sintomo più grave è proprio l’impermeabilità emotiva descritta dalla ginecologa Kusterman parlando di queste madri che, sembrando normali nei comportamenti quotidiani, non vengono segnalate ai servizi territoriali o comunque non arrivano a chiedere aiuto. E questa anaffettività è ciò che l’ha portata a lasciare che la figlia morisse di stenti».
In altri casi di figlicidi, quello che è emerso dalle cronache dei giornali era l’angoscia, un delirio più o meno franco, l’odio, la rabbia del genitore omicida. «Qui – torno a dire – non sembra esserci nessuna emozione. Chi l’ha interrogata ha riferito che la donna non ha pianto, non si è angosciata, non ha avuto reazioni. L’ha lasciata morire senza toccarla, senza “sporcarsi le mani”, a testimonianza, forse, di un’assenza totale di coinvolgimento sia fisico che psichico. E qui mi chiedo – conclude Fabi-,ho letto sui giornali le dichiarazioni di vicini, ho ascoltato la loro angoscia e il senso di colpa che dicono di provare per “non essersi accorti” di nulla. Ma il compagno, la sorella, la madre, il pediatra della bambina o chi, ad esempio le ha dato il flacone di Benzodiazepine (potente ansiolitico che necessita di prescrizione medica), possibile che non abbia avuto un po’ di amore in più per rendersi conto che questa donna non stava bene e andava aiutata? Credo e ribadisco che una perizia psichiatrica andrebbe assolutamente chiesta».