La rivoluzione in Iran sta mostrando caratteristiche inimmaginabili e senza precedenti nei quarantatré anni di regime teocratico. In quest’ultima settimana sta assumendo un carattere molto più radicale perché ora i protagonisti sono, oltre agli studenti universitari di oltre centodieci accademie di tutto il Paese, anche i liceali delle maggiori città dell’Iran.
Questo movimento spontaneo è apertamente e strenuamente contrario alla struttura conservatrice del regime e in questo senso si mostra come un movimento molto “occidentale”. A protestare non sono solo le masse urbane, istruite, borghesi e giovani studenti, ma anche larghi strati della popolazione rurale. C’è anche un elemento di natura etnica in queste proteste a causa del fatto che la giovane Mahsa Amini, assassinata a Teheran in un distretto della “polizia morale”, era curda. E non è un caso che lo slogan più gridato sia: “Zen, Zendegi, Azadi” (Donne, Vita, Libertà), molto simile allo slogan utilizzato dai gruppi curdi nella guerra civile siriana: “Jin, Jiyan, Azadi” (Donne, Vita, Libertà).
La dinamica delle manifestazioni è diventata sempre più dirompente e con un linguaggio sempre più diretto. La nuova generazione iraniana è in contatto con il resto del mondo e preferisce usare un linguaggio più esplicito e più radicale, diverso da quello dei loro nonni e bisnonni. Non parla con il codice del 1979: le parole d’ordine di giustizia, di trasparenza e di indipendenza della rivoluzione khomeinista appaiono in tutta la loro inadeguatezza e obsolescenza.
Per comprendere questa rivolta popolare e spontanea che da oltre tre settimane scuote il regime dei mullah è bene precisare che i manifestanti – donne e uomini, giovani e anziani, scesi per le strade in ogni angolo del Paese, dai quartieri ricchi di Teheran a quelli poveri delle più remote province e campagne – stanno rischiando la vita non per chiedere piccole riforme, ma perché sia posta fine all’insopportabile Repubblica islamica abbattendo il “regime di apartheid di genere”.
La differenza fondamentale di queste proteste rispetto a quelle del 2009 e del 2019 è la centralità e la partecipazione diretta delle donne iraniane. Ciò non era mai accaduto prima! Questo movimento popolare e spontaneo, che non vuole alcun leader, letteralmente insorto nelle piazze e nelle strade dell’Iran, ha invece radici nelle coraggiose e iconiche proteste del “Mercoledì bianco” del 2018 a Teheran, quando giovani donne si toglievano il velo in una pubblica piazza per sventolarlo come una bandiera.
Questo gesto è una «blasfemia» per il regime oscurantista e crudele degli ayatollah, una sfida alle leggi islamiche che impongono alle donne di tenere sempre il capo e i capelli coperti e di indossare vestiti lunghi e larghi “per non eccitare gli uomini”.
Ora le donne di tutte le province dell’Iran si tolgono l’hijab e ad esso danno fuoco, lo fanno con rabbia strappando dagli edifici pubblici le foto di Khamenei, di Khomeyni e di Qassem Soleimani, il comandante della Forza Quds ucciso dagli americani. Lo stesso fanno le giovani adolescenti nei licei che si fanno fotografare mostrando il dito medio accanto ai ritratti dei mullah appesi alle pareti della loro classe.
Vogliono liberarsi dall’oppressione, sfidano apertamente la regola dell’hijab e pubblicano in Rete le foto e i video delle loro performance per incoraggiare tutte le altre donne alla ribellione su Instagram, WhatsApp, Twitter e Facebook. Queste manifestazioni sono dense di simboli. Dal 16 settembre si registra un’ondata di sfida contro il sistema a colpi di simbolismi.
Il velo è il simbolo dell’oppressione; i capelli tagliati, le ciocche dei capelli che le donne stringono tra le mani dopo essersi rasato il capo, sono il simbolo del dolore, del lutto, del coraggio, della rabbia e dell’orgoglio. Durante il genocidio perpetrato dall’Isis a Shengal nel 2014, in nord Iraq, le donne ezide sono state viste tagliarsi i capelli. Coloro che hanno perso i loro cari, le donne violentate, a cui sono state spezzate le ali, sono use tagliare i loro preziosi capelli per mostrare tutto il loro dolore e il loro orgoglio.
Le coraggiose ragazze dell’hijab sono diventate l’incubo di Ali Khamenei. Ma attenzione, l’hijab ha un alto valore simbolico, è come il Muro di Berlino: i manifestanti credono che se lo si abbatte l’intero sistema crollerà.
L’abolizione dell’obbligo dell’hijab dunque non è il limitato, unico obiettivo, della loro rivoluzione. Abbattere il regime che impone l’“apartheid di genere” significa infatti abbattere l’intero sistema della Repubblica islamica. È in questo senso che va inteso il simbolismo dell’hijab e la lotta contro l’apartheid di genere.
I manifestanti in sostanza vogliono il crollo della teocrazia dalla quale si sentono oppressi dal 1979, vogliono vivere in democrazia e libertà, in un sistema in cui siano rispettati i diritti di tutti e non vogliono certo tornare indietro, ai tempi dello scià.
Dopo l’uccisione della ventiduenne curda-iraniana Mahsa Amini, massacrata di botte nel furgone della polizia per non aver indossato correttamente l’hijab, come prescrive la legge islamica in Iran, un’analoga sorte è stata riservata alla giovane Hadith Najafi di 23 anni.
Sarina Esmaeil-Zadeh era una splendida ragazza di 16 anni, anche lei è stata vittima della brutale repressione delle proteste anti regime, uccisa a Karaj dalle forze di sicurezza dopo essere stata duramente picchiata alla testa a colpi di manganello.
La piccola Nika Shakarami è un’altra splendida ragazza di 17 anni, dolcissima e piena di vitalità, brutalmente uccisa a Teheran dalla famigerata “polizia morale” dopo essersi esibita cantando a capo scoperto durante una manifestazione di liceali in ricordo di Mahsa Amini. Dopo una settimana, il suo corpo è stato ritrovato alla periferia di Teheran con il naso rotto e il cranio fratturato da molteplici bastonate.
Mahsa Amini, Hadith Najafi, Nika Shakarami, e Sarina Esmaeil-Zadeh sono solo alcune delle vittime della furia omicida di un regime crudele.
Le forti restrizioni su Internet operate dal regime costringono i manifestanti ad usare strategie di comunicazione molto fantasiose. Fanno cioè uso anche del porta a porta. Lasciano volantini davanti agli usci delle abitazioni e si danno così appuntamento, indicando luoghi e orari delle manifestazioni. Sui volantini è scritto questo messaggio: “La Repubblica Islamica sta cadendo. Unisciti a noi!”. “Se non puoi venire, diffondi il messaggio in modo che altre persone vengano”.
La leadership iraniana continua a dipingere queste proteste come un complotto straniero. Il presidente Ibrahim Raisi ha espresso sostegno ai primi commenti sulle proteste fatte da Khamenei sfoderando il classico pretesto dei regimi autocratici: la teoria del complotto esterno, sostenendo che le proteste e i disordini sono orchestrati dagli Stati Uniti e dal finto regime tirannico sionista, dai loro mercenari e dai traditori iraniani residenti all’estero.
Non è noto il numero preciso di vittime in queste prime tre settimane di protesta. Secondo l’organizzazione “Iran Human Rights” (Ihr) con sede a Oslo, la repressione del governo ha provocato la morte di almeno 160 manifestanti, ma sappiamo che il bilancio più pesante in termini di morti, arresti e torture, riguarda le aree del Kurdistan iraniano e le regioni del Sīstān e Balūcistān iraniano fortemente sottosviluppate.
Per queste ragioni il segretario del Partito Radicale Maurizio Turco e Irene Testa (tesoriera del Partito radicale ndr) convocano, a distanza di una settimana, una seconda manifestazione per la liberazione del popolo iraniano. L’appuntamento è per sabato 8 ottobre alle 17 davanti l’Ambasciata dell’Iran, a sostegno del popolo iraniano e delle donne contro il regime degli ayatollah. Le autorità iraniane in queste ore sono sempre più spietate nel tentativo di reprimere la rivoluzione popolare contro il regime teocratico e misogino. Il regime dimostra tutto il suo terrore davanti alla sollevazione in corso nelle ultime settimane e si serra nella difesa feroce delle leggi islamiche. Migliaia gli arresti e centinaia i morti. Ora si avverte l’urgenza di sentire le voci ferme di condanna da parte di tutti i governi occidentali, che accompagnino un’auspicata mobilitazione mondiale da parte della società civile.
Gli autori: Irene Testa è tesoriera del Partito Radicale, Mariano Giustino è corrispondente di Radio Radicale dalla Turchia
Nella foto: manifestazione a Beirut a sostegno della protesta delle donne iraniane, 21 settembre 2022