Proprio mentre Giorgia Meloni si insediava a Palazzo Chigi, la polizia prendeva a manganellate alcuni studenti che contestavano pacificamente un convegno organizzato da esponenti di destra all’interno dell’Università di Roma La Sapienza. Vietato contestare. Intanto il governo Meloni non interviene sul raduno dei nostalgici del Duce a Predappio e introduce un nuovo reato, quello di invasioni di terreni, un reato penale che può costare anche sei anni di carcere. Varato per impedire rari e pacifici rave party, potrebbe essere applicato in molte altre occasioni. “Hanno usato il pretesto del contrasto ai rave per inserire norme con pene pesantissime che potranno essere utilizzate in ben altri contesti. Una decisione rischiosa e pericolosa, che avvelena ulteriormente il clima sociale e politico del Paese”, dice il segretario di Sinistra italiana. Abbiamo incontrato il deputato dell’Alleanza Rosso verde e segretario di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni, per fare il punto sull’arretramento politico e culturale che l’Italia rischia con il governo Meloni sul versante dei diritti civili e sociali.
Onorevole Fratoianni gli studenti avevano tutto il diritto di dire la loro. O no?
Sì assolutamente. A me pare che quel che è accaduto in Sapienza a Roma, sia molto grave. Penso sia un pessimo segnale. Le forze dell’ordine in tenuta anti sommossa chiamate dalla rettrice hanno caricato pesantemente gli studenti che a mani nude, pacificamente stavano manifestando legittimamente. Non c’è alcun elemento che possa rendere non dico giustificabile, ma comprensibile, un intervento così violento da parte delle forze dell’ordine. Abbiamo chiesto spiegazioni, depositeremo una interrogazione non appena l’ufficio del sindacato ispettivo sarà operativo fra una quindicina di giorni. Aspettiamo che il ministro dell’interno Matteo Piantedosi, che solo un anno fa, da prefetto, non aveva in alcun modo impedito che avesse luogo l‘assalto alla Cgil (peraltro annunciato), venga in Parlamento a spiegare le ragioni di quello che è accaduto.
Come valuta le prime mosse del Governo Meloni?
Preoccupano i primi atti di questo governo. A cominciare dalla scelta dei presidenti delle Camere, Ignazio La Russa ( Fratelli d’Italia) e Lorenzo Fontana (Lega), volti estremi di questa destra. Colpisce anche il modo in cui sono stati ribattezzati alcuni ministeri chiave. Dal ministero della scuola sparisce la parola “pubblica” e si aggiunge la parola merito. Il ministero economico diventa ministero delle imprese oltre che della sicurezza energetica. L’istituzione del ministero della famiglia e della natalità e il discorso di insediamento della presidente del consiglio Giorgia Meloni hanno lo stesso carattere, quello di un manifesto ideologico, identitario che – almeno in questa prima fase- sembra annunciare al Paese una brutta stagione. Se riguardo alla materia economica si annunciano margini molto stretti di manovra vista la congiuntura e perfino la continuità con le scelte del governo Draghi tutta l’attenzione (e forse anche l’iniziativa) si concentra sul fronte della battaglia ideologica di destra. Accade in Italia quel che è accaduto in varie parti del mondo: la destra arriva al governo e fa fino in fondo la destra sul piano simbolico e identitario.
Il ministro Roccella non potrà mettere mano alla 194, ma sappiamo della sua opposizione all’aborto farmacologico con la Ru486, conosciamo le posizioni ultra cattoliche di Mantovano sul fine vita. Sappiamo delle posizioni integraliste di Fontana sulla famiglia. Si rischia un arretramento sul piano dei diritti delle donne, dei diritti civili che poi non sono mai disgiunti da quelli sociali L’opposizione come si prepara a dare battaglia?
C’è un rischio concreto di restringimento dei diritti. Del resto sta nel programma della destra. Giorgia Meloni ha detto più volte che non toccherà la legge sull’interruzione di gravidanza. Per fortuna, ci viene da dire. Ma constatiamo che sono molte le Regioni in cui la 194 è messa in discussione di fatto, anche a causa di medici obiettori nelle strutture pubbliche. Ora chiunque si occupi di queste materie sa che il potere pubblico non vigila a sufficienza perché nelle strutture pubbliche sia garantito il servizio. In questo modo il diritto all’aborto viene messo in discussione in modo molto pesante. Nella sua prima intervista la ministra Roccella si dice quasi dispiaciuta che ci sia una legge che consente l’aborto, che a suo avviso non è un diritto. Il conto è presto fatto. Credo anche io che i diritti civili e diritti sociali non possano essere visti come due dimensioni separate, tanto meno gerarchizzate, e penso che di fronte a tutto questo occorra una opposizione molto forte.
Ma l’opposizione appare divisa…
Non c’è dubbio che lo stato dell’opposizione non sia brillantissimo: pesano le divisioni della campagna elettorale, non c’è stata la composizione di un fronte sarebbe stato necessario, perché quanto meno fosse una partita giocabile. Ora occorre che almeno su alcuni temi le opposizioni si assumano la responsabilità di costruirlo il Parlamento e fuori. Solo così possiamo fare una efficace opposizione a questo governo. Questo vale per i diritti civili, vale anche per l’assetto costituzionale del Paese contro il presidenzialismo e contro l’autonomia differenziata; vale per le scelte economiche e sociali più rilevanti.
Mentre si va verso il rinnovo automatico degli accordi con la Libia, il ministro dell’Interno Piantedosi torna a criminalizzare le Ong, riprendendo un percorso purtroppo cominciato con Minniti e che toccò l’acme con Salvini e i decreti sicurezza che lo stesso Piantedosi da capo di Gabinetto contribuì a scrivere. Siamo punto e daccapo?
Anche su questo rischiamo un ritorno indietro, nei toni, nei linguaggi, anche perché nella sostanza, elementi di radicale discontinuità ne abbiamo visti pochi: le politiche dell’immigrazione soffrono di una impressionante continuità ed anche di una impressionante trasversalità. Al tempo del governo Gentiloni, Minniti fu autore del Memorandum Italia Libia che il 2 novembre si rinnova automaticamente. È la piattaforma attorno alla quale sono state rifinanziate le missioni di cooperazione con la cosiddetta guardia costiera, la piattaforma su cui si è costruita la legittimazione di una politica illegittima anche dal punto di vista dei trattati internazionali. Parlo di politiche di respingimento che hanno costretto centinaia di migliaia persone alla carcerazione nei lager libici e che implicano la negazione dei diritti umani.
Come si può intervenire, in Parlamento e fuori?
Occorre intensificare il lavoro che in questi anni è stato fatto in modo trasversale. Noi per primi lo abbiamo attuato opponendoci in Parlamento ad ogni decisione che andava nella direzione di un ulteriore restringimento delle vie d’accesso al Paese, a una criminalizzazione delle Ong: da un lato sono chiamate alla supplenza rispetto a un ruolo di ricerca e soccorso che dovrebbe essere garantito dalle istituzioni statuali e sovra nazionali, innanzitutto europee. Dall’altro lato sono criminalizzate oggetto di una vera e propria guerra. In Parlamento e nella società civile noi abbiamo sostenuto concretamente, anche sul piano materiale la nascita di organizzazioni, la messa in mare di imbarcazioni come la Sos Mediterranea, abbiamo praticato le vie del mare.
Lei stesso è stato più volte in missione su Open arms e sulla Mar Jonio, con quale risultato?
Sì abbiamo partecipato a quelle missioni e siamo saliti sulla Sea Watch, quando era ancorata fuori da Lampedusa e per giorni e giorni costretta ad una attesa insopportabile, con centinaia di migranti a bordo. Non era la prima volta, Abbiamo cercato di mettere in pratica una alternativa, in assenza di una adeguata risposta pubblica, anche di resistenza sul piano materiale. Dobbiamo continuare a farlo, dobbiamo intensificare questo lavoro. Abbiamo costruito da tempo in Parlamento una rete di parlamentari che, anche trasversalmente rispetto alle forze politiche dell’attuale opposizione, ha assunto su questo fronte iniziative molto incisivo e radicale. Questa rete va consolidata. Concretamente qualche giorno fa eravamo con altri parlamentari al presidio organizzato all’Esquilino a Roma da associazioni contro il Memorandum, continueremo su questo fronte a batterci come abbiamo sempre fatto.
Il governo Meloni intende porre una pietra tombale sulla transizione ecologica. In continuità, del resto, con il governo Draghi. Non a caso l’ex ministro Cingolani resta in veste di consulente del neo ministro dell’Ambiente e della sicurezza energetica, Pichetto Fratin. L’alleanza rosso verde comprende sinistra italiana e i verdi, quali sono le vostre proposte?
Non c’è dubbio che questo governo provochi su questo fronte un ulteriore rallentamento. Ogni rallentamento è un drammatico passo indietro sul fronte della transizione ecologica. È molto evidente, lo dice la scienza, siamo molto oltre il limite del consentito. Giorgia Meloni si è presentata in Parlamento invocando la ripresa delle trivellazioni nel mare Adriatico. Ha fatto esplicito riferimento al nostro gas e alla necessità di utilizzarlo. Questo governo è in linea anche su questo con la destra internazionale, è il governo amico di Trump, che di fronte all’innalzamento del livello degli oceani dice: al massimo avremmo più case vista mare. Di fronte a questa dimensione cieca della politica, occorre mettere in campo un doppio movimento. C’è una iniziativa parlamentare. Presenteremo a breve una legge sul clima, una legge quadro che vincoli le scelte pubbliche ad ogni livello, non solo quello nazionale, ma anche degli enti locali; che vincoli a scelte collegate agli obiettivi di contrasto al cambiamento climatico. Torneremo a batterci contro il consumo di suolo.In Italia il consumo di suolo procede a ritmi più sostenuti rispetto agli altri Paesi europei. Dovremo lavorare perché la presenza delle opposizioni, a cominciare dalla nostra, sia strumento funzionale alla mobilitazione nel nostro Paese, facendo riferimento alla mobilitazione dei Fridays for future, e alla grande sensibilità delle giovani generazioni che prende corpo intorno al tema della lotta alla crisi climatica e per la conversione ecologica delle nostre economie.
Veniamo al tema della pace, il 5 novembre ci sarà una grande manifestazione. È un’occasione anche per costruire una tessitura con forze come M5s stelle che ora si attestano la battaglia su questo tema anche se sono state ondivaghe in passato. Ma soprattutto come costruire un iniziativa diplomatica per arrivare al cessate il fuoco e a costringere Putin e Zelensky a sedersi a un tavolo?
Penso che quello del 5 novembre sia un appuntamento di straordinaria importanza, un ritorno a una grande mobilitazione nazionale di piazza intorno a un tema, quello della pace, che è stato a lungo espulso dal dibattito pubblico. Perfino criminalizzato. Abbiamo assistito a un rovesciamento di senso. La pace come resa, i pacifisti come amici di Putin, quando gli amici di Putin come abbiamo visto anche durante la formazione del governo Meloni sono sempre stati nella maggioranza di destra, lo sono per ragioni economiche, politiche, culturali. Putin è un uomo di destra, non è una novità. La Russia di Putin ha sostenuto, finanziato da ogni punto di vista i partiti di destra in tutta Europa. Gli amici di Putin andavano cercati lì, non certo nelle file dell’Anpi, dell’Arci, non fra chi come noi, in Parlamento e fin dal primo minuto e senza esitazione si è schierato contro l’escalation delle armi, prendendo le distanze da chi afferma che si possa intervenire esclusivamente per via militare e fino ad esaurimento delle forze in campo.
Su questo la piattaforma del 5 novembre si esprime chiaramente.
Io penso che sia doveroso, come fa la piattaforma della manifestazione, esprimere un giudizio molto netto su quello che è accaduto e accade in Ucraina, sul fatto che c’è un aggressore e un aggredito, la Russia ha aggredito in modo inaccettabile un Stato sovrano e l’Ucraina è vittima di questa aggressione, ma occorre contestualmente, con altrettanta forza e fermezza dire che il primo strumento per aiutare le vittime di questa aggressione è la ricerca di una via di uscita diplomatica e pacifica dal conflitto Perché la via d’uscita misurata solo sul conflitto militare è una soluzione che non esiste di fronte a una potenza nucleare. La via bellica non può che aggravare, esasperare la sofferenza di chi vive quotidianamente sotto le bombe. Aggiungo che le conseguenze economiche sociali che la guerra determina sono ogni giorno più gravi e come sempre si abbattono sui più fragili, sui civili in modo più duro di quanto non avvenga sui soldati. Le conseguenze economiche del conflitto si abbattono sui ceti popolari, più deboli, in ogni società, come sta avvenendo in questi giorni nel nostro Paese. Da questo punto di vista sono molto contento che sia cresciuto un fronte pacifista che sostiene questa iniziativa a cominciare dai M5stelle. Vedo anche crescere nel Pd una articolazione di posizioni. Non mi interessa ribadire di essere stato il primo e per lungo periodo anche l’unico ad aver sostenuto questa posizione in Parlamento. Ma credo che a maggior ragione su questo occorra costruire elementi di convergenza in grado di rendere più forte la parola pace e una iniziativa che chiede all’Europa un impegno e anche al resto del mondo. Parlo dell’Europa in primis perché rischia di essere in prospettiva la prima vittima di un conflitto.
Non solo il tema della pace ma anche quello delle disuguaglianze è stato trascurato in campagna elettorale insieme a quello della precarizzazione del lavoro. Intervistato da Left il segretario del Pd, Letta, ha ammesso: «Sul Jobs act abbiamo sbagliato dobbiamo abolirlo». Forse lo ha detto troppo tardi? È difficile riconquistare la fiducia di giovani che si sono visti precarizzati da provvedimenti di centrosinistra…
Io credo che in questo caso il Pd abbia pagato un inevitabile prezzo di credibilità. Perché occorre costruire, ricostruire anche in modo faticoso una relazione fra ciò che si dice e ciò che si fa. Anche in questo caso quando il Jobs act è stato proposto e approvato noi abbiamo combattuto contro quella scelta e abbiamo fatto della lotta alla disuguaglianza il cuore della nostra iniziativa. La stessa alleanza Verdi Sinistra italiana nasce dall’idea che il rapporto fra giustizia sociale e giustizia sociale sia un rapporto inseparabile, un po’ come avviene per i diritti civili e i diritti sociali. Oggi la disuguaglianza assume dimensioni sempre più insopportabili nel Paese, aggravate dall’inflazione che tocca il 12 per cento, livello impressionante e che mangia potere d’acquisto a salari e pensioni. E in più di qualche caso, come è accaduto per i salari negli ultimi trent’anni (caso unico quello dell’Italia in Europa) camminano perfino all’indietro. È arrivato il momento di una iniziativa che da un lato lavori per redistribuire risorse attraverso la leva fiscale, dall’altro per porre di nuovo all’ordine del giorno il tema un meccanismo che garantisca l’aggancio di salari e pensioni al costo della vita, dunque all’inflazione. Tornare a parlare di scala mobile o altri meccanismi che abbiano quel tipo di filosofia, è a mio avviso non solo è possibile, non solo opportuno, ma è necessario.