La Regione Lazio ha attraversato i tre anni di emergenza legata alla pandemia, venendo considerata virtuosa, se confrontata alla drammatica e colpevole gestione della Regione Lombardia ed, in particolare, per il metodo adottato relativamente alle vaccinazioni. Buona parte del merito è stato ascritto all’assessore alla Sanità oggi candidato alla presidenza stessa delle elezioni, Alessio D’Amato.
Ma siamo certi che la sanità nel Lazio funzioni realmente? Le lunghe liste d’attesa e le prestazioni di cui c’è bisogno, ci permettono di considerare questa, una istituzione che privilegia il servizio ai cittadini? Molte e molti di noi, soprattutto noi donne, ci siamo trovate in realtà a fare i conti con una delle tante istituzioni italiane che hanno preferito, negli anni, anche durante la pandemia, esternalizzare e a trasformare il servizio fondamentale, di cui l’ente è responsabile, quello che rappresenta la maggiore voce di spesa, in un’azienda in cui quello che prevale è una logica di profitto. A farne le spese la sanità pubblica, a ricavarne profitto, le strutture private, i grandi nosocomi, spesso in mano a fondazioni private riconducibili ad istituti religiosi.
Come se anche il principio di laicità, sancito dalla Costituzione, debba essere costretto ad arretrare, a divenire subalterno a quello dell’interesse privato, non casualmente gestito dalla Chiesa. Questo si traduce non solo in vincoli di “subalternità culturale” ad una gestione della salute pubblica e delle prestazioni sanitarie spesso in aperto contrasto con le leggi italiane. Così come la legge 194 e la garanzia nei tempi stabiliti dell’interruzione di gravidanza e non solo, la chiusura di molti consultori denunciata dai movimenti di donne.
È evidente che il mal funzionamento della sanità pubblica è funzionale per quelle istituzioni, private, convenzionate e confessionali, che traggono profitto dall’inadempienza delle strutture pubbliche a cui, invece, si tolgono risorse. Ci sono dati incontrovertibili: nel Lazio la spesa pubblica sanitaria è, in termini pro capite, di circa 2.200 euro. Nel 2021 circa 3,8 miliardi di euro sono stati complessivamente destinati a operatori privati. Un aumento del 22% rispetto al 2012. Oltre 1,5 mld è stato destinato per prestazioni ospedaliere presso strutture private accreditate e nell’ultimo triennio c’è stato un significativo aumento di risorse economiche destinate alla sanità privata convenzionata che appare essere la modalità di gestione delle risorse economiche pubbliche. Un esempio: il 19 ottobre scorso è stato inaugurato dal candidato alla presidenza della Regione Lazio, già assessore alla Sanità, nello spirito dei valori cattolici, il nuovo ospedale Fatebenefratelli Isola Tiberina – Gemelli Isola, destinato ad essere un polo di eccellenza nazionale. Il nosocomio, il più antico della capitale, ha avuto un cambio di gestione. La Casa Generalizia dell’Ordine ospedaliero di San Giovanni di Dio, ha ceduto il passo al “Gemelli Isola”, società creata dalla Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli Irccs. Presentando piano industriale e governance della nuova struttura che vede la fusione tra l’attività assistenziale dell’ospedale dell’Isola Tiberina e le competenze cliniche, didattiche e di ricerca del Gemelli.
In questo contesto con nonchalance è stato serenamente affermato che l’85% delle prestazioni fornite, saranno a carico del Servizio sanitario nazionale, ovvero, dalla Regione di competenza. Un parametro più generale da questo punto di vista è costituito dai Lea (Livelli essenziali di assistenza) definiti con il Dpcm del 12 gennaio 2017. Ora, al di là del fatto che questi non contengono alcun riferimento alle attività di prevenzione, che evidentemente non sono considerati essenziali, nel Lazio è garantito un livello alto ma, contemporaneamente, un forte utilizzo del privato convenzionato. In sintesi, la qualità dei servizi non è garantita dagli investimenti sulla sanità pubblica ma da terzi. A farne le spese sono coloro che soffrono di patologie croniche, poco remunerative per le aziende private, come chi necessita più di prevenzione che di ospedalizzazione o prestazioni specialistiche.
Ma il vulnus più pesante si avverte quando le leggi dello Stato vanno in contrasto con i “valori non negoziabili” (così li definiscono), del personale dirigenziale e sanitario che opera nelle strutture legate al mondo cattolico. Se già, come denunciato nel settembre 2021, il 66% dei ginecologi delle strutture pubbliche (166 su 314) si dichiarava “obiettore di coscienza nell’applicazione della legge 194″, ancora più inquietante quanto appreso con l’indagine “Mai dati”. Alla ricerca, promossa dall’Associazione Luca Coscioni attraverso una richiesta di accesso civico alle regioni e relativa al 2021, metà delle istituzioni preposte, fra cui la Regione Lazio, non ha ancora fornito risposte. L’unico dato che esiste, non disaggregato per Regioni, in materia di interruzione di gravidanza risale al 2020. Come si può quindi accettare che si incrementino le risorse economiche a strutture che, hanno nella loro mission, quella di non rispettare una legge dello Stato già poco rispettata da chi dovrebbe farlo? Non sarebbe più importante ad esempio investire nell’apertura di consultori in quanto luoghi di confronto e di crescita per le donne. Sono 134 – di cui alcuni da tempo chiusi per ristrutturazione – i consultori nella Regione, molti di questi, nonostante la recente decisione di garantire la pillola contraccettiva gratuita a ragazze fra i 15 e i 19 anni, non hanno uno “spazio giovani” aperto. Una lacuna gravissima per una regione densamente popolata come il Lazio. (Per approfondire ulteriormente leggi il numero di Left Che cosa dice la scienza sull’aborto ndr).
Quelli che mi sono permessa di fare sono piccoli esempi di come, in perfetta linea con il “modello Lombardia”, fatto di avanguardia delle prestazioni specialistiche e disattenzione per la salute “ordinaria”, fisica e psicologica, si sia imposto anche da noi una cultura aziendalista in un settore primario della nostra vita come quello della cura, affidandolo a enti il cui impianto ideologico persegue finalità dichiaratamente non compatibili con le nostre leggi e i nostri principi di laicità. Ho parlato, da donna, di questioni che ci riguardano in quanto tali e riguardano in particolare le ragazze.
Vorrei anche solo accennare ad ambiti che riguardano la sanità e investono profondamente la nostra cultura come le questioni del “fine vita”, su cui Chiesa e strutture sanitarie da questa gestite, sono agli antipodi di una società laica. Non sono entrata nel merito di quanto sta accadendo nelle Regioni governate direttamente dalla destra più oscurantista ma se già dove vivo, il cosìddetto centro sinistra è venuto meno ai suoi doveri, non oso immaginare cosa potrà accadere in futuro. Nel Lazio, come in gran parte del Paese e delle sue istituzioni, c’è bisogno di una vera e propria rivoluzione che determini cambiamenti tanto culturali quanto di una più attenta ripartizione delle risorse verso le strutture pubbliche. Vorrei vivere in un Paese in cui chi si dichiara “obiettore di coscienza” e in quanto tale non accetta di garantire le prestazioni dovute, eserciti in strutture private a cui lo Stato non debba destinare risorse pubbliche. E, infine, vorrei una Regione in cui non sia la Conferenza episcopale ad avere voce sulla sanità come sulle altre linee di spesa così come sui provvedimenti legislativi che si vogliono adottare. La fede e le chiese tornino ad esercitare nei propri ambiti, le leggi definiscano, laicamente, il ruolo primario del pubblico con la propria funzione universale.
L’autrice: Rosa Rinaldi è candidata dell’Unione popolare alla presidenza della Regione Lazio