È una notizia che non si dovrebbe mai sentire quella della morte di un bimbo di un anno soltanto, ma soprattutto non si dovrebbe mai provare quell’angoscia e quel senso di impotenza nello scoprire che questo bimbo muore per mano della propria madre.
«Venite, ho ucciso mio figlio» sono le parole di aiuto con cui E. accoglie i carabinieri che giungono sul posto, una frase che svela il dramma di una donna nel momento più atroce della sua vita. Tutta questa storia è un dramma, non solo per l’infausto epilogo, ma perché obbliga a pensare e ripensare a come abbattere i muri dello stigma della maternità edulcorata per permettere non solo alle donne, ma ai partner e alle famiglie d’origine di affrontare in profondità il problema e sostenere la maternità in crisi.
Tutti a casa sapevano che E. stava attraversando un periodo di depressione post partum, che a momenti era più agitata e che uno specialista aveva raccomandato di non lasciarla sola. Le maglie della rete familiare si sono sfilacciate per un’ora soltanto, eppure quell’ora è stata fatale. Un gruppo intero di persone si confronta con la malattia mentale e non ne sostiene il peso.
Questo articolo è riservato agli abbonati
Per continuare la lettura dell'articolo abbonati alla rivista
Se sei già abbonato effettua il login