I femminicidi non accennano a diminuire in Italia: 8 donne uccise in ambito familiare ogni mese nel 2023 secondo il Viminale. E questo mentre gli omicidi e altri crimini sono in costante diminuzione. Una strage di donne avviene silenziosamente nonostante leggi severe, nonostante la crescente attenzione alla formazione del personale di polizia e dei magistrati.
Colpisce anche che a uccidere le proprie compagne siano, non di rado, giovanissimi uomini fra il 18 e i 35 anni. Come leggere questi “dati”? Lo chiediamo agli psichiatri e psicoterapeuti Irene Calesini e Massimo Ponti che, con Viviana Censi, hanno scritto Violenza contro le donne (l’Asino d’oro).
«La situazione è tornata di nuovo allarmante, c’era stata una leggera flessione di femminicidi nel post pandemia, ma adesso siamo tornati di nuovo a cifre purtroppo sconfortanti», osservano i due psicoterapeuti. Da gennaio a maggio 2023 sono stati registrati 129 omicidi, le vittime donne sono 45, e 39 sono femminicidi, 22 per mano del partner. La media è di circa 8 donne uccise al mese, tante quante nel maggio del 2020 in piena pandemia quando molte donne stavano rinchiuse in casa con i loro “aguzzini”. «Per dare calore a questi freddi dati – approfondiscono Calesini e Ponti – e senza peccare di troppa esemplificazione possiamo pensare: quanto più la donna vive la sua libertà tanto più cresce l’angoscia in certi uomini e la paura di perderla. Le istituzioni, gli specialisti, noi tutti siamo chiamati a lavorare sulla prevenzione per dare alle nuove generazioni il vero senso del termine “persona”, annullato da una società basata sulla mercificazione dove tutto si compra, e così anche i valori umani nelle relazioni come espressione di autenticità e rispetto diventano all’insegna del consumo veloce e rapido. Soprattutto nei giovani non riscontriamo il senso dell’attesa, conta visualizzare, più che vivere direttamente.
Anche la premier Meloni ora dice che occorre un cambiamento culturale portando nelle scuole la testimonianza delle donne che hanno subito violenza. Ma come promuovere un vero cambiamento di mentalità che permetta finalmente di superare gli stereotipi e una piena accettazione dell’identità della donna, «uguale e diversa»?
Sappiamo quanto la cultura di destra – sempre che possiamo parlare di una destra portatrice di cultura – con i suoi capisaldi e stereotipi di “Dio, Patria e Famiglia”, cerchi di proporsi come cambiamento. La destra nella storia ha sempre rubato alla sinistra i contenuti culturali più evolutivi e li ha poi svuotati di contenuto. Una certa destra voleva revisionare i libri di storia a proposito del ventennio fascista e far passare Mussolini come un grande statista che aveva soltanto fatto scelte sbagliate a proposito di alleanze. Pensiamo anche al santo padre che a proposito di uguaglianze disse che i bambini non battezzati non sono uguali a quelli battezzati. Detto questo ben vengano iniziative dove si parli di questo drammatico problema e auspicabilmente di diversi rapporti tra donne e uomini, soprattutto nelle scuole.
Il codice rosso e il braccialetto elettronico non sarebbero stati utili e sufficienti per salvare Giulia Tramontano: il compagno della ventinovenne, Alessandro Impagniatello, non aveva compiuto azioni palesemente violente nei riguardi di lei prima di quella terribile sera in cui l’ha uccisa. Quanto è importante imparare a cogliere certi segnali e sviluppare una formazione personale, umana, che permetta di vedere la violenza invisibile, prima che diventi manifesta?
In materia di disciplina penale e processuale la legge n. 69 del 19 luglio del 2019 a riguardo della violenza domestica e di genere è stata importante per le donne, ma il problema è che per gli uomini violenti la legge non costituisce nessun deterrente e continuano nelle loro azioni di sopraffazione e maltrattamenti. Purtroppo questo grave fenomeno non lo fermi soltanto con la legge. A dimostrazione di quanto detto, prendiamo ad esempio la recente uccisione dell’agente di polizia Pier Paola Romano nella periferia romana: lì non possiamo dire che il collega, poi suicidatosi, non conoscesse il codice rosso. Il grosso lavoro da svolgere è sulla prevenzione; è importante lavorare per fare emergere e crescere una nuova mentalità e una nuova cultura, in campo sociale e anche psichiatrico. È questo il nodo, ribadiamo, sviluppare una nuova cultura. Ma come arrivarci concretamente?
Il cimento è assai arduo, come nel delitto di Giulia Tramontano, dove non sembravano esserci segni manifesti di una così grave malattia nell’omicida, un “normale” ragazzo come tanti. Possiamo pensare, con le dovute cautele, a una diagnosi di personalità psicopatica, difficile da individuare. Questo avvalora ancor di più la necessità di una formazione in psichiatria che non si affidi soltanto a un’analisi del comportamento, ma vada ad indagare quel terreno complesso che è il pensiero non cosciente dell’individuo. Noi lo diciamo chiaramente nel nostro libro che dietro ogni violenza fisica c’è una violenza psichica ed è necessario cogliere nella anaffettività, quella violenza invisibile che rende l’altro niente, non esistente, trasformato in cosa, per cui si perde totalmente quel senso di “persona” a cui accennavamo sopra. Bisogna fare anche un discorso sulle vittime, quanto e come si fanno accecare da questa seduzione fascinosa dall’uomo apparentemente sicuro di sé ed efficiente nelle cose materiali ma estremamente malato negli affetti e nelle relazioni umane, e in questa cecità rischiano anche la morte. Ma questo è un argomento che merita certamente una ulteriore attenzione ed una sensibilità che non colpevolizzi ancora una volta le donne.
Se c’è amore non c’è violenza. La violenza è sempre patologia. Parrebbe un discorso ovvio. Eppure molte femministe dicono che gli uomini che uccidono le proprie compagne, fidanzate, mogli, amanti sono “normali” portatori di una cultura patriarcale. Non accettano che si possa dire che sono malati di mente, come se questo significasse scagionarli. Come rispondere?
Che amore e violenza non possano andare insieme perché sono due “condizioni dell’animo” agli antipodi, temo sia una acquisizione certa per alcuni, ma ancora troppo “forte” per molti. (E soprattutto è ancora una idea controcorrente rispetto alle continue riproposizioni di narrazioni, film, opere letterarie in cui amore e morte sembrano indissolubilmente legati.) È un discorso che merita calma e approfondimento. Molte delle storie che esitano in violenza fino al caso del femminicidio sono iniziate come normali, usuali storie di amore, innamoramento, con progetti in comune, ecc. Questo dicono le donne che da anni si occupano di contrastare la violenza e lavorano nelle case rifugio, nei centri antiviolenza, nella scuola, nei progetti di prevenzione. Ed è vero; bisognerebbe andare al di là di contrapposizioni femministe-non femministe, per tentare di comprendere quello che succede. In alcune normali storie di amore, relazioni che iniziano con un innamoramento, si verifica a un certo punto una violenza agita dall’uomo, in varie forme, psicologica, sessuale, fisica, economica. Si imposta più o meno da subito o si rende più o meno evidente in certi momenti come particolari passaggi della vita di coppia o del percorso personale della donna (gravidanza, ricerca di indipendenza economica e maggiore autonomia, realizzazioni personali, rifiuto di situazioni prima accettate o tollerate o subite).
Cosa c’è alla base?
Sicuramente una invisibile violenza che è insita nel sistema patriarcale, che è il pensiero, strutturato da molti secoli, ma iniziato millenni fa, che le donne siano da controllare, da educare, da tenere a bada perché carenti o assenti di razionalità, cioè irrazionali, imprevedibili, pericolose perché seducono e distraggono gli uomini dai loro doveri; perché l’irrazionale è stato sempre associato al Male, in qualunque modo sia stato chiamato dalla filosofia, dalla religione, dalla politica. Inoltre sono legate al mondo misterioso della nascita, della vita e della morte. Questo pensiero è anche presente, e più o meno consapevole o strutturato nell’uomo che agisce quella violenza. E allora qui si inserisce la individuale, personale, dimensione cosciente e non cosciente dell’uomo in questione: la sua incapacità di relazionarsi all’altra nella sua interezza di persona, appunto, come altra individualità. A volerla vedere troviamo allora una psicopatologia più o meno evidente, spesso senza alcuna diagnosi psichiatrica pregressa. Si possono leggere certi comportamenti, certe ossessioni, certe gelosie patologiche, certo bisogno di controllo continuo come segnali di una condizione psichica non sana. Su questo dovremmo fare tutti uno sforzo di approfondimento perché qui si intrecciano questioni sociali, giuridiche, medico legali non facili da dirimere. Per cui capisco chi teme che dando la patente di malato psichiatrico ad un uomo che uccide una donna “perché è una donna”, (vedi la definizione femminicidio), questi venga deresponsabilizzato circa il suo atto e soprattutto si riduca il fatto ad un evento privato, ad un episodio, di per sé occasionale. E si dia un giudizio implicito sulla donna: o è stata sfortunata o è stata proprio stupida a non rendersi conto del pericolo… Mentre è ormai chiaro che questi non sono “fatti privati” ma costituiscono un fenomeno sociale di grandi dimensioni, con alcune caratteristiche che si ripetono ed altre che evolvono nel tempo, e ci interrogano sul loro significato e necessitano di risposte precise in ambito preventivo e culturale, oltre che di protezione e aiuto alle vittime, e perseguimento dei colpevoli.
È un fenomeno non solo privato ma sociale?
Dovremmo fare uno sforzo per uscire da schemi mentali semplici da ripetere come: “cultura patriarcale onnipotente” da una parte e malattia mentale – del maschio – dall’altra, come cause contrapposte ed uniche della violenza contro le donne. Non vogliamo con questo svicolare, come spesso si fa in medicina quando non si è certi delle cause di malattia, su un generico discorso di “multifattorialità” o dire semplicemente che l’una e l’altra causa lavorano insieme. Dobbiamo pensare all’insieme come un fenomeno dinamico, in cui la società ancora per molti aspetti patriarcale e post patriarcale – nonostante i diritti acquisiti- agisce con messaggi veicolati dai mezzi di informazione, dalla pubblicità, ancora dai testi scolastici, sui bambini e sulle bambine, sugli adolescenti, sulla loro formazione personale, distorcendo la percezione dell’altro, con una impostazione culturale che non aiuta a crescere rapportandosi a chi è diverso da sé, ma uguale nel suo essere umano e nel suo valore di essere umano. Questa società non è in grado di garantire il benessere psichico dei suoi componenti, di uomini e donne che diventeranno eventualmente genitori, docenti, persone attive nella cultura, nella ricerca, persone che svolgono le professioni di aiuto, persone che avranno a che fare direttamente o indirettamente con i più piccoli. E sappiamo per la nostra impostazione teorica quanto i primi anni di vita siano cruciali nel fisiologico sviluppo psico-fisico e per la sanità mentale dell’individuo. (con le relazioni umane che si hanno dopo la nascita, che è originariamente fisiologica ed integra nella naturale fusione corpo mente per ognuno). Insomma c’è una interazione tra società, cultura ed individui; la patologia mentale non si può escludere nei casi di femminicidio, ma non è la unica causa di essi; per prevenirli occorre vedere in ogni caso quale essa sia-
Quali sono i segnali da cogliere?
Per prima cosa bisogna ascoltare cosa dice la donna, dare la opportunità a chi si rende conto che qualcosa non va nella persona che ha accanto o nella relazione, di parlarne, di trovare alleati. Anche chi, uomo o ragazzo, trovasse il coraggio di chiedere aiuto per affrontare una situazione di difficoltà o incapacità di rapporto con una donna, deve trovare risposte adeguate. Qui interviene il discorso dei servizi sociali e sanitari accessibili a tutti, che facciano prevenzione a più livelli, diagnosi e cura con personale formato. Un enorme impegno culturale, sociale e sanitario per rispondere ad un fenomeno sociale trasversale, sistemico, strutturale.
La conquista di una maggiore consapevolezza e autonomia delle donne scatena reazioni violente in regimi e società ancorate a pregiudizi misogini. Penso a quel che accade in Medio Oriente e alla rivoluzione culturale che le giovani donne iraniane stanno portando avanti a costo della vita. Che ne pensate? Anche da noi, in maniera sotterranea, accadono reazioni simili anche se non viviamo in un regime teocratico?
Siamo assolutamente d’accordo con te. Mentre sembra abbastanza semplice pensarlo per i regimi e gli Stati teocratici piuttosto lontani da noi, è più difficile pensare che una dinamica del genere, in forme diverse, ci sia anche qui. Basta pensare alla costante lotta che dobbiamo fare per difendere i diritti acquisiti, per contrastare i messaggi falsi e confondenti sulla realtà umana, sulla sessualità, sulla libertà. Con tutte le contraddizioni possibili in Italia c’è una consapevolezza delle donne di sé stesse, delle proprie esigenze, del proprio valore e questo può essere un problema per chi vuole imporre un modo di vivere e pensare funzionale, diciamo, alla società capitalista e neoliberista. Il coraggio delle donne in tante occasioni, nel mondo e anche nella vita del nostro Paese ha innescato e determinato cambiamenti enormi nella società e nelle leggi (Pensiamo a Rosa Parks, a Franca Viola solo per accennare alcuni nomi, ma anche alle innumerevoli e anonime donne che si sono battute, nei secoli, per i diritti di tutte e tutti); questo non va dimenticato ed è ancora indispensabile. Vanno aiutate le giovani generazioni, le ragazze e i ragazzi a comprendere da dove veniamo, per orientarsi in una cultura che ancora nega molte “cose” (le donne, la malattia mentale, la nascita umana…) Le coraggiose donne iraniane, curde, afgane ci ricordano ancora che il potere e le religioni non amano le donne, né i bambini, né chi dice No.
Questa intervista è stata pubblicata sulla rivista Left di Luglio 2023 Non chiuderemo i nostri occhi