Acuto osservatore della realtà ma anche studioso di storia, il direttore del Giornale Radio Daniele Biacchessi con il suo nuovo libro riapre l’armadio della vergogna rimasto per anni con le ante rivolte verso il muro con dentro documenti “archiviati provvisoriamente” sulle violenze da parte dei nazifascisti. Il frutto della nuova ricerca del giornalista e scrittore è Eccidi neonazisti, da poco uscito per Jaca Book. In questo momento di “revisionismo” storico, Biacchessi riparte dal giornalista Franco Giustolisi, che sull’Espresso nel 1996, fece esplodere, nella coscienza dei lettori, la scoperta di quell’armadio dove furono depositati fascicoli regolarmente protocollati e altra documentazione che riguardava le stragi nazifasciste in Italia, nel 1943-1945.
Daniele Biacchessi, un suo spettacolo si intitolava La storia e la memoria. Come si intrecciano questi due aspetti intorno ai fascicoli riscoperti?
Sì, quello fu il mio primo spettacolo di teatro civile che realizzai a Cuba, in tour, nel 2004. Il primo quadro raccontava una fotografia scattata a Sant’Anna di Stazzema, il 12 luglio 1944. Era una festa della fine dell’anno scolastico e i bambini facevano un bellissimo girotondo, solo un mese prima che i loro sogni venissero infranti. Era da molto tempo che mi occupavo della verità e della mancata giustizia sulle stragi nazifasciste, esattamente da quando Giustolisi fece conoscere per primo il contenuto di 695 fascicoli occultati dalla politica e dalla magistratura militare per troppi anni. Quella documentazione nascosta dal 14 gennaio 1960 rappresenta la grande ferita italiana.
Quale fu la reazione di Giustolisi alla scoperta del materiale “imboscato”?
Era un grande giornalista che aveva lavorato su terrorismo, criminalità, P2 e molto altro ancora. Poteva girarsi dall’altra parte, far finta di niente, fare quello che altri avevano fatto nel corso del tempo. Invece si è messo a scrivere. E ha raccontato una storia che parte dal 14 gennaio 1960.
Come si dipana quella storia?
Il procuratore generale militare Enrico Santacroce, che dipende dalle volontà politiche del governo Segni (Andreotti alla Difesa, Pella agli Esteri, Gonella a Grazia e giustizia), emette un decreto di archiviazione provvisoria dei documenti sulle stragi nazifasciste avvenute tra il 1943 e il 1945, in Italia, ex Jugoslavia, Grecia, contro civili, militari che non aderiscono alla Rsi, partigiani. La storia che ho ricostruito nel mio libro arriva al maggio 1994, quando il procuratore militare della Repubblica di Roma Antonino Intelisano è impegnato nel processo per le Fosse Ardeatine contro l’ex capitano delle SS Erich Priebke. Sta cercando in archivio una richiesta di autorizzazione a procedere che potrebbe essere contenuta negli atti del precedente processo contro Herbert Kappler.
All’inizio la missione pareva impossibile?
Sì, ma poi il procuratore generale militare Renato Maggiore interpella il dirigente della Cancelleria Alessandro Bianchi, che rammenta l’esistenza di un carteggio in un locale adibito ad archivio, al piano terra del Palazzo Cesi-Gaddi a Roma. Maggiore e Bianchi si rivolgono quindi a Floro Rosselli, magistrato in pensione esperto di archivi. Così Intelisano scopre un armadio in legno marrone, sigillato, con le ante rivolte verso il muro, chiuso a chiave, protetto da un cancello in ferro e da un lucchetto. Vengono alla luce 695 fascicoli raccolti in faldoni, stipati uno sull’altro. C’è un registro composto da 2.274 notizie di reato, il cosiddetto “Ruolo generale dei procedimenti contro criminali di guerra tedeschi”. Tutto è archiviato, o meglio occultato, in modo rigoroso, preciso, ordinato. Si viene a sapere che in realtà i fascicoli complessivi sono 2.205: 260 inviati ai tribunali ordinari nell’immediato dopoguerra, 1.250 distribuiti alle Procure militari territorialmente competenti, 695 fatti sparire per un terzo di secolo. Nel libro ci sono i nomi dei criminali nazisti e fascisti responsabili di quegli eccidi, c’è la descrizione minuziosa del muro di gomma messo in campo dagli apparati dello Stato per ostacolare la ricerca della verità, il coraggio del giornalista Giustolisi che per primo conia il termine “armadio della vergogna”, i processi giudiziari compiuti e le domande rimaste senza risposte.
Che tipo di guerra è quella in cui non si fronteggiavano gli eserciti ma si scatena nei confronti della popolazione civile?
I nazisti ordinavano, i fascisti eseguivano perché conoscevano il territorio delle operazioni militari. Le vittime erano donne, vecchi, bambini, piccoli ancora in fasce. Il sistema nazista era preciso e si basava sugli ordini draconiani impartiti dal feldmaresciallo Albert Kesselring, secondo cui chiunque viene trovato in una zona «infestata dalla presenza di banditi» è pure lui partigiano. Infatti negli atti riservati dello “Special Investigation Branch (sib) (documento “Report on German Reprisals for Partisan Activity in Italy”, 9 luglio 1945), è scritto che le rappresaglie non erano eseguite su ordine dei comandanti di singoli formazioni ed unità tedesche, ma erano esempi di una campagna organizzata, diretta dal Quartier generale del feldmaresciallo Albert Kesselring.
Chi erano i civili entrati nel bersaglio nazifascista?
Molti di quegli abitanti aiutavano le brigate partigiane per i loro figli che erano partiti per le tante guerre perse dal fascismo (Etiopia, Grecia, Albania, Libia, Russia), e mai più ritornati, perché uccisi nei vari teatri di guerra.
E gli autori delle stragi?
I soldati nazisti del Secondo reggimento della 16a SS-Panzergrenadier-, Sant’Anna di Stazzema, Vinca, Valla, Bardine di San Terenzo, Bergiola Division (responsabili delle stragi con il maggior numero di vittime come Montesole-Marzabotto Foscalina, fiume Frigido, Certosa di Farneta), erano stati addestrati per la guerra ai civili ben prima del loro arrivo in Italia alla guida del generale Max Simon e da Walter Reder detto “il monco”. Le loro gesta non ebbero nulla di eroico, bensì traevano ispirazione dallo sterminio di tipo castale dettato dalle idee di Himmler. I repubblichini di Salò e le tante polizie segrete obbedivano ai nazisti senza fiatare. Il prefetto di Roma Pietro Caruso e il responsabile del Reparto speciale di polizia, il sadico e cocainomane Pietro Koch avevano compilato insieme a Herbert Kappler (capo del servizio segreto nazista), le liste dei 335 antifascisti romani da mandare alla fucilazione alle Cave Ardeatine. E gli uomini della XI Compagnia del terzo Battaglione del SS-“Bozen” uccisi dai partigiani dei Gap in via Rasella, non erano componenti di una banda musicale di semi pensionati, come li ha definiti il presidente del Senato Ignazio La Russa, ma una squadra addestrata e specializzata in rastrellamenti anti- partigiani, a Roma.
Che tipo di ragione di Stato è quella che nasconde la verità?
Nel libro pubblico lo scambio di lettere tra l’allora ministro degli Esteri Gaetano Martino e il ministro della Difesa, il democristiano ed ex partigiano bianco Paolo Emilio Taviani, nella quale si sostiene l’inopportunità di alimentare in quella fase storica una polemica contro la Germania, proprio nel momento in cui il governo di Bonn riorganizza l’esercito in funzione anche di scudo atlantico contro l’Est sovietico. Nel 1960 la Germania, sconfitta e lacerata, è divisa in due dal muro di Berlino. Il nemico dell’Occidente non è più il nazismo, ma l’Urss. In Italia è terminata la ricostruzione, c’è il boom economico, e i civili e i militari uccisi devono restare avvolti nell’ombra, come vittime invisibili. Così il procuratore generale militare gen. Enrico Santacroce, che dipende dalle volontà politiche dell’allora governo Segni (Andreotti alla Difesa), archivia in forma illegale la verità sulle stragi contro i civili in Italia. Qualcuno ha ordinato, qualcuno ha eseguito.
Il magistrato capo della Procura militare, Marco De Paolis dice che grazie allo scoperta di quei fascicoli, “una piccola Norimberga” l’abbiamo fatta anche noi. Possiamo dire di aver fatto i conti con il nostro passato?
L’Italia è un Paese a sovranità limitata. Lo ha dovuto ammettere anche Giuliano Amato raccontando ciò che sa della strage di Ustica. Nell’immediato dopoguerra, secondo il rapporto della Commissione per l’epurazione dell’Alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo del 1945, su 143.781 dipendenti pubblici dello Stato fascista esaminati, 13.737 vengono processati e, di questi solo 1.476 rimossi dal loro incarico. Negli anni Sessanta su 64 prefetti, 62 sono funzionari degli Interni durante la dittatura fascista; 241 viceprefetti provengono dall’amministrazione fascista; 120 su 135 questori giungono dalle varie polizie ufficiali della Repubblica di Salò; 139 vicequestori entrano in servizio durante il fascismo. Solo 5 di loro contribuiscono in qualche modo alla Resistenza. Interi settori della magistratura e della polizia, dell’esercito, della burocrazia e dell’università, rimangono al loro posto, si sottraggono alle misure di bonifica democratica. Alti funzionari dello Stato fascista saranno poi gli stessi a gestire parti influenti degli apparati del nuovo Stato repubblicano.
Il ruolo di Mario Scelba?
Da ministro degli Interni dal 1947 al 1953 e poi dal 1960 al 1962, ricolloca un buon numero di funzionari fascisti in posti chiave per l’ordine pubblico e per la repressione di ciò che viene individuato come nemico dello Stato: comunisti, socialisti, partigiani, sindacati, intellettuali. Sono quegli apparati che gestiscono nei fatti una parte della storia italiana repubblicana. Gente come Roatta, Guida, Umberto d’Amato, Russomanno, Leto, Messana, Verdiani, Messe, Ravalli. Secondo Alessandro Galante Garrone l’epurazione fu una burletta. Si sarebbe dovuto procedere dall’alto. Invece ci si accanì contro gli applicati d’ordine e gli uscieri, o magari il capo fabbricato che aveva indossato la divisa per vanità. Non si vollero o non si poterono colpire gli uomini veramente colpevoli e le vecchie strutture dello Stato e della società.