Nel libro "Gaza la scorta mediatica" il giornalista Premio Chiarini 2024 indaga come la grande stampa ha accompagnato il massacro e perché se ne è tirato fuori. Ecco un estratto dall'introduzione. In collaborazione con left, Oriani interviene il 2 giugno al festival Encuentro in dialogo con la scrittrice palestinese Suad Amiry

«C’è stato un genocidio nella Striscia di Gaza e la libera stampa non se ne è accorta», scrive il giornalista Raffaele Oriani (Premio Chiarini, 2024). Nel suo nuovo libro Gaza, la scorta mediatica (People) indaga perché tanta parte dei media hanno abdicato al proprio dovere di testimoniare, condizione necessaria per una reazione forte dell’opinione pubblica e per fermare la strage. Lui stesso, Oriani, ha deciso di interrompere la collaborazione con Il Venerdì. Le ragioni le racconta in questo libro di cui pubblichiamo un estratto dall’introduzione:

 

Il 7 ottobre in Israele c’è stato un massacro, e dall’8 ottobre a Gaza è in corso una carneficina, uno sterminio, insomma: un genocidio. Mi sono chiesto se Il Venerdì di Repubblica, il gruppo la Repubblica, il lavoro che stavo facendo, fossero il posto giusto dove trovarsi quando tutto crolla. O almeno un posto non troppo sbagliato. Non si tratta di essere o non essere d’accordo con l’approccio geopolitico del giornale. Quando succede una cosa così enorme come un genocidio si tratta prima di tutto di non averci nulla a che fare, di essere proprio sicuri di non averci nulla a che fare. Molto semplicemente, a Repubblica questa certezza non l’avevo. Tutt’altro. Me ne sono andato per non sentirmi parte della scorta mediatica che in Italia, in Europa e in tutto l’Occidente ha accompagnato, accompagna e probabilmente accompagnerà ancora lo sterminio dei palestinesi di Gaza da parte dell’esercito israeliano.
“Scorta mediatica” è un’espressione che negli ultimi anni ha avuto una grande e meritata fortuna. Enfatizza il potere della libera stampa di contrapporsi alla prepotenza dei gruppi criminali quando prendono di mira i singoli che si oppongono. Si tratta di puntare un riflettore sulla persona a rischio, e mantenere alta l’attenzione dell’opinione pubblica. È stata scortata Federica Angeli di Repubblica quando ha denunciato i malavitosi di Ostia, sul litorale romano. Ma la Federazione nazionale della stampa ha assicurato la propria attenzione, e quindi la propria scorta, a tanti altri colleghi, come i cronisti antimafia Paolo Borrometi a Siracusa, Donato Ungaro a Reggio Emilia o Luciana Esposito a Napoli. Celebre poi è la scorta mediatica che negli anni ha impedito che svanisse nell’oblio il caso di Giulio Regeni, lo studente friulano che i servizi segreti egiziani hanno rapito, torturato e ucciso nell’ormai lontano 2016. Una scorta mediatica fa ancora la differenza. Perché la libera stampa fa ancora la differenza. Se assimilata fino in fondo, questa consapevolezza ha conseguenze immediate. Quando il gioco si fa duro, si può scegliere la pillola blu o la pillola rossa, ma non c’è modo di chiamarsi fuori. Il potere – per esempio mafia, camorra e ’ndrangheta – ama il silenzio. Adora chi si astiene più di chi fa il tifo. La scorta mediatica che accompagna le persone in pericolo punta quindi a fare quanto più rumore possibile. Perché quando il gioco si fa duro, chi non si fa sentire finisce per scortare ladri e assassini.
Non ci siamo fatti sentire. Non abbiamo aiutato i lettori – e non abbiamo costretto i politici – a distinguere il bene dal male. Rispetto alla violenza che travolge ogni cosa e ogni vita, noi giornalisti del mondo libero siamo rimasti assurdamente a guardare. Dall’8 ottobre a Gaza è in corso un mas- sacro che più passa il tempo e più sprofonda in territori inesplorati d’abiezione. Raz Segal, professore israeliano di Genocide Studies, già il 15 ottobre scrive un articolo per Jewish Currents intitolato semplicemente «Un caso da manuale di genocidio». Non è la prima volta che capita alla mia generazione: negli anni Novanta c’è stato il terribile genocidio del Rwanda, quando in tre mesi vennero massacrati quasi un milione di Tutsi e di Hutu moderati; e, sempre negli anni Novanta, abbiamo assistito alla mattanza di Srebrenica, che ha riempito i boschi bosniaci di talmente tante fosse comuni che non si è ancora smesso di aggiornare il conteggio delle vittime. Ma questa volta è diverso: i massacri sono in capo ai nostri amici, alleati, fratelli, in capo a reti economiche, politiche e culturali che dai nostri giornali arrivano fino alle stanze di chi può fermare o rilanciare la strage. Sin dalle prime settimane di bombardamenti, ho avuto questa sensazione, credo corretta: noi stampa libera dell’Occidente abbiamo in mano l’interruttore per fermare o mitigare i massacri. E non lo stiamo usando.
Ho maturato molto presto la convinzione che fosse meglio chiamarmene fuori. Ma poi c’erano il lavoro, i colleghi, le prossime storie da raccontare. Finché, il 24 dicembre, a Gaza avviene una strage peggiore delle altre. Il solito orrore moltiplicato per dieci: 200 morti per una bomba israeliana nel campo profughi di al-Maghazi. A Natale non si pubblicano i quotidiani, a Santo Stefano nemmeno. Il 27 dicembre la Repubblica racconta la strage a pagina 15. A campeggiare in prima pagina c’è un titolo talmente insulso da suonare demenziale: «Grande crisi in fi». Una volta appurato che fi sta per Forza Italia, l’impressione che al giornale si stia facendo di tutto per distogliere l’attenzione da quell’elefante d’orrore non mi molla più. È la scorta mediatica del silenzio. E io voglio provare a premere quell’interruttore.
Sono collaboratore del Venerdì di Repubblica, ma mi sembra giusto che la decisione di chiamarmi fuori non rimanga un affare privato tra me e il mio direttore. Così, il 5 gennaio, scrivo una lettera di congedo agli oltre trecento colleghi del quotidiano. Questo il testo:
Care colleghe e cari colleghi, a malincuore ma ci tengo a farvi sapere che interrompo la mia collaborazione con Il Venerdì. Collaboro con il newsmagazine di Repubblica ormai da dodici anni, ed è sempre un onore vedere i propri articoli pubblicati su questo splendido settimanale. Eppure chiudo qua, perché la strage in corso a Gaza è accompagnata dall’incredibile reticenza di gran parte della stampa europea, compresa la Repubblica (oggi due famiglie massacrate in ultima riga a pagina 15). Sono novanta giorni che non capisco. Muoiono e vengono mutilate migliaia di persone, travolte da una piena di violenza che ci vuole pigrizia a chiamare guerra. Penso che raramente si sia vista una cosa del genere, così, sotto gli occhi di tutti. E penso che tutto questo non abbia nulla a che fare né con Israele, né con la Palestina, né con la geopolitica, ma solo con i limiti della nostra tenuta etica. Magari fra decenni, ma in tanti si domanderanno dove eravamo, cosa facevamo, cosa pensavamo mentre decine di migliaia di persone finivano sotto le macerie. Quanto accaduto il 7 ottobre è la vergogna di Hamas, quanto avviene dall’8 ottobre è la vergogna di noi tutti. Questo massacro ha una scorta mediatica che lo rende possibile. Questa scorta siamo noi. Non avendo alcuna possibilità di cambiare le cose, con colpevole ritardo mi chiamo fuori.
Buon anno a tutti, Raffaele Oriani
Ognuno ha il suo carattere. Il mio se ne sta volentieri al calduccio. L’idea di emergere in modo così netto mi mette profondamente a disagio. So che perdo un lavoro che adoro, ma non so che re azioni susciterà il mio gesto. E così, quando cominciano ad arrivare le prime mail di solidarietà che testimoniano un disagio uguale al mio, mi sento molto rinfrancato. Non sono solo, insomma: il comitato di redazione prende a cuore il caso, dice che porrà il problema al direttore. Ma poi finisce lì: a conti fatti, su 320 giornalisti mi rispondono in quindici, quasi tutti in privato. Per il 95 per cento dei colleghi di Repubblica, ho posto un problema che non è un problema. Ed è così per il 95 per cento dei giornali (solo il Fatto Quotidiano dedica alla vicenda un trafiletto). Non è un buco nell’acqua, perché non mi aspettavo nulla. Ma certo il mio gesto non ha creato lo scompiglio necessario a virare di qualche grado la rotta del giornale.
Poi però Paolo Mossetti, giornalista napoletano molto attivo online, pubblica su X il testo della lettera. E da qui inizia un’altra storia, che da bravo boomer analogico non avevo minimamente preso in considerazione. Sui principali canali social il mio testo di congedo trova più di un milione di lettori. E le migliaia di commenti che seguono sono quasi unanimi, unanimemente imbarazzanti: Oriani diventa uomo vero, schiena dritta, eroe, unico giornalista, residua speranza, guerriero solitario, e tante altre splendide cose che con me non hanno nulla a che fare. Se per i miei colleghi il problema non esiste, per la gente comune – per i loro (potenziali) lettori – è una montagna di polvere che esce finalmente dal tappeto. C’è una diffusa, radicata consapevolezza che sulle stragi di Gaza la nostra stampa non stia facendo il proprio dovere. Che oscuri il dolore palestinese. Che distribuisca colpe e tragedie sulla base di pregiudizi inconfessabili. La mia lettera diventa il bimbo della favola di Andersen: il re è nudo, i giornali sono schierati dalla parte delle bombe. Era ora che qualcuno lo dicesse. Ho fatto bene a dirlo. La lettera di congedo è un sasso nello stagno. Non mi aspettavo risposte, ma certo fa impressione che la direzione di Repubblica lasci cadere nel vuoto un’accusa che circola su centinaia di migliaia di smartphone. Siete o non siete la scorta mediatica dei massacri? In realtà una risposta arriva, ed è triste, illuminante, indiretta. Lo scompiglio redazionale non sortisce alcun effetto, ma quello digitale dopo due giorni si fa sentire. Domenica 7 gennaio, a Gaza si compie l’ennesima tragedia. Viene ucciso Hamza Dahdouh, figlio di Wael, il corrispondente di Al Jazeera diventato suo malgrado famoso un mese prima, quando apprende in diretta che la sua casa è stata bombardata e la sua famiglia sterminata. Gli rimane il primogenito ventottenne, che indossa come lui il giubbotto con la scritta «press» e segue le sue orme nel tentativo di raccontare i massacri. Il 7 gennaio, un drone israeliano lo ammazza in quella che ha tutta l’aria di essere un’esecuzione mirata. È una delle tante tragedie di Gaza. Ma a questa morte la Repubblica reagisce come non ha mai fatto in tre mesi: ad aprire l’edizione online del giornale è la fotografia di un ragazzo ventottenne che ha un nome, una famiglia, una storia, un colpevole cui addebitarne la morte. Il suo sorriso in homepage è quasi la denuncia di un crimine di guerra. In novanta giorni di massacri, Hamza Dahdouh è il primo palestinese a meritare tanta attenzione. Resterà l’unico. La prova che si sarebbe potuto raccontare il genocidio in modo diverso.
Sono passati altri mesi e altre migliaia di morti. Tanti bambini. Non solo bombe ma malattie, fame, freddo. La scorta mediatica non ha fatto una piega. Della mia lettera alla fine non ha scritto più nessuno. L’unico giornale a chiedermi un’intervista è stato il quotidiano della mia città, Trieste. Non però Il Piccolo, storico presidio italofono, ma il Primorski dnevnik, altrettanto storica voce della comunità slovena. Particolare, no? La mia presa di posizione è stata condivisa da decine di migliaia di italiani, ma ho avuto bisogno di Google Translate per decifrarla sulle pagine di un giornale. È solo l’ennesimo sintomo di un appuntamento mancato.
C’è stato un genocidio, e la libera stampa non se ne è accorta. Ha continuato ad analizzare, sentenziare, geopoliticizzare, silenziare. Ha fatto finta che fosse una guerra, rivestendo i massacri di cronaca e spogliandoli di tutto l’impeto etico che pure aveva impregnato il racconto della guerra in Ucraina. A Gaza accadono cose. Brutte ma, sembra, inevitabili. In un video girato al Festival del libro africano di Marrakech, il grande sociologo francese Edgar Morin, ebreo sefardita, già partigiano antinazista, splendido ultracentenario con un filo di voce e una tempra d’acciaio, si esprime così sui massacri israeliani: «Sono stupito e indignato che i leader di Israele, discendenti di un popolo perseguitato nei secoli per ragioni razziali e religiose,… possano abbandonarsi a una simile carneficina colpendo civili, donne e bambini nel silenzio del mondo. Penso che viviamo una tragedia orribile, impotenti come siamo di fronte agli eventi. L’unico nostro strumento di resistenza è la testimonianza. Resistiamo, non facciamoci ingannare, non permettiamo loro di dimenticare. Troviamo il coraggio di guardare in faccia la realtà, e facciamo tutto quanto è nelle nostre possibilità per continuare a testimoniare»….

2 GiUGNO Left AL FESTIVAL ENCUENTRO, SUAD AMIRY e RAFFAELE ORIANI

La mattanza infinita di Gaza è sotto gli occhi di tutti. Genocidio o meno, la sostanza rimane la stessa: ogni giorno decine di persone, molte delle quali donne e bambini inermi, muoiono per mano dell’esercito israeliano. Il terribile attacco messo in atto da Hamas il 7 ottobre 2023 non può essere una giustificazione. Quella israelo-palestinese è una storia di guerra, violenza e ingiustizie che dura da quasi ottant’anni. L’Italia, come tutto l’Occidente, potrebbe fare molto di più per mettere fine a questa carneficina, perché Israele dell’Italia e dell’Occidente è un alleato. Per questo è necessario discutere di Palestina, di Gaza e di vie d’uscita diplomatiche ogni giorno, dando voce a chi nel nostro Paese ne ha molto poca. Una società democratica si nutre di dibattito, e in uno Stato democratico e liberale la pressione dell’opinione pubblica sui centri decisionali è uno degli strumenti chiave.
Domenica 2 giugno alle 17.30, alla Rocca di Castiglione, Encuentro organizza in collaborazione con la rivista Left un incontro dedicato a Gaza a cui parteciperanno la scrittrice palestinese Suad Amiry, la direttrice di Left Simona Maggiorelli e l’ex giornalista del Venerdì Raffaele Oriani.
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Festival Encuentro, evento in collaborazione con LeftFestival Encuentro, evento in collaborazione con left

In apertura illustrazione di Marilena Nardi