Dalle mire espansionistiche dei Savoia e di Mussolini fino alle pretese della neonata Repubblica. Un saggio di Valeria Deplano e Alessandro Pes mette a fuoco i vari passaggi storici in cui le popolazioni africane hanno subito i soprusi dell’Italia. Che non ha fatto i conti con il passato coloniale
Nel dibattito pubblico italiano le affermazioni di stampo razzista fanno parte della “normalità”, sono un dato acquisito su cui ci si può indignare, ma che, raramente danno luogo a provvedimenti giudiziari e che, soprattutto, non destano riprovazione sociale. Si impone una narrazione, fondata su ipocrisia e scarsa conoscenza della storia secondo cui “gli italiani non sono razzisti ma reagiscono all’immigrazione incontrollata”. Come a dire che, chi subisce atti di discriminazione, anche violenta, in fondo, restandosene a “casa” propria, li avrebbe evitati, “se la sono cercata”.
Ma la percezione dell’Italia fondata su una identità bianca e cristiana, non nasce ora e ed è connessa con una tematica mai seriamente affrontata, quella del passato coloniale. La lettura del volume Storia del colonialismo italiano. Politica, cultura e memoria, dall’età liberale ai nostri giorni, di Valeria Deplano e Alessandro Pes e pubblicato da Carocci, aiuta a ricostruire un percorso che non è solo storico ma, utilizzando diversi aspetti dell’esperienza coloniale e post coloniale, prova a dare un’interessante e intensa traccia interpretativa. Gli autori, entrambi professori associati di Storia contemporanea all’Università di Cagliari, sono riusciti in un’impresa non facile. Attraverso un linguaggio coinvolgente e divulgativo quanto rigoroso dal punto di vista storiografico, in un volume denso e ricco di riferimenti bibliografici, attraversano un secolo e mezzo di vicende complesse, messe in evidenza in maniera netta. Il volume si compone di tre parti: il periodo colonialista nell’Italia liberale, con l’acquisto della baia di Assab, quello del ventennio fascista, e i cascami che si sviluppano nell’Italia repubblicana, i cui effetti permangono. Gli autori hanno recepito decenni di studi classici sul colonialismo italiano (Del Boca, Rochat, Labanca) elaborando, grazie a fonti archivistiche, studi sul campo, ricerca trasversale, una propria visione dell’esperienza coloniale come tratto fondativo dell’identità italiana. Utilizzando modalità di dominio diverse, tanto i tentativi di occupazione che iniziano a fine Ottocento, che quelli, fascisti, partono - come era cultura dell’epoca - dall’idea di “portare la civiltà”. Non è estraneo il ruolo propulsivo della Chiesa, continuato durante il fascismo, ma la convinzione di una superiorità razziale, in quanto tale destinata a imporsi, era parte integrante già nelle prime missioni in Eritrea, con l’acquisto, da parte della società di navigazione Rubattino, della baia di Assab a cui non era estraneo l’interesse del Regno d’Italia che, come le altre nazioni doveva avere le colonie perché, da nazione civile, le spettavano di diritto. Maturò un’impronta razzista resa più forte con le prime sconfitte militari, da Dogali ad Adua, che contribuì a creare un’immagine dell’indigeno come “nemico”. La pubblicistica tentava già di costruire, nelle scuole come nel mondo accademico e nell’immaginario popolare, il radioso futuro che poteva realizzarsi con una politica di potenza. L’occupazione della Libia fu un passo in avanti, la “quarta sponda” servì a sedimentare quello che sarebbe stato il punto di forza del fascismo: la presenza di vestigia archeologiche dell’Impero romano a cui bisognava rifarsi e di cui era lecito appropriarsi. Il fascismo, documentano Deplano e Pes, attuò l’accelerazione di un processo che era già in atto.
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