Residenti prigionieri del silenzio e della paura, manifesti che campeggiano indisturbati per tutto l'anno, una commemorazione che diventa una spaventosa coreografia neofascista. Ecco il clima di insicurezza in cui si vive da tempo nel quartiere di Roma

Il giorno dopo la manifestazione neofascista, il quadrante attorno a via Acca Larenzia a Roma (via delle Cave – via Amulio – via Evandro) tenta di ricomporsi in una pseudo-normalità. Addetti ai lavori caricano nel furgone i sacchi di sabbia e i cartelli di divieto di sosta che avevano isolato le vie e le piazze attorno al piazzale dell’adunata. Le automobili dei residenti tornano lentamente nei posti vietati fino a pochi giorni fa, e i cassonetti della spazzatura, rimossi da giorni per l’occasione, saranno, ci dicono, presto riposizionati.
Qualche militante, avvolto in giacca scura, ancora si aggira nei dintorni, parlando al telefono. Altri si occupano dei manifesti, fradici per la pioggia notturna: li rimuovono e li sostituiscono. Sistemano i fiori, riaccendono con un’attenzione liturgica i lumini votivi che si sono spenti per la pioggia.
La manifestazione del 7 gennaio 2025 ha visto 1.500 militanti neofascisti, schierati in file ordinate, hanno alzato per tre volte il braccio destro al grido di “Presente!” davanti all’ex sede dell’Msi, facendo tremare il palazzo.
Quest’anno, però, affacciati ai balconi e appostati a distanza c’erano più spettatori del solito, attoniti, quasi increduli. Il clamore mediatico attorno all’evento, alimentato dal video dello scorso anno che riprendeva dall’alto la stessa scena, mostrando al mondo l’incredibilmente massiccia presenza dei partecipanti e la loro spavalderia, ha attirato cronisti e telecamere. Ma ha anche spinto la prefettura a liberare da auto e cassonetti più vie del solito, e a schierare una presenza più solida di forze dell’ordine: camionette della Polizia in via delle Cave, a pochi passi dal piazzale, e camionette dei Carabinieri in largo dei Colli Albani, fuori dalla vicina fermata della metropolitana dove si sono dati appuntamento e radunati i giovanissimi militanti. I bambini di ritorno da scuola passano e chiedono “Che succede?” e le mamme li tirano via frettolosamente per la mano.
La spaventosa coreografia incute tutto fuorché sicurezza, e ciò che viene raccontato come una legittima commemorazione in onore di ragazzi barbaramente uccisi si rivela, come ogni anno, un atto di dimostrazione spudorata di dominio. Una manifestazione di forza e di controllo che si prepara nei dettagli da giorni, sotto gli occhi di tutti, compresi quelli della polizia, complice nella sua passività e preoccupata piuttosto a schedare i passanti a cui la nostalgia per il fascismo non va giù (come l’uomo che ha gridato “Viva la Resistenza!” ed è stato per questo subito identificato).

Già all’alba del 6 gennaio, mentre i bambini aprivano la calza della Befana, sentinelle nere iniziavano a presidiare gli angoli del quartiere, fianco a fianco con le pattuglie della polizia, immobili e mute. Gli anni scorsi tentavano di passare inosservati, seduti su motorini, appoggiato ai muretti. Quest’anno non apparivano quasi a volersi mimetizzare. Nel frattempo la folla aumentava, a sentirsi non erano più i soliti accenti romani strascicati dei borgatari in nero. Si sentono pure accenti del nord, arrivano anche donne, taluni facevano da cicerone, mostrando la piazza, la sede, la porta, le bandiere, la targa, i dipinti sui muri, come quello dell’omone con la celtica che schiacciava l’ometto con la falce e il martello. I militanti si salutavano tra loro, calcavano a testa alta il piazzale dominato dall’enorme croce celtica. Man mano che le ore passavano, il numero delle sagome nere cresceva. Ed era ancora al 6 gennaio. A mezzanotte iniziarono le prove generali: schieramenti in file ordinate, comandi scanditi, posizioni studiate. Si provavano le posizioni dell’attenti e del riposo. Gli incaricati del servizio d’ordine, riconoscibili per le pettorine rosse, l’indomani avrebbero dovuto con meticolosità organizzare il dispiegamento delle quasi duemila persone per la “commemorazione” del 7 gennaio.
Del resto grandi manifesti, tra cui quello spavaldo di quest’anno che assicura impunito che “ogni anno faranno il presente”, sono stati preparati e affissi ben prima del 7 gennaio. Altri, dai contenuti simili, in realtà campeggiano indisturbati nel quartiere tutto l’anno. È una promessa mantenuta: non solo ogni anno, ma ogni giorno. Perché Acca Larenzia effettivamente dura tutto l’anno. È nei volantini distribuiti davanti alle scuole, negli striscioni che ricoprono muri e serrande, nelle scritte spray sui muri dei palazzi, nella sede delle ambigue associazioni sportive e culturali accanto, nei manifesti che nessuno si azzarda quasi più a rimuovere, per altro ora che tra faro e telecamera la cosa sarebbe piuttosto rischiosa. I residenti che passano di qua e trovano “movimento”, intimiditi, abbassano lo sguardo. Durante la “commemorazione” chiudono le serrande, fanno finta di non vedere. E poi nei social proveranno a lamentarsi, ma finiranno per minimizzare “lo fanno ogni anno, poi se ne vanno”.
Confidano tutti, qui, sul fatto che la legge non li tocca e non li toccherà. Sanno che anche quest’anno, come sempre, la polizia guarderà senza intervenire. O tuttalpiù interverrà per identificare quelli che non ce la faranno a ingoiare l’antipatia per il fascismo, come all’uomo che ha gridato “Viva la resistenza”. E lo sanno i residenti del quartiere, prigionieri della paura e del silenzio: Acca Larenzia non è solo il 7 gennaio: è una vergognosa realtà che offende tutto l’anno, visibile eppure negata ogni giorno.

L’autrice: Irene Tartaglia è segretaria Uaar Roma e componente del coordinamento nazionale