All’Aja la giustizia internazionale oggi respira a tratti. Nei corridoi della Cpi una cappa di paura immobilizza persone e decisioni: effetto combinato delle pressioni Usa e Israele, ricostruite da Chiara Cruciati su Il Manifesto.
Le sanzioni statunitensi di febbraio contro Karim Khan e decine di funzionari di cui ha scritto Micaela Frulli su Left seguite da misure sui suoi vice, hanno prodotto uno stallo che blocca da maggio i mandati per apartheid contro Ben Gvir e Smotrich.
Khan è in ferie forzate dopo accuse di molestie trasformate in leva politica; intanto un legale vicino a Israele gli ha sussurrato all’Aja «distruggeranno te e la Corte».
L’8 luglio, all’Assemblea degli Stati membri, gli Usa hanno intimato di fermare indagini e mandati; nessun governo ha replicato.
Qui sta lo scandalo: l’architettura del diritto internazionale vacilla per la scelta di piegare la Corte con sanzioni e intimidazioni. Se cade Khan, le indagini sul «file Palestina» rischiano l’archiviazione amministrativa o un binario morto.
Cruciati indica il punto d’impatto: colonie e apartheid, il cuore dell’impresa israeliana che teme l’effetto domino di un precedente.
Serve un ombrello politico, soprattutto dall’Europa. L’Italia tace. Se i governi abdicano, il messaggio è semplice: la forza detta la legge e la Corte, nata contro l’impunità, si fa monito impotente. È il passaggio in cui si decide se la Cpi resterà un tribunale o scivolerà a ornamento istituzionale.
Buon lunedì
In foto la sede della Corte penale internazionale, fonte Wcommons




