Testo di Simona Silvestri, foto di Savino Carbone - da Srebrenica
Compaiono all’improvviso, non appena la macchina svolta da Bratunac verso il memoriale di Potočari, alle porte di Srebrenica. Sono un qualche centinaio di immagini piantate davanti alla quasi totalità delle case e dei cortili affacciati sulla via: rappresentano i volti dei civili serbi uccisi in quella zona durante la guerra del 1992-95, nelle intenzioni di chi le ha affisse «vittime dimenticate e trascurate» contrapposte volutamente alle vittime degli “altri”, quelle che invece vengono ricordate l’11 luglio di ogni anno qualche chilometro più avanti. Sono i giorni in cui viene commemorato il trentennale dal genocidio di Srebrenica, il massacro di oltre 8.000 bosgnacchi (bosniaco-musulmani) da parte delle forze armate serbe agli ordini del generale Ratko Mladić, ed è quasi impossibile non pensare a una provocazione.
Ma non c’è da stupirsi: in Bosnia Erzegovina i morti hanno finito col diventare simboli al servizio di una politica sempre più nazionalista che non si fa scrupoli di utilizzarne la memoria - o meglio, la memoria distorta - per i propri fini propagandistici, e che sfrutta la rimozione della storia e delle proprie responsabilità per ottenere consenso. Non è un caso che quelle immagini siano state posizionate in bella vista lungo l’unica strada su cui sono costrette a transitare tutte le persone dirette a Srebrenica, verso quel memoriale che dovrebbe essere considerato un monumento perenne all’ignavia dell’Europa e dell’Occidente che, nell’estate del 1995, voltarono lo sguardo altrove mentre nel silenzio generale veniva compiuto il genocidio, l’unico in Europa e riconosciuto come tale dopo la Shoah. Una mattanza che avrebbe demolito in poche ore l’illusione di quel “non accadrà mai più” pronunciato come monito dopo la Seconda Guerra mondiale.
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