Negli ultimi mesi è montata una polemica in merito alle nuove Indicazioni nazionali della scuola alla cui disamina critica Left dedica il libro Lotta di classe. Ernesto Galli Della Loggia, collaboratore del ministro Valditara, in un un passaggio delle indicazioni cita l’Apologia della Storia di Marc Bloch. In quel libro, a suo avviso, si sosterrebbe l’unicità dell’Occidente (categoria già di per sé alquanto ideologica) unica cultura in grado di produrre una Storia. In realtà lo studioso alsaziano, nel suo capolavoro, intendeva porre in rilievo quella peculiare concezione del tempo, che dai Greci in poi caratterizza gli apparati concettuali europei.
Le stagioni dei post colonial studies, ed opere seminali come I dannati della Terra, di Franz Fanon, hanno segnato un cambiamento di paradigma nello studio della storia, in cui è emerso in maniera esplicita e diretta, il punto di vista dei popoli subalterni. Ciò ha consentito l’affermarsi di una differente prospettiva di analisi, che metteva definitivamente in discussione gli assunti positivisti del suprematismo bianco e per indicare un vero e proprio decentramento del discorso storico, anche in relazione all’idea di progresso.
La storia si apriva ad uno sguardo globalizzato che, se da un lato evidenziava le conseguenze nefaste dei meccanismi coloniali e delle logiche imperialiste, da un’altra recuperava la complessa funzione delle classi dirigenti e dei differenti attori delle società native, in relazione al dominio, alle lotte per l’emancipazione e agli sviluppi posteriori all’indipendenza. Fu l’intellettuale palestinese Edward Said a smontare il meccanismo che assegnava alla narrazione storica il binomio mistificante Occidente-Oriente, definendone le connotazioni puramente strumentali. L’invenzione stereotipata dell’Orientalismo serviva a legittimare l’asservimento alla presunta opera di civilizzazione occidentale, di tutti quei territori che rientravano in quel modello. Anche i maggiori scrittori europei o americani d’altra parte hanno contribuito, a volte implicitamente, all’edificazione di tali categorie.
Il diffondersi di quella che viene definita Cancel culture, nel secondo decennio del millennio, è a tutti gli effetti un tentativo di riappropriazione della memoria pubblica, proprio a partire dalla destrutturazione semiotica dello sguardo eurocentrico, così come si palesa ad esempio nelle statue o nella toponomastica. A dimostrazione che il linguaggio messo in campo da quel binomio attraversa anche spazi interni ai differenti territori. Come la razzializzazione del lavoro o la gestione dei flussi migratori. O come le contraddizioni che il genocidio dei gazawi ha reso nette ed ineludibili.
Di recente è stato pubblicato da Laterza un saggio storico che esprime appieno questo percorso di riappropriazione policentrica del senso storico. Una storia criminale del mondo, scritta dal giurista argentino Eugenio Zaffaroni, indirizza la relazione tra periferia e centro del mondo, relativizzando i modelli interpretativi alla luce di una genesi endogena dei Diritti, che precederebbe nelle culture ancestrali, di gran lunga anche le grandi rivoluzioni bianche.
Oggi che gli scenari planetari si dispongono a differenti equilibri geopolitici, con il protagonismo sempre più marcato di nuove potenze, tese ad approfittare del declino americano, le voci dissonanti aprono la riflessione storica a tracciare disegni sempre più stratificati e polifonici. Se il filosofo camerunense Achille Mbembe denuncia l’architettura del potere occidentale, che ovunque reifica gli spazi dell’immateriale e del corporeo, nel suo splendido libro, La maledizione della noce moscata(Neri Pozza), lo scrittore indiano Amitav Ghosh pone in evidenza la stretta correlazione intercorsa tra penetrazione europea nelle Molucche e tracollo degli ecosistemi locali. Il traffico delle spezie sottopone i luoghi della significazione autoctona, alla razionalizzazione del capitale, (attraverso il quale vengono sviliti a spazi di sfruttamento), andando oltre i meri aspetti politici del dominio e promuovendo quella visione vitalista del rapporto con Gaia, che recupera una concezione antropologica, carica di misticismo.
D’altra parte, di nuovo la stessa letteratura si arricchisce sempre più di narrazioni migratorie, capaci di nutrire un immaginario gravido di implicazioni ed esperienze differenti, che esprimono una contro narrazione delle questioni legate al razzismo, alla cittadinanza, alla condizione femminile. Appare quindi del tutto controproducente e raffazzonato il tentativo di riappropriazione egemonica della storia, che si sta attuando in maniera addirittura grottesca, nelle intenzioni di chi disegna i nuovi modelli di insegnamento e di trasmissione-costruzione della coscienza collettiva che la conoscenza del passato consente di strutturare, sia nell’ America trumpiana, sia in Italia. Sembra di assistere infatti ad un disperato bisogno di ricavare nei fatti remoti un rifugio identitario, a fronte di una democratizzazione finalmente planetaria del discorso storico, tesa a restituire una destrutturazione anti ideologica del controllo sul passato, per assegnare il giusto peso a tutti i protagonisti delle vicende umane.
Nell’era dell’Antropocene, però, come ci avverte Francois Hartot,”La torsione più forte e spaesante” che trasforma la stessa qualità del tempo storico, in relazione al futuro, è che, pur essendo quanto non accaduto la dimensione più propria dell’avvenire, esso è già parzialmente compromesso. Quindi è proprio dai linguaggi differenti, che recuperano una relazione di rispetto e sinergia col pianeta, che potrà venire la definizione di un campo di azioni umane e non umane, in grado di rimettere sul giusto cammino la storia della terra.
In apertura il ministro dell’istruzione e del merito, Valditara wikic





