È tempo di chiamare le cose con il loro nome: l’Unione europea mostra una vigliaccheria strutturale nei confronti dell’ambiente, ritirandosi dietro la solita scusa della “competitività”. Il Consiglio europeo ha ufficializzato la frenata nell’attuazione del Green Deal: gli obiettivi climatici diventano «mezzi pragmatici e realistici», la riduzione del 90% delle emissioni entro il 2040 viene svuotata da clausole di revisione e crediti internazionali, pronti a coprire ritardi strutturali.
La retorica ambientale cede il passo alla deregolamentazione. Diciannove Stati membri, Italia in prima fila, hanno chiesto una “semplificazione” normativa che si traduce nello smantellamento delle tutele ambientali e sanitarie. I governi rivendicano il prolungamento del motore a combustione oltre il 2035 e nuovi margini per i biocarburanti: la transizione ecologica viene trattata come un vezzo costoso da sacrificare sull’altare delle lobby industriali.
In pochi anni l’emergenza climatica, che era stata il cuore politico dell’Unione, è stata inghiottita da una sequenza di crisi: pandemia, guerra in Ucraina, fiammate sovraniste. Il Green Deal sopravvive come reliquia verbale mentre l’Europa firma contratti per il gas liquefatto americano, riapre centrali a carbone, indebolisce i vincoli sull’agricoltura. È un ritorno all’ideologia che nega la scienza, pur sapendo che l’attuazione piena delle normative ambientali esistenti potrebbe garantire risparmi annuali per 180 miliardi in costi sanitari e ambientali, contro gli appena 8 miliardi promessi dalla “semplificazione”.
La vigliaccheria europea non è assenza di dichiarazioni, ma rinuncia sistematica. Il tradimento non è episodico: è un metodo. L’Europa che si vantava di essere faro climatico ha preferito l’ombra corta dei compromessi, scegliendo di arrendersi proprio mentre la scienza chiedeva coraggio.
Buon venerdì.
Meloni al Consiglio europeo, foto gov




