Ero alla Diaz. Arrivato per un suggerimento volante da una signora in piazza ho deciso di dormire alla Diaz. C’ero anch’io quel giorno. Alle 20 sono entrato per occupare il mio posto, appena vicino all’entrata e poi sono andato a mangiare. Rientro alle 22, mi sdraio sul pavimento, è di legno ma ci si sta bene, così bene che mi addormento. Io alla Diaz mi sono addormentato come si addormentano i bambini. Fino alle 23.30.
C’è un baccano. Un rumore infernale. La porta d’ingresso che si sfonda e volano le panchine. Penso ai Black Block, a un gruppo di fascisti. Sento cantare “Faccetta nera”. Sì, saranno loro, mi dico. E invece no. È la polizia. Era la nostra polizia. Il tempo di capirlo e tutto intorno è un urlo in tutte le lingue del mondo. Lacrime e “mamma” in tutte le lingue del mondo.
Poliziotti che cantavano cori fascisti passavano dietro di me e a ogni passaggio una scarica di manganellate. Un poliziotto e una scarica: una processione di botte. Andarono anche ai piani superiori e io intanto mi rannicchiai a riccio per cercare di difendermi gli organi il più possibile. Qualcuno mi sferrò un colpo violentissimo alla nuca che si gonfiò a dismisura immediatamente.
Urla in tutte le lingue e il linguaggio universale del manganello che incrinava le ossa. Dei ragazzi. Le mie. Un’ora così. Io cercavo di chiamare gli infermieri per essere trasportato all’ospedale. In quel gruppo ero il più anziano ma sono stato portato all’ospedale Galliera per ultimo.
Quando questo massacro ebbe finalmente termine a terra c’erano pozze di sangue, dense strisce rosse come sciroppo di mirtillo, occhiali rotti, zaini distrutti, fermacapelli con ciocche di capelli attaccate, frutta frantumata, indumenti sparpagliati, sugli spigoli delle mura capelli con macchie di sangue che colava. A terra un crocefisso, anche Dio quel giorno diede forfait, poi ancora libri stracciati, passaporti stranieri stracciati e insanguinati. Urla, le sirene delle ambulanze, la gente indignata che commenta.
Finalmente arrivo all’ospedale, risultato: dieci costole rotte, gamba e braccio rotto, cranio pieno di ematomi. Il corpo pieno di lividi. Resterò in questa struttura per una decina di giorni e poi chiederò di essere trasportato dalla Croce rossa italiana a casa mia. Fui costretto a quattro mesi su una carrozzina per disabili e otto mesi di convalescenza, compreso un secondo intervento al braccio presso l’ospedale Careggi di Firenze. Ero alla Diaz. C’ero anch’io. E ho dovuto aspettare che l’Europa mi desse ragione. L’Europa, mica la polizia. La nostra polizia.
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