Mi hanno dato un visto per il Kurdistan, aspetti che lo tiro fuori. Non ha un valore formale, perché la regione curda è in parte dell’Iraq, ma può evitarmi qualche problema durante il viaggio. E poi ho un nuovo nome, da combattente». Albert è un soldato di vocazione. Basco con passaporto francese e tedesco, a 20 anni è entrato nella Legione straniera francese, per combattere a fianco dei marines a Bassora, Iraq del sud. L’esplosione di una mina nei pressi di Kuwait City, appena liberata dalle truppe della coalizione Nato, gli ha portato via tre amici. Oggi, 24 anni dopo quella “lunga battaglia nel deserto”, sta per partire di nuovo. «Ho lavorato dieci anni per Lufthansa e adesso lascio tutto. Casa, famiglia, lavoro. Vado per la libertà di tutti noi, la mia, la vostra. Perché stare a guardare significa essere complici». Albert, il nome è di fantasia, è fra le centinaia di uomini – e alcune donne – che hanno raggiunto negli ultimi mesi i combattenti curdi, yazidi e assiri in lotta contro lo Stato islamico in Siria e Iraq. Europei, australiani, americani, uniti da un nemico comune. Non raggiungono i numeri dell’Is, che secondo il dipartimento di Stato Usa può contare su 18.000 foreign fighters, 3.000 dei quali occidentali, eppure sempre più persone aspirano alla prima linea contro gli uomini di Al-Baghdadi. E tra loro ci sono anche alcuni italiani. Gli occidentali entrano in contatto con i gruppi armati locali, proponendosi come volontari in quella che il basco Albert definisce «una battaglia contro forze maligne e oscurantiste, come nella guerra civile spagnola. Una rivoluzione in cui voglio lasciare la mia impronta, a costo della vita».
«Vede qui? È una linea di quasi mille chilometri ». Ali punta il dito su una vecchia mappa del Kurdistan. Siamo nella sede dell’Ufficio informativo del Kurdistan in Italia, un’associazione, spiega Ali, «che lavora per favorire la cooperazione fra l’Italia e i curdi turchi e siriani». La linea a cui si riferisce è il confine sud del “grande Kurdistan” che, per il momento, esiste solo nei desideri di molti di questi cittadini senza patria. L’instabilità degli ultimi anni e l’avanzata dello Stato islamico hanno sanato alcune storiche divergenze fra i curdi di Siria, Turchia, Iran e Iraq, dando maggiore legittimità internazionale alle loro aspirazioni autonomiste. Proprio la lotta contro l’autoproclamato Califfato ha reso fondamentali le forze armate curde. «A sud del Kurdistan iracheno e di quello siriano, nel Rojava (Occidente in lingua curda kurmanji, ndr) – racconta Ali – i curdi sono faccia a faccia con l’Is. In Kurdistan si riescono a schierare fino a 200.000 uomini, ma con poche armi pesanti e i soldati sono impreparati». Il Califfato, invece, da queste parti può contare su un numero minore dicombattenti, probabilmente 30-40.000, ma ha armi sofisticate e finanziamenti cospicui dalla vendita di petrolio. «Possono pagare i combattenti anche 1.000 euro al mese», conferma Ali.
Jordan Matson, un ex marine del Wisconsin, è stato fra i primi stranieri a raggiungere le Unità popolari di protezione (Ypg), braccio armato del Partito democratico unito del Rojava. Pare sia stato proprio Matson, diventato oramai una star dei social network, a lanciare nell’autunno del 2014 la pagina facebook “The Lions of Rojava”, i leoni del Rojava, una community che invita a «unirsi alle Ypg per mandare all’inferno i terroristi e salvare l’umanità». Ed è con i “leoni” di Matson che, lo scorso febbraio, Kevin decide di entrare in contatto: 26 anni e un passato da cacciatore di taglie per lo Stato del Virginia. Dopo averci pensato per mesi, Kevin ha deciso che «non era più possibile stare seduti a guardare in tv quello che l’Is faceva a persone innocenti, ad amici degli Usa come i curdi. Ho iniziato a provare rabbia e tristezza, fin quando un giorno mi è ribollito il sangue. Allora ho contattato i Lions, che hanno promesso di formarmi e mandarmi sul campo». Così, decide di arruolarsi: «Sto mettendo da parte i soldi necessari per partire entro l’estate», ci dice al telefono. «Ho già 5.000 dollari, ma solo il viaggio ne costa circa 1.600, e voglio che mi resti qualcosa per quando sarò sul posto, anche se le Ypg offrono quasi tutto il necessario. Se serve venderò la macchina». L’aspetto economico è uno dei primi ostacoli per gli aspiranti combattenti, che negli Usa aprono spesso pagine di crowdfunding, ovvero micro finanziamento via internet, per sostenere spese di viaggio, kit medici, giubbotti antiproiettile e altro. Oltre ai “Lions of Rojava”, le Ypg – che contano fra i 20 e i 30.000 combattenti, di cui il 30 per cento sono donne – ricorrono in alcuni casi a intermediari locali, appartenenti alla diaspora curda, che danno indicazioni sul futuro ai combattenti e ne verificano l’adeguatezza. Come è successo ad Albert: «Mi hanno chiamato per un incontro ad Amburgo – racconta -, hanno controllato che non avessi precedenti penali, che fossi in salute e che avessi le motivazioni giuste». Per Kevin, invece, la selezione è avvenuta online: «Ho inviato materiale su di me e dopo un po’ mi hanno comunicato che rientravo nelle linee guida».
La fase del reclutamento è fra le più delicate sotto il profilo legale, persino più del fatto di combattere. Nonostante unirsi a forze armate straniere sia un reato in diversi Paesi, non si ha notizia fino a oggi di procedimenti contro combattenti rientrati in patria. Negli Usa, confermano diversi fighters, Fbi e Cia contattano chi parte e chi rientra per motivi di intelligence, mentre una nota del Home office del Regno Unito, già nel settembre del 2014, ricorda come «combattere in guerre all’estero non è automaticamente un reato, dipende dal tipo di conflitto e dalle attività svolte». Una posizione adottata anche da altri Stati europei. Persino l’Australia, spesso dura contro i combattenti, ha rilasciato dopo poche ore Matthew Gardiner, ex leader laburista rientrato in patria il 3 aprile dopo alcuni mesi di militanza nelle Ypg. In Italia reclutare è più rischioso: il codice penale prevede fino a vent’anni di carcere, e alcuni degli intermediari contattati usano nomi fittizi, proteggendosi sul web dietro le sigle di forum e communities pro-Kurdistan. Così avviene per molti dei combattenti, che già prima di partire per il Rojava ricevono nomi come Shoresh, Heval, Berxwedana, ovvero rivoluzione, compagno e resistenza in lingua kurmanji.
Il viaggio è altrettanto delicato. «La Turchia va assolutamente evitata, così come la compagnia Qatar Airlines», sottolinea Albert. «Bisogna partire da Svezia o Germania, passare dalla Giordania e atterrare a Sulaiymanyah, nel Kurdistan iracheno. Qui ti aspettano altri combattenti occidentali delle Ypg, che tiportano nel Rojava passando da Erbil, dove hanno una base di addestramento». Ulteriori dettagli, per chi parte dagli Usa, sono forniti da un documento trasmesso a Left da alcuni aspiranti combattenti. Si tratta della risposta data da Peshmerga Frame – sigla che sta per “programma di registrazione, valutazione e gestione degli stranieri” – a chi chiede di unirsi alle truppe Peshmerga, ovvero all’esercito regolare del Governo autonomo del Kurdistan, regione dell’Iraq riconosciuta dalla costituzione di Baghdad. Secondo la comunicazione, dagli Usa si deve partire da Chicago con Royal Jordan Air, facendo scalo in Giordania, senza portare con sé elmetti o giubbotti antiproiettile, non autorizzati alla dogana e acquistabili in Kurdistan. Per il resto, 500-1.000 dollari sono sufficienti per mantenersi a lungo.
Apparentemente più strutturati del Ypg sono i peshmerga, cioè “coloro che guardano la morte”, che contano 150-200.000 soldati, supportati secondo diverse fonti da alcune decine di volontari occidentali. Fra questi Ryan Gueli, unico contatto ad autorizzare l’uso del nome. Veterano della seconda guerra irachena, Gueli ha raggiunto i peshmerga a febbraio 2015: «Ricordo quel giorno – scandisce -, Is aveva forze superiori, ci localizzava tramite droni, con tecnologie degne della Nato. Ci hanno accerchiato e un’esplosione mi ha fatto volare di diversi metri. Mi sono messo a correre con il sangue che colava lungo la coscia, in mezzo alle pallottole. Sono riuscito a buttarmi dietro un terrapieno. Pensavo fosse la fine, quando due soldati curdi sono venuti a prendermi, rischiando la vita». Insieme a Gueli sono partiti anche dieci suoi colleghi americani. «Avendo esperienza militare eravamo usati per operazioni speciali a cui i Peshmerga, che arrivano in battaglia dopo 20 giorni di addestramento, non sono preparati. Come tutti, mangiavamo riso e fagioli, e dormivamo per terra in baracche. L’esercito Usa in confronto è una vacanza». Un concetto confermato anche dal comunicato del Frame, che descrive la guerra contro come qualcosa di «simile al campo di battaglia della Prima Guerra Mondiale unito al Vietnam. Si avanza costruendo terrapieni e si viene colpiti da nemici invisibili, che appaiono e scompaiono da tunnel. Is sa come combattere, ha tiratori scelti e armi nuove». Oggi Gueli, dopo le prime cure in Kurdistan – «ricevute gratuitamente e con grandi premure », sottolinea – è rientrato negli Usa per una riabilitazione fai da te, «visto che non ho l’assicurazione sanitaria». Ha molti anni di meno ma la stessa convinzione Robert, 16enne americano con il sogno di «fare il soldato per aiutare la gente. I Lions of Rojava mi hanno detto che per partire con loro dovevo avere 18 anni, allora ho sentito direttamente le Ypg, che invece accettano anche 17enni. Poi il Peshmerga Frame, che mi ha risposto. Spero di partire presto».
Sono diversi i combattenti stranieri anche tra le milizie cristiane assire, nate per difendere villaggi attaccati da Is in Siria e Iraq e in gran parte riconquistati da Ypg e peshmerga. Emanuel Khoshaba Youkhana, segretario del Partito patriottico assiro, a cui fa capo il gruppo Dwekh Nawsha (gli “autosacrificatori” in siriaco), spiega che «per ora abbiamo dieci volontari stranieri, di diversi Paesi, su 200 uomini armati, stanzionati a Baqofah, vicino a Ninive. Ogni giorno però ci arrivano decine di richieste, ormai ne ho accumulate 800. Ma non possiamo accettarle, non abbiamo posto né mezzi per sostenere queste persone». La crescita delle domande di volontari è confermata dagli addetti stampa di Ypg, che pur non rivelando il numero di stranieri presenti a oggi – circa 100 secondo Bbc – hanno garantito che «entro fine anno saranno 500, fra cui diversi italiani». Di un solo italiano, il marchigiano Marcello Franceschi, militante con le Ypg a Kobani, si conosce però fino ad ora l’identità.
La quasi totalità di chi parte ha già esperienza militare e molti, come Ryan Gueli, sono veterani delle guerre in Iraq e Afghanistan. «Nella mia unità operativa – conclude Gueli – in un solo mese gli stranieri sono raddoppiati. Sa, a noi americani piace fare la guerra, e poi non serve l’autorizzazione di un governo per battersi contro un male che minaccia tutto il pianeta». Mentre i raid aerei e gli scontri sul terreno continuano – lasciando sul terreno morti da entrambe le parti, tre dei quali fra i combattenti stranieri delle Ypg – su facebook crescono gli “how do I join?” (Come posso unirmi?) di centinaia di persone, spesso ignare delle divergenze politiche e delle lotte di potere tra gli stessi gruppi con cui si battono.