Molti la considerano una delle più alte conquiste nella storia culturale dell’uomo. Un capolavoro assoluto. Come la Pietà vaticana di Michelangelo. Lui, Albert Einstein, l’uomo che nel 1915, cento anni fa, l’ha creata (o scoperta, come molti filosofi della scienza si affretteranno a puntualizzare) la considerava un’incompiuta. Come la Pietà Rondanini dello scultore fiorentino: in parte sublime, in parte ancora grezza. È la relatività generale, la nuova teoria della gravitazione universale che “ha scalzato Newton”, ha riformulato la nostra idea di uni- verso mandando definitivamente in soffitta le convinzioni sullo spazio e sul tempo e che ancora oggi, con la meccanica quantistica, costituisce una delle due pietre fondamentali su cui poggia l’intero edificio della fisica.
Il processo che ha portato Einstein, nell’autunno del 1915, alla formulazione della relatività generale è chiaro. Dieci anni prima, nel 1905, l’allora giovane impiegato presso l’Ufficio Brevetti di Berna aveva elaborato, tra l’altro, la teoria della relatività ristretta, con cui dimostra che la velocità della luce costituisce un limite non superabile, che non esistono punti di osservazione privilegiati nell’universo, che materia ed energia sono equivalenti (concetto espresso nella formula più famosa della storia: E=mc2), che spazio e tempo non sono entità assolute, non sono uguali per tutti ma dipendono dalla velocità con cui si muove l’osservatore.
La relatività ristretta dimostra che materia ed energia sono equivalenti, che spazio e tempo non sono entità assolute
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La relatività del 1905 è accompagnata dall’aggettivo “ristretta” o dall’aggettivo “speciale”, perché riguarda tutti i corpi in quiete, che se ne stanno fermi o che procedono con velocità uniforme. Sebbene con questa teoria rivoluzioni la fisica (e la filosofia) mandando in soffitta idee e concetti vecchi di millenni e considerati solidissimi, Einstein non è contento. Cerca una nuova teoria, più generale, in grado di spiegare anche il comportamento di tutti i corpi presenti nell’universo, compresi quelli soggetti ad accelerazione. Come la famosa mela di Newton o il grave di Galileo che, a causa della gravità, cado- no dall’albero o dalla Torre di Pisa con velocità crescente
La storia del tentativo di generalizzazione della teoria dura un intero decennio ed è molto bella, ma anche molto complicata. Diciamo solo che viene portata a termine grazie a strumenti matematici – il calcolo differenziale assoluto – messi a disposizione da due italiani, Gregorio Ricci Curbastro e Tullio Levi Civita. Che propone l’idea (rivoluzionaria) che la materia curvi lo spazio, anzi la rete quadridimensionale dello spaziotempo. La teoria spiega il comportamento anomalo dell’orbita di Mercurio e fa alcune previsioni: passando accanto a un forte campo gravitazionale, la luce viene deviata di un certo angolo; allontanandosi dall’osservatore la luce subisce un redshift, uno spostamento verso il rosso: in pratica, la sua frequenza sembra diminuire.
Nel 1919 l’astronomo inglese Arthur Eddington, in occasione di un’eclisse, verifica che la luce emessa da una stella lontana passando accanto al sole viene deviata proprio dell’angolo previsto dalla relatività generale.
Il fisico tedesco diventa, per dirla con Abraham Pais, “l’improvvisamente famoso dottor Einstein”: un mito universale, ancora oggi inossidabile. E la sua teoria, non sempre compresa da tutti, assurge al rango di capolavoro assoluto. Eppure lui, Albert Einstein, la considera un’in- compiuta. Un’opera, dirà, fatta per metà di marmo pregiato e per metà di legno scadente. E lavorerà per tutto il resto della vita, all’incirca quarant’anni, per trasformare in marmo pregiato anche il legno scadente.
Perché? Il motivo è semplice. Perché Albert Einstein è in preda a quella che lo storico della fisica Gerald Holton chiama la “sindrome ionica”. L’idea, puramente metafisica, che è alla base del pensiero dei primi filosofi greci, secondo cui l’universo non solo è un kòsmos, un tutto armoniosamente ordinato, ma anche che l’ordine cosmico è governato da poche leggi fondamentali (al limite, da un’unica legge) che possono essere compre- se dalla ragione umana. Einstein è preda della “sindrome ionica” nel corso dell’intera sua vita: da quando a 17 anni immagina cosa proverebbe un osservatore a cavallo di un raggio di luce, fino a quando, il 18 aprile 1955, non muore, con accanto sul comodino gli ultimi appunti con cui tenta di trasformare il legno scadente della relatività generale in marmo pregiato.
La relatività generale è l’ulteriore tappa di avvicinamento all’obiettivo finale di Einstein: unificare gravità ed elettromagnetismo. Ma perché considerarla un’opera incompiuta, metà di marmo pregiato e metà di legno scadente? Per- ché alla “sindrome ionica” di Einstein appartiene un’altra idea metafisica. Un vero pregiudizio di natura filosofica: l’idea (o, se volete, il pregiudizio) che la realtà cosmica sia costituita da un’entità fisica continua e non da entità discrete. Ebbene, la prima parte dell’equazione che riassume in termini matematici la teoria della relatività generale, descrive in maniera precisa il campo gravitazionale: un’entità continua. Che si estende, con intensità variabile, in tutto lo spaziotempo. Ecco perché soddisfa Einstein, che la considera la parte in marmo pregiato della sua opera.
La seconda parte dell’equazione descrive, invece, la materia. Costituita da corpuscoli: ovvero da entità discrete. È questa parte che Einstein considera legno scadente. Messa lì in maniera provvisoria. In attesa di trovare un’idea fisica e un formalismo matematico adatto, in grado di descrivere la materia in termini di punti di massima intensità di un’entità continua. Ecco perché, appena dopo aver elaborato quello che tutti considerano un superbo capolavoro, con una straordinaria lezione di umiltà e di lucidità, Einstein si mette alla ricerca di una teoria ancora più generale in grado di andare oltre la relatività: una teoria di campo continuo.
Diciamo subito che questa volta Einstein non riesce a tagliare il traguardo.
La cercherà per quarant’anni, la Teoria del Tutto, ma non riuscirà a trovarla. In questa sua ricerca «don Chisciotte della Einsta» ingaggerà una furiosa battaglia intellettuale contro i «malvagi quanta», come scriverà con ironia e affetto il suo migliore amico, l’ingegnere triestino Michele Besso. E lui – il mito vivente, il personaggio che secondo la rivista Time più di ogni altro ha caratterizzato un secolo intero, il Novecento, uno dei fisici più grandi, forse il più grande, di ogni tempo – si ritroverà presto isolato in questa sua titanica ricerca. Tanto che anche Abraham Pais, suo amico e biografo, definirà “ottocentesco” l’atteggiamento di Einstein. Va aggiunto che l’obiettivo del “fisico ottocentesco”, di “don Chisciotte della Einsta” è ancora oggi quanto di più moderno ci sia: costituisce infatti il massimo obiettivo dei fisici contemporanei, che cercano – per ora senza riuscirci – di unificare la gravità con le altre tre forze fondamentali della natura (all’interazione elettromagnetica si sono aggiunte nel frattempo l’interazione debole e l’interazione forte).
E va detto, infine, che non è affatto detto che l’universo – anzi il Kòsmos, il tutto armoniosamente ordinato dei Greci – sia il regno del continuo. Né che sia governato da una sola legge, fonda- mentale. Da una Teoria del Tutto. La “sindrome ionica” è e resta un pregiudizio metafisico. Ma senza pregiudizi metafisici – senza un’idea apriori di cosa cercare, un’idea beninteso da documentare con quelle che Galileo chiamava “certe dimostrazioni” e “sensate esperienze” – la scienza non va molto avanti. Perché, come sosteneva Albert Einstein, se la filosofia senza la scienza è semplicemente vuota, la scienza senza filosofia, ove anche fosse possibile, sarebbe arida.
(Da Left numero 13)
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