Pubblicate le previsioni di crescita per il biennio 2016-2017. Anche l'Ocse parla della necessità di ridurre le diseguaglianze e fare investimenti pubblici per sostenere la crescita. La stessa ricetta che indicano gli economisti di punta del Fondo Monetario

Le prospettive di crescita per l’economia globale non sono buone. Sorpresi? Probabilmente no: i segnali sono tutti mediocri e a metterli in fila è il Global Economic Outlook dell’Ocse, che presenta un quadro non oscuro, ma niente affatto allegro, nel quale alcune tendenze osservate negli ultimi anni non si arrestano. La crescita mondiale resterà fiacca, con i grandi Paesi emergenti che corrono meno che nel decennio passato e alcuni grossi calibri – Russia e Brasile – che continueranno ad annaspare. Il quadro è desolante soprattutto perché la crescita lenta che continua viene dopo una recessione dura. Dopo la crisi del 2008 non c’è stata una ripresa sostenuta, un rimbalzo vero e duraturo in nessun luogo. E in questo quadro, se escludiamo le economie malate russa e brasiliana, a essere piuttosto malmesso è il paziente europeo. Gli analisti dell’Ocse prevedono che l’area dei 34 Paesi è destinata a crescere dell’1,8% nel 2016 e del 2,1% nel 2017.

Le ragioni della difficoltà vanno segnalate perché sono delle critiche al modello diseguale di crescita al quale siamo abituati: debolezza della domanda, scarsa condivisione degli effetti dell’aumento della produttività e crescita dei salari più bassa di quella della produttività. Le diseguaglianze che aumentano, insomma, e la poca redistribuzione sono gli imputati e producono poca domanda e scarsi investimenti: chi investirebbe sapendo che le prospettive sono mediocri?

Che fare? La risposta dell’Ocse è semplice: «La politica monetaria da sola non può far uscire l’economia dalla trappola della bassa crescita» e i bassi tassi di interesse consentono margini di politica fiscale, servono poi «investimenti pubblici per sostenere la crescita e pacchetti di riforme strutturali necessarie per aumentare la produttività, i salari e l’uguaglianza». L’Ocse insomma, propone riforme che, per la prima volta da qualche decennio, cambino di segno le politiche adottate soprattutto dall’Europa – che tra le grandi macro aree del pianeta di cui si occupa il rapporto è quella destinata a crescere più lentamente. Se poi i britannici dovessero votare Si al referendum sull’uscita dall’Unione, beh, apriti cielo, sostengono gli analisti dell’istituto di Parigi.


I numeri dell’Ocse

Tra le principali economie avanzate, gli Stati Uniti, cresceranno dell’1,8% nel 2016 e del 2,2% nel 2017. L’area dell’euro migliorerà lentamente, con una crescita del 1,6% nel 2016 e dell’1,7% nel 2017. in Giappone, la crescita è stimata allo 0,7% nel 2016 e 0,4% nel 2017.

Con riequilibrare continua in Cina, la crescita dovrebbe continuare ad andare alla deriva inferiore al 6,5% nel 2016 e del 6,2% nel 2017, sostenuta dalla domanda stimolo. i tassi di crescita di India sono attesi a librarsi vicino a 7,5% quest’anno e il prossimo, ma molte economie emergenti continuano a perdere slancio. Le recessioni profonde in Russia e Brasile persisteranno, con il Brasile prevista una contrazione del 4,3% nel 2016 e dell’1,7% nel 2017.


Le previsioni Ocse parlano di un’Italia che cresce poco anche nel prossimo biennio: 1% nell’anno in corso e 1,4% nel 2017. La disoccupazione è destinata a calare leggermente, 11,3% quest’anno, 10,8% nel 2017 (nel 2015 era del 11,9%). Tutti indicatori positivi, ma per il nostro Paese vale in maniera più pesante quel che vale per l’area Ocse in generale, dopo anni di disoccupazione record e crescita negativa, non sono questi numeri a far cambiare lo stato del Paese.

A criticare il modello sono ormai tutte le istituzioni che contano. Tre importanti economisti del Fondo Monetario firmano un breve articolo dal titolo “Neolibearlism Oversold” (che potremmo tradurre “Troppe lodi per il neoliberismo”) nel quale con toni moderati e lodandone un po’ gli effetti della prima fase, si descrivono gli effetti negativi della conversione al mercato per tutto portata dal neoliberismo. Come fa notare Aditya Chakrabortty commentatore economico del Guardian, fino a qualche anno fa gli esperti del Fondo si rifiutavano di usare persino la parola neoliberismo, sostenendo che si trattasse di una definizione ideologica di chi contestava le scelte naturali, le cose giuste da fare.

Gli economisti scrivono: «La prova del danno economico delle disuguaglianze crescenti suggerisce che i politici dovrebbero essere più aperti all’idea della redistribuzione (…) Oltre a questa, politiche potrebbero essere progettate per mitigare alcuni degli effetti in anticipo (ridurla alla radice) attraverso una maggiore spesa per istruzione, formazione e pari opportunità (Le cosiddette politiche di pre-distribuzione). E le politiche di consolidamento fiscale dovrebbero essere pensate per ridurre al minimo l’impatto negativo sui gruppi a basso reddito». Tradotto rozzamente: redistribuzione, welfare e, quando necessario, politiche fiscali pensate per far quadrare i conti che non devono accanirsi sui più poveri. Peccato che il Fondo, per adesso, non segua le idee dei suoi ricercatori – sebbene sulla Grecia il braccio di ferro tra la direttrice Lagarde e la Commissione europea fosse in parte dettato dall’eccesso di richiesta fatta da Bruxelles – e che tutta la politica economica dell’Unione europea punti a implementare regole e politiche che appaiono ormai vecchie e scadute. E, a giudicare dalle previsioni dell’Ocse, anche fallimentari.

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