Il diritto alla terra è sempre più a rischio e i suoi custodi sono in pericolo. Così si legge nel rapporto di Oxfam, Custodi della terra, difensori del nostro futuro, presentato a Torino all’interno durante la manifestazione Terra Madre.
Più della metà della terra emersa del nostro pianeta è abitata da popoli indigeni e da comunità agricole locali, che rischiano quotidianamente di dover abbandonare i loro luoghi per lasciare spazio ai progetti industriali di compagnie petrolifere, agroalimentari e minerarie.
I numeri degli ultimi sedici anni non sono rassicuranti: il 59 per cento delle terre acquistate dal 2000 a oggi sono rivendicate dalle popolazioni native, cui non viene riconosciuto il diritto di proprietà che gli spetterebbe per tradizione. Dei casi analizzati da Land Matrix – che raccoglie il più grande database di accordi fondiari su larga scala dal 2000 – soltanto il 14 per cento degli acquisti fondiari di terre abitate da comunità locali hanno richiesto e ottenuto dagli abitanti il “Consenso Libero, Preventivo e Informato”, mentre nel 43 per cento dei casi ci si è limitati a forme irregolari di consultazione.
Il 2016 ha inaugurato, secondo il direttore generale di Oxfam Roberto Barbieri, «una fase nuova della corsa globale alla terra, più pericolosa» con un numero di accordi siglati che è già il doppio di quelli del 2013. «La frenetica compravendita di milioni di ettari di foreste, coste e terreni coltivati, in molti paesi poveri, – continua Barbieri – porta a omicidi e sfratti delle popolazioni indigene. Un vero e proprio etnocidio. Gli accordi e i progetti realizzati sulla terra che viene accaparrata avvengono nel totale disprezzo del consenso delle comunità locali che lì vivono da sempre. Occorre intervenire con urgenza in questo quadro destinato a generare conflitti sempre più sanguinosi».
Nonostante i diritti dei nativi siano protetti formalmente dalla Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Diritti dei Popoli Indigeni, adottata dall’Assemblea Generale dell’ONU nel 2007, raramente le comunità vengono interpellate dai governi e dalle industrie che intendono acquisire i loro territori, perché le loro attività sui terreni – per lo più agricoltura e pastorizia – non sono sempre documentate. Senza essere consultati, gli abitanti vengono spesso sfrattati e dislocati con la forza, anche di notte, e un cospicuo numero di attivisti ambientali perde la vita nel corso delle proteste. Secondo Global Witness, infatti, nel 2015 in tutto il mondo sono stati uccisi due attivisti a settimana, la cui metà di provenienza indigena.
Stati Uniti, Sud America, Africa, India, Norvegia, Australia, Nuova Zelanda sono alcuni dei teatri più frequenti delle lotte tra attivisti locali, governi e industrie; in Africa, per esempio, il 90 per cento della terra rurale è ancora considerata terra di nessuno, mentre in Perù c’è un’area grande cinque volte la Svizzera che stenta a ottenere un riconoscimento dal governo.
La salvaguardia delle terre rurali e dei loro abitanti, fa notare il rapporto di Oxfam, non è soltanto un impegno etico a favore delle culture locali e dei diritti di esse, ma è anche un dovere verso l’ambiente in cui viviamo. La deforestazione, infatti, accelera l’emissione di carbonio, che è una delle cause dell’innalzamento della temperatura terrestre, discusso recentemente a Parigi nella Conferenza Internazionale sul Clima.
«Privare milioni di persone della terra su cui hanno vissuto per intere generazioni rappresenta un attacco alla loro identità culturale, oltre che alla loro dignità e alla loro sicurezza. – sostiene Barbieri – Salvaguardare il loro diritto alla terra è essenziale per affrontare in maniera decisa il problema della fame, della disuguaglianza e del cambiamento climatico. Per questo motivo è necessario che i governi se ne facciano carico il prima possibile.» Le foreste gestite attualmente da popoli indigeni – riporta Oxfam – riescono a sequestrare una quantità di CO2 equivalente a quella prodotta annualmente in tutto il mondo. Affidare le terre alle comunità locali, in sintesi, significa proteggere più di 5000 diverse culture umane, più di 4000 idiomi, tutelare l’80 per cento della biodiversità e contrastare l’emissione di carbonio.
Negli ultimi anni la pressione esercitata sugli enti finanziari più importanti ha sortito qualche timido effetto: il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Asiatica di Investimento per le Infrastrutture hanno adottato un nuovo standard di procedura basato sull’accordo preventivo con le comunità locali. A livello globale, inoltre, si registra un crescente riconoscimento dei legami tra il diritto alla terra e gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibili (SGDs), e una decisiva confluenza tra attivismo ambientale e attivismo sociale, come il caso del Nord Dakota mette bene in luce (Left lo ha trattato qui).