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Bellezze dell’italiano. La quarta lingua più studiata al mondo

Mentre la Lega pretende che si insegni il  dialetto”lombardo” a scuola, l’italiano  si prende una bella rivincita. Oggi è al quarto posto fra le lingue più studiate al mondo dopo l’inglese, lo spagnolo e il cinese.  Nella Giornata ProGrammatica di Radio3 il 19 ottobre tutto il palinsesto è dedicato all’italiano, con decine di ospiti e  il coinvolgimento di Istituti di cultura italiana.  Anche questa quarta edizione si conclude con la serata speciale condotta da via Asiago a Roma da Giuseppe Antonelli che sarà trasmessa dalle 21 alle 23 in diretta su Radio3 e in streaming video sul sito radio3.rai.it. Ecco cosa ha detto il linguista Antonelli a Left:

La lingua lombarda rischia di estinguersi. Armata di questa convinzione la Lega Nord torna a voler imporre l’insegnamento della lingua lombarda nelle scuole. «Non ha proprio senso insegnare i dialetti», dice però il linguista Giuseppe Antonelli. «Il dialetto è sempre stato la lingua degli affetti, della vita quotidiana»,spiega il docente dell’università di Cassino e autore de La lingua batte ogni domenica su Radio 3. «E poi non è vero che i dialetti vadano scomparendo. Una ricerca Istat dice che sono molto vivi. Mentre sono scesi al 2 % gli italiani che parlano solo il dialetto». Una conquista importante. «La grammatica italiana è un diritto», scriveva Gramsci. E gli italiani lo hanno conquistato a fatica, come si evince dalle prove di italiano per l’iscrizione alle liste elettorali che Antonelli cita nel suo nuovo Un italiano vero. La lingua in cui viviamo (Rizzoli). «In tempi di email e social network è più che mai importante studiare l’italiano scritto» aggiunge il conduttore della IV edizione della Giornata pro-grammatica in onda su Radio3. «Per gran parte degli italiani il diletto rappresenta la dimensione familiare, giocosa, colorita. Pasolini, che preconizzava un italiano tecnocratico e freddo, aveva paura che la perdessimo». È accaduto invece che l’italiano è andato incontro a nuove sfide. «Non basta parlarlo, bisogna saperlo scrivere, in modo diverso, dagli sms. Per questo servono più ore di italiano a scuola, invitando alla lettura di romanzi e poesia».

Anche il linguista e critico letterario Gian Luigi Beccaria dice, da sempre, che non avrebbe senso studiare i dialetti in classe. «E poi quali? Il lombardo non esiste. Dovremo insegnare il bergamasco, il piacentino, il milanese? Il torinese o il biellese o il langarolo? I dialetti sono moltissimi ed è la nostra grande ricchezza. In dialetto si possono scrivere poesie, c’è un’ampia tradizione da Raffaello Baldini a Zanzotto, ma non per questo possiamo fare a meno dell’italiano», commenta il professore emerito dell’università di Torino, autore di molti saggi, di un dizionario di linguistica e filologia e ora de L’italiano che resta (Einaudi), un appassionato viaggio nella lingua come organismo vivo, in continuo cambiamento. Un libro di ricerca, ricchissimo di informazioni, che trasmette l’emozione della scoperta di parole nuove ma anche di perle ormai desuete. Si scopre così che tantissime espressioni dialettali innervano già l’italiano, che nel corso dei secoli ha mutuato termini da una pluralità di lingue antiche. Non solo dal latino. I prestiti dal latino liturgico vanno scomparendo in una società che oggi è sempre più secolarizzata, come ha documentato Beccaria in libri come Sicuterat, il latino di chi non lo sa e dedicati a santi, demoni e folletti.

Molti sono i termini venuti dal greco antico e di uso quotidiano. «L’italiano attuale deve molto al greco» sostiene Antonelli. «Secondo il dizionario di Tullio De Mauro più del 2 % delle parole italiane hanno un etimo greco, non solo termini specialistici, ma anche parole di uso comune come atmosfera, entusiasmo, fase, sintomo ecc.». Ancor più interessante è scoprire la quantità di termini arabi che l’italiano ha assorbito, passando attraverso il dialetto veneziano e quello siciliano. A questo tema Beccaria dedica una parte del suo nuovo libro. Solo per citare un esempio: zecchino nasce dalla Zecca veneziana dal 1540. E zecca è un arabismo.
«L’importanza dell’arabo è stata enorme nella nostra storia. Anche se oggi, purtroppo, il mondo musulmano ci offre parole legate ai conflitti, alla guerra, al Jihad ma non è sempre stato così», dice Beccaria a Left. «L’arabo nel medioevo, e anche in seguito, ci ha dato una quantità enorme di parole. Trasformarono la Sicilia in un giardino d’Europa. Lo stesso fecero in Andalusia. Parole come arancio, zucchero carciofo, albicocca, limone sono arabe. E tante vengono dall’ambito della scienza, dell’astronomia, all’algebra ecc. I latini e i greci non avevano una parola e un concetto per indicare lo zero, il nulla, il vuoto. L’uso dello zero nell’espressione dei numeri viene dagli arabi. Ci hanno veramente arricchito di parole e di cultura». «C’è una originaria vicinanza fra la cultura araba e la nostra lingua continua a recarne traccia», aggiunge Antonelli. Prima di parlare di scontro fra culture, dovremmo avere consapevolezza di quanto noi gli dobbiamo anche in termini linguistici». Basta camminare nella parte più antica di Palermo per notare nomi di strade scritti in arabo ed ebraico. Ma si possono vedere anche interni di palazzi, come la misteriosa sala blu, decorati con calligrafie arabe. Per il linguista rivelatori sono gli antichi nomi delle strade che spesso indicano nomi o lavori scomparsi. Anche i graffiti, le scritte sui muri, di cui Pompei era piena, sono tracce preziose, al pari dei testi letterari. Come insegna Beccaria che ne fa uno strumento affascinante di ricerca, insieme a canti anarchici e della resistenza, filastrocche trasmesse di generazione in generazione. La tradizione orale permette di capire molto di come è mutato l’italiano soprattutto in anni più vicini a noi. Più rare e fortunose sono le scoperte di documenti antichi. Ma a volte sono straordinarie come quella avvenuta qualche anno fa nell’archivio di Stato di Roma grazie al linguista Pietro Trifone.

Nel borgo di Collevecchio, Bellezze Ursini si manteneva facendo la domestica e la guaritrice, un’attività “mal vista” dalla Chiesa. Nel 1527 fu accusata di stregoneria e torturata. Stremata, scrisse una confessione autografa. Che non servì a niente. Prima di finire sul rogo, preferì suicidarsi. Quelle sue otto paginette ci dicono molto di un italiano popolare allora ancora in fieri, racconta Giuseppe Antonelli. «Ci dicono che nella campagna romana ci poteva essere, agli inizi del ‘500, una donna, una popolana, che sapeva scrivere». Colpisce anche la trascrizione ufficiale che ne fece il notaio Luca Antonio, normalizzando il linguaggio della donna per farle dire ciò che ci si sarebbe aspettati da una “strega”. «Quel modo di tradurre la grammatica di Bellezze in quella del potere mette bene in luce il confronto/scontro tra due mondi sociali e culturali di cui la lingua è al tempo stesso spia e strumento. Emerge la lotta, poi durata secoli, con la lingua ufficiale da parte di persone che invece venivano da situazioni socioculturali meno avvantaggiate», approfondisce Antonelli. Quel 1527, l’anno del sacco di Roma «fu anche un momento di svolta per l’italiano». Nonostante il dominio della Chiesa e il latino liturgico, il volgare si presentava come una lingua fluida, duttile, rivendicata da artisti come Leonardo che si definiva con orgoglio «omo sanza lettere», snobbando i latinisti tromboni. Ma proprio mentre si diffondeva un volgare vivo e popolare (fra romanzi, leggende e grammatiche) nel 1525 Pietro Bembo pubblicò Le prose della volgar lingua. «L’umanista veneziano fu rigidissimo nel prescrivere forme riconducibili al modello di Petrarca e di Boccaccio».

Così se Dante e il fiorino, ovvero la potenza economica dei mercanti toscani, «avevano contribuito alla diffusione del fiorentino come lingua di prestigio, tutto questo fu formalizzato dall’umanista veneziano», risponde Antonelli alla nostra domanda sulla discussa egemonia del fiorentino. «Nel 1525 Bembo indicò come modello per la lingua letteraria che oggi chiamiamo italiano quello usato da Boccaccio per la prosa e da Petrarca per la poesia». Quanto a Dante, «Bembo lo teneva un po’ fuori, giudicava il suo fiorentino troppo plebeo e concreto. Da studioso che amava le lingue morte come il latino, Bembo scelse una lingua che all’epoca era già estinta da due secoli». Dando origine così a una lingua letteraria, «basata sugli eccellenti scrittori» protetta dai puristi, anche quelli di fede giacobina, e deprecata da Mazzini che non sopportava di rivestire il pensiero «della lingua de’morti e d’uno stile pedantesco».

Del tutto nuova fu la posizione di Leopardi, al quale – seppur da differenti punti di vista- entrambi gli studiosi che abbiamo interpellato dedicano uno spazio di rilievo nei loro libri. «Leopardi era un amante della tradizione letteraria italiana, era un grande conoscitore della letteratura delle origini, ma non era un purista», spiega Antonelli. «Aveva un’idea della lingua come qualcosa di vivo, ne ammetteva la libertà. Mentre in tanti lottavano contro i francesismi lui li chiamava europeismi. E li considerava, come i grecismi, un patrimonio comune alle varie lingue d’Europa». Anche per liberare il poeta di Recanati da una mitizzazione che lo allontana dai lettori, Giuseppe Antonelli ha scritto il saggio Comunque anche Leopardi diceva le parolacce (Mondadori, 2014). «L’autore delle Operette morali era un raffinato, un fine conoscitore della nostra lingua, sapeva usare registri e toni diversi, passando dalla poesia ai saggi, alle lettere. Quando scriveva agli amici per sfogarsi di un amore non corrisposto o di un insuccesso letterario si lasciava andare. Era capace di passare dal sublime a uno stile concreto, a seconda dell’interlocutore. Tutto questo – ribadisce Antonelli – può avvenire solo si conosce profondamente la lingua, le sfumature le differenze di registro, di costrutto». Ad incipit di Un italiano vero cita, non a caso, un passo dello Zibaldone: «La libertà nella lingua- scriveva Giacomo Leopardi – dee venire dalla perfetta scienza e non dall’ignoranza».
Come poeta Leopardi sceglieva le parole per il suo
no, ma usando la parola scienza sembrava alludere anche di una scelta legata a una ricerca di conoscenza. «Interessante è ciò che emerge studiando le minute di Leopardi e osservando le varianti» commenta Beccaria con sguardo da filologo.
«Nel libro parlo di Giorgio Caproni e di altri autori ma Leopardi è il principe dei poeti. Studiando le “sudate carte”, gli scartafacci, emerge il suo lavorio continuo, e ci permette di vedere la direzione che voleva prendere», commenta Gian Luigi Beccaria, che nel libro, per esempio, pone l’accento su cambiamenti come il passaggio da «infinito spazio», quasi una citazione galileiana, a «infiniti spazi». «Al singolare Leopardi preferisce un plurale, perché è più “astratto”. È un poeta che cerca il vago e il concreto insieme, riuscendo a conciliare le due cose. Ha un dono particolare: saper orchestrare la sua partitura, i suoni delle vocali, i rimandi, le assonanze interne, le consonanze, c’è una musica interna. È come un musicista che cerca l’intonazione».

 

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Solidacities. Ci sono città, in Europa, che cercano risposte alla crisi dei rifugiati

epa05586757 A participant of a demonstration called by 'Help Refugees Worldwide & One Human Race' acts as a refugee woman while she marches to the Downing Street in London, Britain, 15 October 2016. The demonstrators expressed their solidarity with refugees and condemn inhumane treatments of refugees and demolition of refugee camps, particularly at Calais in France. EPA/HAYOUNG JEON

Un appello alla solidarietà da parte delle istituzioni locali per promuovere iniziative in tutto il mondo e promuovere il dialogo tra le città e le organizzazioni che ospitano i profughi. È questo Solidacities. Perché, anche se gli Stati membri non lo fanno, le città hanno il compito di affrontare la più grave crisi umanitaria che si sia conosciuta dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Barcelona, Zaragoza, Rivas-Vaciamadrid, Stoccolma, Parigi, Lesbos, Pamplona, Salonicco. E anche i Comuni italiani di Riace, Camini e Acquaformosa. Il 18 ottobre, a Bruxelles, si sono dati appuntamento in 160 da 19 città di 13 Paesi europei, inclusi 12 sindaci. L’incontro, organizzato dal Gue/Ngl, il gruppo della Sinistra in Parlamento europeo, ha avuto una domanda madre: quali risposte dalle città alla crisi dei rifugiati? E, oltre alle città, erano presenti anche le ong e i rappresentanti delle istituzioni che riflettono sulla crisi umanitaria dei rifugiati.

 


Tra le tante testimonianze e proiezioni, spicca quella da Calais. Dove il vicesindaco annuncia che la Giungla sarà sgomberata il prossimo 4 ottobre. Mentre le scene di violenza si mischiano a quelle di miseria, qualche città d’Europa va in Parlamento a ricordare che «il diritto di asilo è garantito nel rispetto delle norme stabilite dalla convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 e dal protocollo del 31 gennaio 1967», recita l’articolo 18 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione europea che riconosce espressamente il diritto d’asilo previsto dalla Convenzione di Ginevra. Ovvero: il diritto di asilo è un diritto umano fondamentale.

Una Campana smemorata: l’onorevole omertà di governo

Micaela Campana durante la presentazione di "Sinistra ?? cambiamento", l'area del Pd nata dopo la rottura dentro Area Riformista sull'Italicum. Roma 19 giugno 2015. ANSA/ANGELO CARCONI

Prendete un deputato. Mettetelo in Commissione Giustizia, il cuore pulsante di un Paese ferito dai crimini organizzato di mafiosi, massoni e speculatori di ogni sorta. Pensate alla responsabilità di quel deputato.

Prendete un partito che dimette il sindaco di Roma mentre la città affonda in un’indagine che svela una rete criminale che affonda le radici tra la violenza e la politica. E mentre quel sindaco diventa il capro espiatorio (ma non ci crede quasi nessuno) il presidente del partito Matteo Orfini si dichiara pronto a querelare chiunque avvicini il nome del suo partito (il PD) a Mafia Capitale. E sembra che ci creda davvero mentre sbraita. Così come sembra che ci creda davvero Matteo Renzi quando in televisione ci dice che Ignazio Marino “si è dimesso”.

Ora fate che inizi il processo di Mafia Capitale (anche se un pezzo d’informazione sembra essersi distratta)  e che venga citato come teste una deputata. Si chiama Micaela Campana ed è in Commissione Giustizia. Ed è del partito che non vuole essere accostato a Mafia Capitale. Ed è moglie di un ex assessore in Campidoglio coinvolto nello stesso procedimento. Sempre del PD.

Seguitemi: la Campana ha organizzato un incontro tra Salvatore Buzzi (che in questa storia è uno dei cattivi) con il vice ministro degli Interni Filippo Bubbico (che dovrebbe essere quello che protegge i buoni, pensate, che è quello che ieri ha tolto la scorta al testimone di giustizia Ignazio Cutrò). La deputata Campana (nonché membro della Commissione Giustizia) infila una serie di “non ricordo”, di risposte degne di un film comico sulla mafia siberiana. Quando parla invece incappa in dichiarazioni che contraddicono la realtà dei fatti. A un certo punto il giudice le dice: «Non dire la verità sotto giuramento è un reato.» A un deputato membro della Commissione Giustizia.

Ieri verso sera esce una nota dell’Ansa che dice la deputata Micaela Campana ha resto una testimonianza segnata “da una serie di bugie e reticenze smentite dal contenuto degli atti processuali.” Ha mentito. E verrà probabilmente indagata per falsa testimonianza. Una componente della Commissione Giustizia. Responsabile nazionale per il welfare nel Pd, il partito del Presidente del Consiglio.

Cosa altro serve per chiedere alla poco onorevole Campana di farsi da parte? Quando Renzi ha fatto il ruttino del post pranzo americano ha intenzione di dirci qualcosa?

Buon mercoledì. E buona fortuna noi. Davvero.

Zang tumb tumberò

TrumpLand arriva il film di Moore contro Trump

Donald Trump arriva al terzo e ultimo dibattito accusando il mondo di frode elettorale: i segnali, twitta da giorni, ci sono tutti, queste saranno elezioni truccate. E il partito repubblicano non fa nulla per impedirlo. Di nuovo siamo all’io contro tutti, avversari e presunti amici. Il milardario newyorchese sembra il prodotto di un complotto per dividere e distruggere il partito repubblicano: in questi giorni sono molti quelli che prendono le distanze e, al contempo, molti nella base che credono alle sua sparate. Come quella di chiamare a raccolta degli osservatori ai seggi, che se si paleseranno, serviranno da strumento per impaurire i membri delle minoranze e non farli andare a votare.

Donald Trump e Hillary Clinton si sfidano su Fox News in diretta da Las Vegas e ancora una volta ne vedremo delle belle. E domani parleremo tutti degli attacchi del miliardario repubblicano a Hillary. Da due giorni i media Usa sono pieni della vicenda relativa al tentativo di scambio di favori tra Fbi e Dipartimento di Stato sulla possibile secretazione di una mail di Clinton al tempo in cui era Segretario di Stato. Un funzionario del Dipartimento ha promesso favori a uno dell’Fbi in cambio di quella secretazione e visto che l’argomento più forte per i repubblicani contor Hillary e il suo essere qualcuno di cui non ci si può fidare, proprio a partire dalle mezze verità dette sulla vicenda del server di posta privato usato al tempo in cui era il capo della diplomazia, la nuova rivelazione servirà a restituire vigore a quell’argomento.

Trump è in gran difficoltà: un sondaggio Survey Monkey/Washington Post sui 15 swing states mostra come la strada verso la vittoria sia strettissima: solo in Ohio, Nevada, Arizona, Florida e Texas Trump è in vantaggio. Ma attenzione: la sola ipotesi che Arizona e Texas possano passare ai democratici era fantascienza sei mesi fa. E altri sondaggi di questi giorni assegnano a Clinton la vittoria in Ohio e Florida. Per vincere, Trump dovrebbe conquistare tutto quel che è in bilico e poi anche la Virginia, dove il suo ritardo è enorme. Per questo la vicenda delle mail sarà al centro di un dibattito che probabilmente, per la terza volta, finirà con l’essere più un tentativo dei due candidati di dipingere l’avversario come un pericolo che non convincere gli elettori di essere un potenziale ottimo presidente.

Un ulteriore segnale di come la vicenda dei commenti sessisti del repubblicano sia stata disastrosa per lui è un sondaggio che segnale come gli elettori che hanno figlie (e solo figlie) siano molto più propensi a votare per Hillary (58% contro il 47% di media). Bene anche tra i non genitori, che nella maggior parte dei casi significa probabilmente giovani.

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Intanto Michael Moore ha deciso di entrare nella tenzone a modo suo. Ieri a sorpresa ha invitato i newyorchesi all’IFC, un’istituzione del cinema indipendente americano a downtown Manhattan, dove si proiettava Trumpland, un instant-movie che contiene uno spettacolo registrato dallo stesso Moore a Wilmington, in Ohio, dove alle primarie il candidato repubblicano ha fatto il pieno di voti.Nel teatro dove Moore parla sono raccolti spettatori pro e anti Trump e nel film si mostrano le differenze nel pubblico, la sua freddezza ad alcune battute del regista di Farenheit 9/11.

L’idea di Moore è di proiettare il film in più posti possibile per parlare e far parlare di Trump. Ma non solo: il regista di Flint, la cittadina dove quest’anno si è scoperto che l’acqua era piena di piombo, si lancia anche in una difesa di Clinton, mostrando immagini della sua vita e chiedendo al pubblico di Wilmington: «Cosa odiate di più di lei» (risposte: Bengasi, le mail, non è credibile»). A sorpresa, insomma, Moore, che ha sostenuto Sanders, non solo lavora contro Trump, ma anche a favore di Clinton. Che dovrà molto alla sinistra se verrà eletta (Sanders ed Elizabeth Warren stanno battendo gli Stati per lei difficili).

All’IFC di Manhattan c’era ovviamente tanta gente (la fila qui sotto) e l’obbiettivo e di far vedere il film a più gente possibile. Stanotte, intanto, in milioni guarderanno l’ultimo confronto Tv. Trump farà Trump e Clinton dovrà ancora una volta difendersi per le email.

Le mani di Palazzo Chigi sui 500 “super prof”: la protesta per l’Università vola nel web

Un momento del test di ingresso alla facoltà di medicina, all'Università La Sapienza di Roma, 6 settembre 2016. ANSA/Alice Fumis

Aumentano di giorno in giorno le firme alla petizione su Change.org indirizzata al presidente del Consiglio. “L’Università si riforma, non si commissaria da Palazzo Chigi”, il titolo del documento che vede tra i primi firmatari 75 docenti, la medaglia Planck Giorgio Parisi, tre vincitori di Grant ERC (Roberta D’Alessandro, Giuseppe Mingione, Alessandro Reali), cinque Accademici dei Lincei (Vincenzo Balzani, Giovanni Bignami, Ciro Ciliberto, Giovanni Dosi, Gianfranco Pasquino) e ricercatori del Cnr, docenti universitari a cui si sono aggiunti anche personaggi dell’economia italiana come l’ex presidente della Consob Guido Rossi.

Il mondo della ricerca italiana protesta dopo la decisione presa dal governo a proposito dei 500 “cervelli”, la cattedre Natta (in onore del chimico Giulio Natta premio Nobel nel 1963) che verranno scelti da commissioni i cui componenti sono nominati direttamente dal Presidente del Consiglio. Non solo queste cattedre sono “anomale” perché in deroga all’Abilitazione scientifica nazionale, ma la loro istituzione, si legge nella petizione, «crea un percorso parallelo e discrimina tra studiosi anche di pari professionalità».

In sostanza, dicono i promotori della lettera aperta a Matteo Renzi, si delegittima il sistema universitario che avrebbe bisogno di un miglioramento complessivo e naturalmente di più risorse. «Dare alla Presidenza del Consiglio dei Ministri – continua la petizione – la facoltà di selezionare i presidenti di quelle commissioni è una scelta totalmente eccentrica nel panorama internazionale, non ha paragoni nei sistemi democratici, e lede principi essenziali della democrazia liberale, quali l’autonomia dell’insegnamento e della scienza, che i costituenti non a caso vollero tutelare nella prima parte della nostra Costituzione, all’articolo 33, che come è noto recita: “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”».

Il testo evidenzia la necessità dell’autonomia universitaria per lo sviluppo economico ma anche per la partecipazione democratica e la libera circolazione delle idee. Questa petizione sulle cattedre Natta è solo l’ultimo appello in ordine di tempo proveniente dal mondo della ricerca italiana, come registra sempre puntualmente il sito dei ricercatori e docenti universitari Roars. Qualche settimana fa dopo le affermazioni di Raffaele Cantone sulla fuga dei cervelli causata dalla corruzione e dal nepotismo negli atenei italiani, si è verificata una sollevazione collettiva e cinquemila docenti hanno scritto al presidente dell’Anac, sostenendo che è la mancanza di attrattività legata alla scarsità di fondi e di prospettive a spingere i giovani ricercatori fuori dei confini italiani.

Ed è infine del febbraio 2016 la petizione lanciata da Giorgio Parisi,  uno dei più prestigiosi fisici italiani. Indirizzata al governo italiano e alla Commissione europea, la lettera, che era stata pubblicata anche da Nature, ha raggiunto 76mila firme. Il testo di “Salviamo la ricerca italiana”, punta l’indice sull’assenza di fondi per la ricerca e sviluppo, chiedendo al governo italiano di portare la spesa dall’attuale 1% al 3% del Pil. Ma come si vede dalle ultime scelte del governo, dai finanziamenti per Human Technopole di Milano alle cattedre Natta, la tendenza è quella di “premiare” poli di eccellenza a danno della ricerca di base per tutti gli atenei italiani. Come del resto dimostra anche il recente finanziamento dei Prin, progetti di rilevante interesse nazionale: 30 milioni all’anno, 300 vincitori su 4400 progetti, e poche migliaia di euro a ricercatore. Un’elemosina.

Mosul, torturato chi fugge dal Daesh. La denuncia di Amnesty

Puniti per i crimini subiti. I civili sunniti in fuga dagli orrori dell’Is, hanno fatto male i loro conti: pensavano di essere in salvo, credevano che l’orrore attraversato lo avessero finalmente alle spalle, forse si erano addirittura azzardati a tirare un sospiro di sollievo, una volta viste le divise della guardia irachena. Invece no. Una volta consegnatisi nelle mani dei militari, molti di loro sono stati torturati, uccisi e fatti sparire; uomini, donne e bambini. Colpevoli, inappellabilmente – dato che il giudizio l’hanno emesso le milizie arbitrariamente – di provenire da zone di mondo conquistate e gestite dallo Stato islamico. Vendetta e rappresaglia sembrano spesso guidare in maniera distorta chi invece dovrebbe garantire il ripristino della sicurezza.

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Dal 2016 queste milizie a maggioranza sciita, artefici delle violazioni dei diritti umani, fanno ufficialmente parte dell’esercito dell’Iraq. Conosciute come Unità di mobilitazione popolare, sono da tempo sostenute dal governo iracheno che fornisce loro armi e sostegno finanziario.

«Milizie paramilitari e forze governative irachene hanno commesso gravi violazioni dei diritti umani, tra cui crimini di guerra, nei confronti di migliaia di civili fuggiti dalle zone occupate dallo Stato Islamico»

La denuncia è di Amnesty International, che nel suo rapporto Uccisi per i crimini di Daesh: violazioni dei diritti umani contro gli sfollati iracheni ad opera delle milizie e delle forze governative (qui il rapporto integrale, Punished for Daesh’s crimes), che diffonde l’allarme in concomitanza con l’avvio delle operazioni militari per la riconquista di Mosul. Proprio per mettere in guardia dal rischio di ulteriori violazioni.

Sono oltre 470 le interviste a ex detenuti, testimoni, familiari di persone uccise, scomparse o in prigionia, funzionari, attivisti, operatori umanitari che raccontano di rapimenti, torture, fucilazioni e altre esecuzioni extragiudiziali, uccisioni di massa, stupri.

«C’era sangue sulle pareti. Ci picchiavano con qualunque cosa avessero a portata di mano: pale, tubi di gomma, cavi elettrici, sbarre di metallo. Salivano sopra di noi con gli stivali, ci insultavano, ci dicevano che questa era la vendetta per il massacro di Speicher [la base militare dove l’Is catturò e uccise sommariamente circa 1700 reclute sciite]. Due persone sono morte davanti ai miei occhi»

Questo è solo uno dei racconti fatti dai sopravvissuti e raccolti nel rapporto. C’è chi ha perso figli, un compagno, una sorella, la vita.

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Campo di Amariyat al-Falluja. Sono 3,4 i milioni di iracheni sfollati e attualmente abitanti nei campi. © Amnesty International

 

Amnesty ha denunciato la situazione alle autorità irachene e curde il 21 settembre. Nel rapporto, sono incluse una serie di raccomandazioni rivolte al governo centrale atte a interrompere il prima possibile le condizioni che generano questo vuoto di diritti e di umanità, e rivolte a ripristinare lo stato di diritto. Ma i primi non hanno risposto, i secondi smentito.

 

More than 1,000 detainees, including some as young as 15, are being held without charge in horrendous conditions at makeshift holding centres in Anbar governorate, west of Baghdad visited by Amnesty International on 30 April 2016
Centro di detenzione nel governatorato di Anbar, ovest di Baghdad. Visitato da Amnesty International il 30 aprile 2016. Qui, oltre 1000 detenuti, inclusi ragazzi di 15 anni, tenuti prigionieri in condizioni disumane. © Amnesty International

 

Cosa c’è dietro?
Ormai, in quelle zone, guerra, fede, appartenenza e morte si confondono e nutrono una dell’altra. Le autorità irachene così come quelle del governo regionale curdo, per verificare chi ha legami con l’Is, sottopongono a controlli di sicurezza tutti i maschi considerati in età da combattimento (tra 15 e 65 anni) in fuga dalle zone controllate. È in queste procedure che il margine per l’arbitrarietà è ampio e senza controllo. Né durante (non si può contattare nessuno, né essere portati di fronte a un giudice), né dopo: non c’è alcun modo per avere prova di ciò che avviene, o delle persone passate al vaglio dei paramilitari. Non solo: la tortura viene spesso usata per estorcere confessioni. Ma le irregolarità raggiungono anche il processo ordinario: stando ai dati dell’Organizzazione, finora nel 2016 sono state eseguite da tribunali iracheni almeno 88 condanne a morte, per lo più per reati di terrorismo, molte delle quali basate su confessioni e raccolta di prove che violano tutti i diritti. Sono state emesse altre decine di condanne a morte e almeno 3000 prigionieri si trovano nei bracci della morte in attesa dell’esecuzione.

 

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Bimba nel campo di Khadliya. © Amnesty International

 

Anche Monti vota no. Per fortuna, purtroppo

Mario Monti vota No
L'ex premier Mario Monti al Palazzo di giustizia di Trani per deporre al processo a carico dell'agenzia di rating Standard & Poor's (foto di Roberto Buonavoglia - 29 gennaio 2016)

L’ultimo No in vista del 4 dicembre è quello di Mario Monti. Ma a Palazzo Chigi sono quasi contenti, anzi sono proprio contenti, molto contenti. Un po’ come per D’Alema, Quagliariello, Brunetta, l’idea dei renziani è che con Mario Monti che si iscrive nel fronte del No possa cementarsi ancora di più l’immagine di un’armata Brancaleone, di rosiconi un po’ conservatori. Un’armata facile da battere, in sostanza, e perfetta per non entrare troppo nel merito della riforma.

Mario Monti voterà No, dunque e lo conferma a mezzo stampa, intervistato dal Corriere. Aveva votato la riforma, Mario Monti, però, e questa è il punto più godurioso per  i renziani: un altro che ha cambiato idea, come Bersani. «Perfetto!». Bisogna proprio sforzarsi, in effetti, per prender per buono il ragionamento dell’ex presidente del consiglio: «Consideravo essenziale non indebolire la corsa di Renzi sulle riforme economiche», ha detto. Per questo dunque ha votato in aula, sorvolando sui dubbi che oggi invece lo guidano verso il No: «Di questa riforma mi hanno sempre convinto la modifica del rapporto fra Stato e Regioni, l’abolizione del Cnel e la fine del bicameralismo perfetto», ha spiegato, «ma non mi convince un Senato così ambiguamente snaturato, nella composizione e nelle funzioni. Meglio sarebbe stato abolirlo».

A mostrare le falle del suo ragionamento è così lo stesso Monti, che ora assicura che il rischio di indebolire Renzi non c’è più? Perché? Mistero. «Anche nel 2012 c’era la stessa preoccupazione», dice solo Monti: «Ho sempre tranquillizzato tutti, dicendo che l’Italia è un Paese affidabile e che le politiche necessarie per il Paese sarebbero continuate. La stessa cosa penso e dico oggi all’estero. E vorrei dirlo anche agli italiani: diamo il voto secondo coscienza». Noi siamo d’accordo, ma allora perché non votare secondo coscienza anche in aula? Boh. «Non vedo ragioni per cui Matteo Renzi dovrebbe lasciare in caso di una vittoria del No, come aveva affermato all’inizio lo stesso premier», continua però Monti, «se tuttavia dovesse lasciare, non vedo particolari sconvolgimenti».

E qui ha ragione. Dopo di Renzi non ci sarebbe il diluvio, così come dopo la sua riforma costituzionale se ne può fare sempre un’altra, più semplice, rapida, con apposita legge elettorale, meno avventata. Senza tutta questa enfasi sulle ricadute economiche, peraltro. Almeno così dice Monti, che però vorrebbe tenere ancora più il punto sull’austerità: «Dire che una parziale modifica della Costituzione, conseguita in un modo così costoso per il bilancio pubblico, sarà molto benefica per la crescita economica e sociale dell’Italia, è una valutazione che non posso accettare». Come non si può accettare che si affermi invece la modalità di governo impostata da Renzi: «Se prevarrà il Sì avremo una Costituzione riformata, forse leggermente migliore della precedente, ma avremo con essa l’approvazione degli italiani a un modo di governare le risorse pubbliche che pensavo il governo Renzi avrebbe abbandonato per sempre, come ha fatto meritoriamente con gli eccessi della concertazione tra governo e parti sociali. Speravo che fosse arrivato il momento in cui gli italiani potessero essere e sentirsi adulti, non guidati dalla mano visibile del potere politico. Non avrebbe senso darsi una Costituzione nuova, se essa deve segnare il trionfo di tecniche di generazione del consenso che più vecchie non si può».

Il selfie con Obama per il Sì? Al presidente Usa del referendum non importa granché

Matteo Renzi e Barack Obama a Washington
epa04709686 A handout picture provided by the Chigi Palace shows US President Barack Obama (R) and Italian Prime Minister Matteo Renzi during a meeting at the White House in Washington DC, USA, 17 April 2015. EPA/TIBERIO BARCHIELLI / PALAZZO CHIGI / HANDOUT HANDOUT EDITORIAL USE ONLY/NO SALES

Sappiamo cosa mangeranno, chi cucina (il pessimo rappresentante della cucina italiana negli Usa assieme a Linda Bastianich, Mario Batali, tutti soci di Eataly negli states), chi sono gli ospiti e sappiamo che c’è grande amicizia. Abbiamo visto i filmati dell’arrivo come se si trattasse di una visita storica e sappiamo che gli Stati Uniti auspicano che il Sì vinca al referendum costituzionale, così come si auguravano che la Gran Bretagna rimanesse nell’Unione europea. L’ospitata da parte di Obama a Washington in questi giorni è un arrivederci da parte di un fan che ha fatto di tutto per somigliare al presidente Usa e che ne ha mimato gli slogan, inseguito le tattiche, cercato di presentarsi al pubblico italiano come qualcosa di simile.  L’impressione è che questa visita sia un gran favore al premier italiano. Il classico favore che si fa a un vecchio amico (l’Italia, non Renzi, che pure a Obama sta simpatico) che è una pedina tutto sommato stabile e centrale in un’Europa che cambia rapidamente.

È facile sbagliare, ma forse qualcosa si può dire sulle ragioni per le quali i due leader si incontrano proprio adesso. Alcuni riguardano l’Italia altre sono questioni più ampie. Partiamo dai primi: la manovra economica, il referendum, la photo-op. L’ultima è la più facile da spiegare: il premier italiano è in un momento di relativa difficoltà, alle prese con una battaglia complicata, quella del referendum, sulla quale ha investito del gran capitale politico e commesso l’errore di agganciarlo al suo destino politico. Errore rientrato, ma che continua a risuonare sui giornali internazionali. Oggi Obama dichiara (o almeno questo è il virgolettato attribuito al presidente da La Stampa): «Se il premier italiano dovesse perdere il referendum costituzionale non si dovrà dimettere». È giusto così, ma farlo dire a Obama significa forse far risuonare meglio il messaggio negli ambienti finanziari che contano e sui media internazionali. Ovvero evitare spread alle stelle e cose simili il lunedì 4 dicembre nel caso a prevalere fossero i No.

Veniamo alla manovra: la prima risposta dell’intervista concessa da Obama a la Repubblica riguarda proprio questa. O meglio, riguarda le divergenze di approccio alla crisi economica tra Europa e Stati Uniti, gli investimenti e l’intervento pubblico americani contrapposti all’austero rigore tedesco. Naturalmente ha ragione Obama (e anche Renzi), la filosofia tedesca è sbagliata e l’intervento del presidente rafforza la posizione italiana dal punto di vista dell’opinione pubblica e della pressione su Bruxelles, che in queste ore riceve e valuta la manovra del governo. Ciò detto, attenzione, Obama sta parlando di quello, non sta dicendo se sia giusto o meno abolire Equitalia, garantire e in che forme l’anticipo pensionistico, tagliare o destinare più fondi alla Sanità. Obama sta dicendo che durante una crisi strutturale l’austerity è sbagliata. E basta. Negli Usa la battaglia ideologica si gioca con i repubblicani, nel mondo con Merkel e Schauble. Con lui ci sono da anni pletore di economisti, grandi giornali economici, governi, associazioni di categoria, sindacati. Che poi né Renzi né nessun governo europeo abbiano saputo proporre piani di investimento e spese capaci di far cambiare passo a un’economia strutturalmente debole è un’altra cosa.

E il referendum? Obama è favorevole al Senato delle regioni? Probabilmente Obama del Senato delle regioni se ne infischia. E pur essendo un raffinato costituzionalista non ha la più pallida idea di cosa ci sia nella riforma costituzionale italiana. Il tema è quello di cui sopra: gli Stati Uniti preferiscono avere un’Italia stabile e la sconfitta di Renzi al referendum la renderebbe meno stabile.
E qui veniamo al fondo della questione. Quando nel febbraio 2012 Mario Monti sbarcò a Washington venne accolto con tutti gli onori e il Time gli dedicò una copertina (“Can this man save Europe?”). All’epoca l’Europa era attraversata da venti di crisi pericolosi e gli Stati Uniti, che si erano ripresi da poco, speravano che il premier tecnocrate contribuisse a calmare le acque. Oggi il discorso è diverso e simile: dopo la Brexit, con Le Pen in vantaggio nei sondaggi in Francia, la Spagna che non ha un governo da mesi, l’Ungheria, la Polonia in mano a partiti di estrema destra, gli Stati Uniti sono preoccupati per la tenuta del continente e, con la tensione che cresce con la Russia e il Medio Oriente in fiamme, non vogliono colpi di scena anche in Italia. Quindi sperano che Renzi vinca il referendum.

Su Libia, Siria, relazioni con la Russia, trattati commerciali, crisi dei rifugiati, gli americani – o meglio i democratici americani e Obama – puntano sul partito della loro famiglia politica. E quel partito, oggi, è guidato da Matto Renzi. Che poi il premier sia anche giovane, dinamico e simpatico a Obama, che il capo della comunicazione Filippo Sensi conosca come le sue tasche la politica Usa e Palazzo Chigi intrattenga ottimi rapporti, che si porti anche Benigni, Bebe Vio sono tutte cose in più, riguardano la photo opportunity, la possibilità di fare una sfilata a Washington prima dell’arrivederci del presidente. Un favore vero, certo. Ma i temi sul tavolo sono altri.

L’Europa e tutti gli investimenti che mancano

Sono tempi di magra per chi ha fame di investimenti pubblici in Europa.

Il bilancio spagnolo recentemente inviato a Bruxelles per le dovute considerazioni tecniche, prevede infatti una quota di investimenti pubblici pari al 2,09 per cento del Pil per il 2017. Il dato corrisponde al minimo della serie storica dal 1995 a oggi, si legge su El Pais.
Inoltre, la settimana scorsa, il ministro delle Finanze spagnolo, De Guindos, aveva avvertito che il prossimo governo dovrà risparmiare almeno 5,5 miliardi di euro nel 2017. Il motivo è stato chiarito ieri. La Spagna ha informato la Commissione europea che sforerà l’obiettivo del deficit per il 2017 di mezzo punto, toccando quota 3,6 per cento sul Pil.
Rimane da capire come in tutto ciò, il governo spagnolo riuscirà a tenere fede alla promessa di creare quasi mezzo milione di posti di lavoro.

In Portogallo invece, il governo di António Costa sta cercando di tenere insieme i pezzi con una manovra che cerca, da un lato, di abbattere l’austerity e, dall’altro, di mantenere il Paese sul binario del consolidamento fiscale. A quanto pare è in cantiere una tassa sulle proprietà con valore superiore ai 600mila euro che non ha mancato di far sobbalzare gli investitori, commenta Bloomberg. La tassa dovrebbe servire però principalmente a coprire le spese di welfare. Insomma, anche all’estremità sud-occidentale del Continente, non c’è traccia di investimenti.

Sarà Bruxelles a colmare la lacuna allora?

In effetti, nel suo discorso sullo stato dell’Unione, Jean Claude Juncker aveva detto di voler raddoppiare i fondi destinati al così detto Juncker Plan che prevedeva originariamente 315 miliardi di euro. Peccato che ci siano resistenze anche su questo fronte, soprattutto da parte tedesca. Eppure, la Germania non è un fronte compatto del no. C’è chi ribadisce che Merkel e Schäuble dovrebbero fare di più per il resto dell’Europa.
Il nome di riferimento è Marcel Fratzscher, direttore del Deutsches Institut für Wirtschaftsforschung (DIW) e già autore del saggio “Die Deutschland Illusion” (“L’illusione tedesca”, Hanser Verlag, 2014) in cui aveva smontato, pezzo per pezzo, il mito di un’economia tedesca in piena forma. In un recente editoriale per Handelsblatt, Fratzscher ha ribadito che la Germania deve fare da traino all’economia europea e che «sarebbe un grave errore se il governo tedesco non dovesse sostenere il piano di investimenti europeo».

 

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