«È giunto il momento di attaccare, di passare all’offensiva». Così, l’Ejército Zapatista de Liberación Nacional (Ezln) annuncia che si presenterà alle elezioni messicane del 2018. La candidata presidente che si contenderà la guida del Paese in nome di dei 17 milioni di indigeni in Messico (il 15,1% della popolazione messicana), anticipano, sarà una donna e scelta tra le caracoles, le comunità zapatiste autonome e autogestite.
Membri dell’Ezln e del il Consiglio nazionale indigeno, durante l’incontro del 15 ottobre a San Cristobal de las Casas
«Daremo vita alle consultazioni in ogni nostro territorio per individuare una donna indigena, che accontenti il Consiglio nazionale indigeno e l’Ezln», hanno scritto gli zapatisti in una dichiarazione intitolata “Que retiemble en sus centros la tierra” – “Che tremi nel suo centro la terra”, e parafrasano così l’inno nazionale messicano. Il documento, prodotto alla fine del Congreso Indígena di San Cristóbal negli scorsi giorni, continua: «Ribadiamo che la nostra lotta non è per il potere, non lo cerchiamo; ma chiameremo le popolazioni indigene e la società civile a organizzarsi per fermare questa distruzione, per rafforzarci nella nostra resistenza e ribellione».
membri dell’Ezln sfilano per le vie di San Cristobal de las Casas, Chiapas, Mexico
Se gli zapatisti, contrari a essere sovvenzionati, riceveranno i soldi del governo e se la nuova formazione utilizzerà le sigle già esistenti o se ne formulerà una ex novo per le elezioni, non è stato ancora reso noto. Ma, con questa decisione, in Chiapas si rompe una tradizione lunga 22 anni e per la prima volta si aspira a un incarico pubblico e istituzionale. Finora, l’insurrezione zapatista, in tregua a tempo indeterminato da pochi giorni dopo la rivolta armata, si sono sempre rifiutati di partecipare alle elezioni. Adesso, che le recenti riforme legislative permettono liste e candidati indipendenti, ci provano: «È il tempo della dignità ribelle, di costruire una nuova nazione, di rafforzare il potere dal basso e la sinistra anticapitalista, affinché si scontino le colpe per il dolore dei popoli di questo Messico multicolore».
il subcomandante Galeano (precedentemente Marcos)
Per quattro giorni i 500 delegati indigeni provenienti da tutto il Paese si sono riuniti a San Cristobal de las Casas (Chiapas). Erano presenti il subcomandante Moisés, il comandante Tacho, altri membri della Comandancia General dell’Ezln. E il subcomandante Galeano (precedentemente Marcos). Probabilmente, l’incappucciato più famoso del mondo. Il suo passamontagna fece il giro del mondo nel gennaio 1994 quando, pipa alla bocca, in risposta al trattato di libero scambio dell’America settentrionale (Nafta) uscì dalla selva Lacandona con il suo esercito di ribelli. Con quella marcia a San Cristobal de las Casas, diedero il via alla lotta per i diritti degli indigeni e alla sfida contro il capitalismo. «Caminar preguntando», era solito dire Marcos (oggi Galeano).
Forse sarebbe il caso di trovare la voglia e il coraggio di dirlo una volte per tutte. Forse davvero dobbiamo smettere in nome della paura (nostra e per gli altri) di fingere una cortesia istituzionale che sta concedendo la peggiore gestione di testimoni di giustizia, collaboratori e più in generale di persone sotto protezione per minacce mafiose degli ultimi anni. E poiché la politica è una cosa semplice forse sarebbe il caso, una volte per tutte, di porre le domande a chi di dovere: al vice ministro Bubbico, ad esempio, che per ruolo si ritrova a coprire il delicato compito di chi certifica il rischio di chi ha denunciato il malaffare.
Questa volta, per l’ennesima volta, parliamo di Ignazio Cutrò ma il discorso, credetemi, si potrebbe allargare a un ampio spettro di casi e di persone: Cutrò è testimone di giustizia, ha denunciato i mafiosi che gli chiedevano il pizzo per poter continuare a lavorare nella provincia agrigentina. Siamo a Bivona e qui succede, com’è successo a Ignazio, che il tuo vecchio compagno di scuola te lo ritrovi anni dopo dalla parte della mafia a estorcere usando la paura. Ignazio ha denunciato e i mafiosi sono stati arrestati, processati e condannati.
Ma Ignazio Cutrò è un antimafioso non convenzionale: non indossa spille dell’antimafia educata, non ci sta a fare l’amuleto del politico di turno, non si attacca al pantalone dello Stato ringraziando il cielo di essere protetto e soprattutto ha un senso di giustizia che non si rinchiude nelle cose di mafia. Così un giorno s’è messo in testa di rintracciare gli altri testimoni di giustizia come lui e ha cominciato a organizzare i diritti: diritti di essere protetti (questa è facile) ma anche diritto di lavorare, di avere una vita dignitosa, di poter svolgere una vita sociale e famigliare e diritto di guardare negli occhi chi si occupa di loro. Il vice ministro Bubbico, in questo caso.
L’iniziativa non è mai piaciuta. No. Governo e istituzioni in nome della presunta sicurezza da assicurare spesso (troppo spesso) assumono decisioni sbagliate ritenendo “gli scortati” una proprietà di Stato piuttosto che persone. E un po’ per paura e un po’ per egocentrismo (essere scortati garantisce visibilità anche a mediocri e truffaldini) quasi tutti stanno zitti. Ignazio no. Lui no. E questa cosa deve essere andata di traverso a molti.
Così siamo a ieri quando il Ministero dell’Interno ha notificato a Ignazio Cutrò l’uscita dal programma di protezione: in pratica Bubbico e compagnia cantante hanno scritto nero su bianco che il presidente dell’associazione dei testimoni di giustizia (il sindacato degli impauriti, cose che solo da noi) non ha più bisogno di protezione. Qui dove si scortano Prefetti, ministri, sottosegretari, dirigenti sportivi, icone stantie e tutta una marmaglia di burocrati, il testimone di giustizia che ha messo in rete i testimoni di giustizia invece non ha bisogno dello Stato. E quindi? E quindi secondo quel vigliacco foglietto Ignazio e i suoi figli già oggi avrebbero dovuto passeggiare difendendosi confidando nel buon cuore del destino. Roba da prendere il vice ministro per le bretelle e trascinarlo subito a riferire al Parlamento se non fosse che qualcuno abbia deciso che, passato Berlusconi, non si deve più rompere i coglioni sull’antimafia.
E Ignazio è la punta di un iceberg che in realtà contiene molti coraggiosi denuncianti che negli ultimi anni sono stati lasciati a piedi. Ma tutti tacciono. L’antimafia è stata messa nel cassetto degli argomenti barbosi. A posto così. E chissà come ride la mafia.
Buon martedì.
(ps il Prefetto di Agrigento ha deciso, al contrario del Ministero, di mantenere le misure di protezione. Meglio così: ora è ancora più evidente che qualcuno ha preso una decisione inspiegabile.)
Il 19 ottobre prende il via il più importante appuntamento internazionale per lo scambio dei diritti editoriali, la Buchmesse di Francoforte che, quest’anno, ospiterà complessivamente settemila espositori da un centinaio di Paesi differenti, mentre Fiandre e i Paesi Bassi saranno ospiti d’onore.
Sono 250 gli editori italiani che parteciperanno allaFiera internazionale del libro di Francoforte, di cui un centinaio all’interno di uno stand collettivo (organizzato dal ministero dello Sviluppo economico, dall’Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane e dall’Associazione italiana editori) di 500 metri quadrati, al quale partecipano anche le Regioni Lazio e Piemonte. La presenza degli espositori italiani è raddoppiata rispetto all’anno scorso. Mentre – secondo dati Nielsen – il fatturato di libri di carta in Italia segna un +0,2% . Con un crescente peso dell’export di diritti di libri italiani all’estero (+11,7% nel 2015). Intanto il calo delle copie vendute, -2,9% (circa 1,4milioni di copie di libri di carta vendute in meno) è più contenuto rispetto al -5% dello stesso periodo del 2015.
Un trend, quello italiano, tutto sommato in controtendenza rispetto alle linee generali della Buchmesse che ancora risente di una certa crisi, che tuttavia non intacca il fatto che la Germania è e resta un Paese di lettori forti. Nel 2015 ha registrato un meno 1,4% , tanto che c’è chi si lamenta che il mercato tedesco del libro sia tornato alle dimensioni di 10 anni fa. Mentre negli ultimi cinque anni gli espositori sono diminuiti del 6 per cento. Ed è diminuito il numero degli stand anche per il costo dell’affitto. Ma le cifre anche per quanto riguarda il pubblico sono alte benché i non addetti ai lavori possano entrare solo il sabato e la domenica. L’anno scorso erano 275 mila i visitatori mentre i giornalisti accreditati più di 10 mila.
Molte le occasioni di incontro. Gli editori vanno a Francoforte per partecipare all’asta dell’acquisto dei diritti, ma anche per incontrare altri operatori, per scambiarsi informazioni, senza contare i moltissimi momenti di festa. Per chi cerca momenti di approfondimento importante sarà l’incontro dedicato alla Turchia dal titoloEuropa-Turchia: esiste ancora la libertà di opinione?. Ci sarà un focus sui migranti in Europa e sull‘avanzata dei populisti. E un dibattito con lo scrittore e orientalista francese Mathias Énard, dal titolo “Più Europa, ma diversa da quella che è stata finora”. Autore del romanzo Bussola, pubblicato in Italia dalle Edizioni e/o, Enard affronterà anche la questione della ridefinizione dei confini nazionali in Medio Oriente, fatta saltare dall’Isis e dal conflitto in Siria. Confini che furono definiti dall’Occidente alla fine della seconda guerra mondiale e che il mondo arabo ha subito. (Qui l‘intervista di Left a Matthias Enard).
Lo spazio della Buchmesse è da sempre internazionale come dimostra anche il fatto che Gaby Wood che dirige la fondazione del Man Booker Prize, il più importante premio letterario in lingua inglese, abbia deciso di presentare in fiera il 19 ottobre i sei finalisti di quest’anno.
Dalle Fiandre e dai Paesi bassi arriveranno circa 70 autori, fra loro anche lo scrittore di origine iraniana Kader Abdolah che, con libri come La scrittura cuneiforme, il viaggio delle bottiglie vuote e la sua storia del Corano letto laicamente come testo letterario è diventato uno dei più grandi, se non il più grande scrittore contemporaneo in nederlandese. Pubblicato in Italia da Iperborea Kader Adolah sarà presente in fiera ( e il 31 ottobre a Milano) con il suo ultimo romanzo Un pappagallo volò sull’ IJsselche tra le righe racconta come è cambiata l’immigrazione in Olanda, da quando lui fu accolta da rifugiato perseguitato dal regime degli ayatollah. (ecco la nostra intervista a Kader Abdolah).
La storia della Buchmesse . La fiera internazionale del libro di Francoforte è una delle fiere del libro più antiche. Già nel 1573 l’umanista Henri Estienn parlava dell’emporium dei libri di Francoforte come di un grande momento di scambio commerciale ma anche intellettuale. Nel ‘500 la Buchmesse era conosciuta come la più importante fiera libraria del Rinascimento europeo, anche perché nasceva su una solida base di imprese artigianali di stampatori che erano anche librai, e già allora avevano agenti che si si spostavano ad Augusta, a Lipsia e in altri centri di produzione libraria che coinvolgeva parimenti tipografi, correttori di bozze, rilegatori, rivestitori di libri in pelle e altri materiali di pregio. Nei giorni della fiera ogni editore annunciava le proprie novità con cartelli e volantini ante litteram, che venivano distributi ovunque. Qualcuno stampava una sorta di catalogo essenziale. Prima che venisse stilato quello genrale della fiera, strumento preziosissimo per gli studiosi che vogliono sapere quanto si stampava e soprattutto cosa si leggeva. Si viene così a sapere che nei primi cento anni della stampa a caratteri mobili furono stampati circa 7 milioni e mezzo di libri, per un totale di 25mila titoli. E si scopre anche studiando i catologhi censurati che in periodi di crisi come la la guerra dei trent’anni si acuiva il controllo sulla produzione libraria. Proprio fra fu messo sotto controllo dall’imperatore, ma di fatto furono i gesuiti nel 1618 a esercitare una forte censura. Il vero boom del libro si ebbe poi nella prima metà del XVIII secolo i cataloghi della fiera confermano il boom della stampa si ebbe nel XVII secolo quando si smise di usare il latino ed entrarono in uso i volgari e le lingue nazionali. La fiera riprese poi vigore nel secondo dopo guerra per arrivare senza soluzione di continuità fino ad oggi.
A peshmerga convoy drives towards a frontline in Khazer, about 30 kilometers (19 miles) east of Mosul, Iraq, Monday, Oct. 17, 2016. The Iraqi military and the country's Kurdish forces say they launched operations to the south and east of militant-held Mosul early Monday morning. (AP Photo/Bram Janssen)
La presa di Mosul, descritta come il colpo definitivo al Califfato in Iraq è cominciata. Assisteremo a settimane di battaglia oppure a una rapida ritirata strategica dei miliziani dell’Isis? Non lo sappiamo. Certo è che perdere il gioiello sulla corona del Califfato sarà uno scacco enorme per un progetto politico il cui appeal è cresciuto anche e molto per la capacità di occupare materialmente del territorio a cavallo dei confini statali. Ma da mesi ormai – che ne siamo accorti in Europa – l’Isis ha in parte cambiato strategia, concentrandosi meno sul territorio e più sulla strategia terroristica in giro per il mondo.
E puntando ad acuire quel conflitto tra le due grandi famiglie dell’Islam che ne ha fatto la fortuna fin dalle origini. La verità è che la presa di Mosul, come ogni altro passaggio chiave della vita politica e militare di quella regione del mondo a partire dal 2001, presenta enormi incognite e pericoli che potrebbero avere conseguenze altrove. Il primo pericolo – in maniera dissimile ma non opposta a quanto succede in Siria, sia contro Assad che contro il Califfato – è rappresentato dalla eterogeneità delle forze che si muovono contro l’Isis. Volendo fare paragoni storici improbabili, dopo essere stata sconfitta da forze eterogenee, la Germania venne divisa in due per diversi decenni.
Come ruolo avranno le milizie sciite?
Nell’aprile del 2004 le truppe americane riprendevano Falluja dalle milizie sunnite. Quella battaglia, nella quale morirono centinaia di civili segnò un punto di non ritorno dal disastro americano in Iraq. Uno dei tanti. Dopo Falluja la figura di Abu Musab al Zarqawi e al Qaeda in Iraq crebbero e con loro crebbe quella rete di ex militari dell’esercito di Saddam, milizie sunnite e combattenti stranieri che per anni fu l’incubo dei militari americani e fece cambiare di segno la guerra nel Paese: Falluja e poi Tal Afar rappresentarono il passaggio da una guerriglia anti-americana a una guerra civile sunnita-sciita fatta di guerriglia e combattimenti sanguinosi nel cosiddetto triangolo sunnita e di attentati, kamikaze e non, in tutto il resto del Paese. A cominciare da Baghdad.
La de-baathificazione dello Stato iracheno guidata da Ahmed al Chalabi, il licenziamento in tronco di decine di migliaia di persone, soprattutto sunniti, che non erano parte del regime, ma spesso dipendenti pubblici iscritti al partito Baath di Saddam Hussein per ragioni di piccola convenienza, fu un catastrofico errore dell’amministrazione Bremer e al Jaafari. E accentuò le tensioni interconfessionali.
Dopo anni sanguinosi, gli americani, dopo l’arrivo del generale Petraeus, cambiarono drasticamente strategia. Da un lato Petraeus chiese più truppe, dall’altro promosse una strategia di inclusione delle tribù sunnite, le armò e le fece partecipare alla lotta armata contro al Qaeda. La partenza degli americani e il consolidarsi del potere di Nouri al Maliki – che dal 2010 non a caso si prese l’interim di Interni e Difesa – rovesciarono progressivamente la politica americana. Maliki ottenne la maggioranza parlamentare alle elezioni solo dopo l’esclusione da parte della commissione per la de-baathificazione di molti candidati del blocco avversario, più aperto e misto. Obama lasciò correre e l’Iran lavorò e favorì per il rafforzamento del potere politico di al Maliki. Con il risultato di tornare alla fase precedente: l’esercito iracheno, composto in larga parte da ex miliziani sciiti inquadrati come soldati, si imbarcò in rappresaglie, vendette, maltrattamenti nei confronti della popolazione sunnita. I corpi dei sunniti con il cranio perforato da punte di trapano erano all’ordine del giorno a Baghdad. Maliki fece anche imprigionare qualche leader politico sunnita.
Quando gli uomini di al Baghdadi arrivarono a Mosul la popolazione non si disperò: al potere tornava un gruppo sunnita che aveva cacciato quella che veniva percepita come un’occupazione sciita. Con gli anni la simpatia per l’Isis è svanita. Ma resta il timore che l’esercito iracheno, costretto alla fuga e umiliato nel 2014, rientrando a Mosul si lasci andare a rappresaglie, repressione, maltrattamenti nei confronti dei sunniti. Le stesse pratiche che hanno rafforzato i gruppi più estremi e favorito il disegno di al Zarqawi prima e al Baghdadi poi. Americani, europei e chiunque altro dovranno vigilare e premere su Baghdad (e Teheran) perché il triangolo sunnita non ridiventi un luogo in cui la repressione da parte sciita alimenta la propaganda del Califfato.
(AP Photo/Adam Schreck, File)
Siria, Kurdistan, Iran, Turchia: uno scacchiere regionale complicato
Come per la Siria, nel nord dell’Iraq si giocano molte partite regionali e si combatte anche per interposta persona. Il presidente turco Erdogan ha reso noto che soldati yazidi, cristiani e turcomanni addestrati da Ankara stanno partecipando alla battaglia di Mosul e che la Turchia intende avere un posto al tavolo che discuterà il futuro della città. La preoccupazione di Ankara è la solita: impedire un ruolo centrale ai curdi che, caduta Mosul, confinerebbero con la Siria e con i gruppi dell’Ypg che fanno la guerra all’Isis dall’altra parte di quello che fu il confine. E che si troverebbero più forti in un Iraq su cui la guerra siriana sta avendo un effetto destabilizzante. Ankara e Baghdad sono ai ferri corti: soldati turchi sono sul territorio iracheno da anni, ma il governo ha chiesto che escano dal Paese. Erdogan ha invece occhieggiato alla minoranza sunnita facendosi garante di una Mosul città dalle molte identità, come prima della guerra. Il fatto che un leader regionale entri a gamba tesa nelle dispute confessionali-comunitarie irachene ha fatto indispettire non poco il governo legittimo di Baghdad.
Poi ci sono gli iraniani, impegnati a combattere con Assad in Siria, centrali in Iraq e impegnati a Mosul. Per loro la guerra al Califfato è anche una guerra inter-confessionale e parte della strategia regionale. Il capo delle Guardie della rivoluzione, Qassem Soleimani e i suoi consiglieri sono stati parte cruciale dell’offensiva (così come di quella contro Aleppo) e dalla caduta di Mosul in poi hanno fatto la spola con Baghdad per organizzare la controffensiva. In questo senso le milizie sciite – le Popular Mobilisation Forces – e la capacità iraniana di organizzarle fanno a pugni con la lentezza americana nel ricostruire l’esercito regolare iracheno. Le voci e i dispacci parlano di miliziani hezbollah, houti e altro ancora. Non è detto sia vero: la propaganda sunnita è al lavoro come quella sciita. È certo però che ci sono accordi tra Iran e Iraq per la fornitura di armi, addestratori e intelligence. Un modo come un altro per dire che le Guardie della rivoluzione islamica di Teheran sono attive sul terreno.
Qasim Suleimani sul fronte di Mosul nell’agosto 2015
In teoria curdi e milizie sciite (sulla cui guida c’è braccio di ferro tra Teheran e Baghdad), dovrebbero prendere i villaggi attorno alla città per lasciare all’esercito iracheno e agli aerei americani il ruolo di prendere il centro urbano. Un modo per evitare le rappresaglie dei miliziani sciiti. In teoria doveva essere così nel giugno 2016, quando Falluja venne ripresa per la terza volta. Non andò così.
Gli stessi curdi hanno i loro disegni: rafforzare e mantenere la propria autonomia in una fase in cui gli equilibri regionali saltati e il protagonismo dell’Ypg siriano spaventano la Turchia e indispettiscono diversi altri attori.
Il destino dei miliziani dell’Isis
Infine, c’è il solito problema del “che succede dopo”. Un tema che vale per tutto il territorio controllato dal Califfato. Da quando gli Stati Uniti hanno invaso l’Afghanistan i fallimenti non sono mai stati quelli militari: Kabul, Baghdad, Tripoli sono cadute in fretta. Ma la battaglia di Mosul, come il caos che regna in Libia sono conseguenze di quanto non pensato al momento dell’avvio dell’offensiva. Tenere sotto controllo le milizie sciite, ricostruire istituzioni, ricostruire città sono elementi cruciali. Poi ci sono i miliziani. Dall’Afghanistan partirono migliaia di combattenti stranieri, passati per l’Iraq e, infine per la Siria. Ogni guerra su quello scacchiere ha prodotto nuove organizzazioni, gruppi, militanti per gemmazione. La sconfitta dell’Isis potrebbe rafforzare le formazioni che si rifanno ad al Qaeda.
Che fine faranno gli iracheni, siriani, giordani, egiziani, palestinesi che fuggiranno da Mosul e, tra qualche mese, da Raqqa? C’è un’idea per il controllo delle vie di fuga, per la cattura, il tentativo di interlocuire, riguadagnare i foreign fighters alla vita civile? Anche in questo caso un ruolo cruciale spetterebbe a Stati Uniti ed Europa, che potrebbero anche loro subire le conseguenze di migliaia di combattenti alla macchia e al contempo non hanno parte diretta (non così diretta) nel complesso scacchiere sciita-sunnita-curdo. L’alternativa sono migliaia di potenziali terroristi in fuga per il mondo: come ha detto il capo dell’Fbi Comey: «Nei prossimi due-cinque anni assisteremo a una diaspora terrorista senza precedenti, specie in direzione Europa»· Altra possibilità è quella di una carneficina di miliziani destinata a dare argomenti alla propaganda jihadista come già successo a ogni passaggio cruciale di quella che Bush chiamava guerra al terrore.
epa05152383 A Tokyo Electric Power Co. (TEPCO) employee wearing a protective suit and a mask walks in front of the No. 1 reactor building at TEPCO's tsunami-crippled Fukushima Daiichi nuclear power plant in Okuma town, Fukushima prefecture, Japan, 10 February 2016. A group of foreign media visited to the plant, just a month before the fifth anniversary of the nuclear accident. The 9.0-magnitude earthquake that struck 11 March 2011 and triggered a tsunami claimed the lives of an estimated 15,000 people, and led to a nuclear accident on a level that had not been seen since Chernobyl in 1986. EPA/TORU HANAI / POOL
Vi ricordate Fukushima? Il più grave disastro nucleare dopo Chernobyl causato, nel 2011, dalla centrale giapponese della Tepco di cui ormai non si parla più, come se i suoi effetti fossero spariti assieme alla rilevanza mainstream della notizia?
Ebbene, i cittadini della prefettura di Niigata, nel cui territorio ha sede la più grande centrale nucleare del mondo, anch’essa proprietà della Tokyo Elettric Power Company, hanno appena eletto un governatore anti-nuclearista.
Un risultato che sarà un danno per i piani di politica energetica del governo del premier Shinzo Abe, che punta proprio sulla riattivazione del sito che prima soddisfaceva il 30 per cento del fabbisogno elettrico nazionale. L’impianto di Kashiwazaki-Kariwa è il più grande del mondo, con sette reattori e una capacità di 8 gigawatt. Attualmente, solo due su 48 dei reattori del Paese sono in funzione. La riattivazione sarebbe dunque, stando al governo, fondamentale per il rilancio dell’economia giapponese.
Ma il neo governatore ha osservato che la Tepco non ha i mezzi per impedire, dopo ciò che è successo a Fukushima, il diffondersi del cancro alla tiroide nei bambini, non avendo previsto, ai tempi, un solido piano di evacuazione (il primo giorno vennero evacuate solo 1000 persone nel raggio di 3 km). I vertici dell’azienda sono attualmente sotto processo per negligenza e concorso in disastro nucleare, con le accuse di non essere intervenuti in maniera adeguata, ed aver preso contromisure volte a evitare l’incidente, pur essendo al corrente dei rischi legati a un evento naturale di vasta portata.
Come scritto nel rapporto di Greenpeace Nuclear Scars del marzo di quest’anno: «I disastri di Chernobyl e Fukushima hanno distrutto il mito che questa fonte di energia sia sicura, economica e affidabile »
Protesta nucleare a Tokyo (EPA/KIYOSHI OTA)
Queste elezioni sono state banco di prova dell’opinione pubblica rispetto alla politica nucleare, e occasione di riaprire il dibattito sulle centrali, ponendo nuovamente la questione – assieme alla Tepco e al politica governativa di Abe – sotto i riflettori. La vittoria di Yoneyama è un nuovo duro colpo alla Tokyo Elettric Power Company. La principale compagnia elettrica del Giappone, nel frattempo passata sotto controllo statale, all’apertura stamattina dei mercati ha visto le sue azioni scendere dell’8 per cento.
La risposta dunque sembrerebbe essere chiara.
Siamo a Kimbulapitiya, a 38 chilometri da Colombo, la capitale dello Sri Lanka. Quello che si vede nelle foto è l’interno di una fabbrica di fuochi d’artificio e petardi che verranno usati per celebrare a metà aprile l’arrivo delle stagioni calde, un evento che nell’isoletta dell’Oceano Indiano e nella cultura popolare singalese e tamil ha lo stesso risalto e la stessa importanza del nostro Capodanno. In questo periodo dell’anno infatti i fuochi d’artificio vengono fatti scoppiare in segno di buon auspicio, in quanto rappresentano metaforicamente il passaggio astrale in cui si crede che il sole attraversi l’ultimo segno zodiacale, quello dei pesci, per entrare nella costellazione del primo, l’ariete.
Le fabbriche locali che producono petardi e di fuochi d’artificio stanno affrontando la dura concorrenza delle aziende che straniere, come quelle cinesi, che importano nel paese materiali pirotecnici prodotti all’estero a prezzi più competitivi, ma soprattutto che presentano maggiori varietà per giochi di luci ed effetti sonori.
I festeggiamenti per l’inizio di questo nuovo anno astrale, chiamati in singalese Sinhala Avurudu e in tamil Siththirai, riescono a unire le diverse etnie presenti in Sri Lanka e diventano un momento di celebrazione collettiva che letteralmente invade ogni aspetto delle normali attività quotidiane. Ma i fuochi d’artificio non vengono utilizzati solo per celebrare il capodanno cingalese, ma anche altre festività, dal Natale ai matrimoni, e addirittura per allontanare dai villaggi gli animali selvatici.
Che gli economisti internazionali siano particolarmente interessati all’Italia e alla sua relazione con la moneta unica è ormai un dato di fatto.
In un’intervista rilasciata al quotidiano Die Welt, Hans-Werner Sinn, uno dei più noti economisti tedeschi, nonché ex-direttore del prestigioso centro di ricerca, Institut für Wirtschaftsforschung (Ifo), ha parlato della crisi dell’Euro e dell’Italia. E non ha usato mezzi termini. Rispetto alla moneta unica, Sinn ha detto: «L’Euro ha fallito in maniera clamorosa. Doveva essere un progetto “di pace”, ma ha portato soltanto divisioni tra i Paesi dell’Ue [… ] Tra dieci anni, l’Eurozona non esisterà più come la conosciamo oggi: la moneta unica non tramonterà, ma singoli Paesi si sganceranno dal sistema». Se c’è un luogo che, secondo Sinn, rappresenta meglio degli altri i problemi che l’Euro ha portato con sé, questo è il Belpaese: «La probabilità che l’Italia rimanga parte dell’Eurozona diminuiscono di anno in anno. Il Paese non riesce a scendere a patti con la moneta unica. L’economia è poco competitiva e non sono state prese misure serie per porre rimedio al problema […]. Dal 1995 l’economia italiana, in quanto luogo di produzione, ha perso il 42 per cento in termini di competitività rispetto alla Germania». Secondo Sinn, le conseguenze dello scarso spirito di adattamento dell’Italia sono davanti agli occhi di tutti: «L’industria produce il 22 per cento meno rispetto ai livelli pre-crisi, il numero di imprese che falliscono aumenta costantemente, la disoccupazione giovanile è praticamente al 40 per cento». Poi conclude: «Mi chiedo veramente quanto l’Italia riesca ancora a sopportare l’Euro». La soluzione sarebbe sganciarsi dalla moneta unica? No. Sebbene l’economista tedesco tracci un panorama oscuro per l’Italia, non si augura un’uscita dall’Euro. Eppure Sinn rivela che, già nel 2011, Silvio Berlusconi avrebbe «iniziato negoziazioni segrete per un’uscita dalla moneta unica». Il motivo? «Berlusconi e altri rappresentanti dell’economia italiana non vedono alternative per il Paese».
Insomma, se qualcuno si lamenta per i toni negativi che si usano in Italia quando si parla di economia, non è che all’estero vada molto meglio. L’ex direttore dell’Ifo non è infatti il primo a vedere di cattivo occhio il nostro Paese nell’Euro.
Qualche settimana fa, sulla stessa Die Welt, si era pronunciato in termini simili il premio nobel, Joseph Stiglitz. I due economisti si trovano però agli antipodi per quanto riguarda la definizione di una cura per l’Eurozona: se Stiglitz è un convinto keynesiano, Sinn è noto per le sue posizioni neo-classiche e liberiste.
epa05588279 (FILE) A file picture dated 10 October 2016 shows Iraqi Kurdish Peshmerga fighters aiming their weapons near the town of Bashiqa, the frontline of fighting between Kurdish forces and militants from the so-called Islamic State group (IS or ISIS), 150 Km northeast of Erbil, Iraq. Iraqi Prime Minister Haider al-Abadi said on 17 October 2016, that Iraqi forces started their military offensive to recapture the city of Mosul from IS. The operation, led by Kurdish Peshmerga, Iraqi government forces and allies, is backed by the US-led coalition. Iraq's second largest city, Mosul, fell under the jihadist militant group's control in June 2014. EPA/AHMED JALIL
L’operazione per riconquistare Mosul è iniziata, la città nel nord dell’Iraq è l’ultima roccaforte del sedicente Stato Islamico. A difendere la città sono rimasti circa 8000 miliziani di Isis, l’artiglieria aveva già iniziato ad aprire il fuoco su Mosul lunedì. All’assalto stanno partecipando i peshmerga curdi, l’esercito nazionale iracheno e aerei americani. I peshmerga sono quelli che, secondo gli accordi con il governo di Baghdad, guidano l’avanzata nella regione con l’obiettivo di conquistare alcuni villaggi intorno alla città. Qui dovrebbero essere le forze dell’esercito nazionale a portare l’attacco finale. All’attacco partecipano anche truppe irachene addestrate dai turchi. In Siria, intanto, milizie curde hanno ripreso la città simbolo di Dabq.
Chi controlla cosa, in Iraq
(in giallo la regione autonoma curda, in nero le aree sotto il controllo del Daesh, in rosso la parte del Paese sotto il controllo del governo centrale)
La città è nelle mani dell’Isis fin dal 2014, si calcola che all’interno vi vivano ancora circa 1 milione e mezzo di persone che dopo la guerra saranno costrette a cercare rifugio altrove. Le Nazioni Unite hanno già espresso la loro preoccupazione per la crisi umanitariache si scatenerà con il cessate il fuoco. I miliziani dell’Isis hanno vietato ai civili di lasciare la città e si stanno asserragliando nelle aree più densamente abitate per utilizzare i civili come scudi umani contro i bombardamenti americani. Molti civili cercano comunque la fuga di notte, segnalano diversi media. Altri rimangono asserragliati nelle loro case. La prime linee starebbero già cedendo: ma attenzione, già in passato le milizie del Califfato hanno scelto di dissolversi piuttosto che non accettare il confronto con forze impari. Nei piani l’avanzata durerà per settimane.
(AP Photo/Bram Janssen)
La riconquista della città però segnerebbe, secondo gli esperti, uno scacco definitivo per le ambizioni territoriali del Califfato in Iraq. «L’ora della vittoria sta arrivando» ha dichiarato alla televisione il primo ministro iracheno Haider al-Abadi. E ha continuato: «Oggi annuncio l’inizio di un’eroica operazione per liberare la popolazione del nord iracheno da Daesh. Ci ritroveremo tutti a Mosul per celebrare la liberazione e la salvezza da Isis. Vivremo insieme di nuovo, uniti, senza distizioni di religioni, possiamo sconfiggere Isis e ricostruire la città di Mosul».
Ogni tanto ho bisogno di prendere fiato nella convulsione di questa campagna referendaria. Sono di parte, parteggio e mi spendo per raccontare i miei timori, per ragionare sui temi e per dire che no, che voterò no e che questo no è importante. Ho deciso di entrare nel gioco grande della discussione assumendone onere e onori: passo dalle piccole aule consiliari di comuni misconosciuti fino a province abbarbicate sui monti per scendere poi verso le coste ancora calde. Credo in questa campagna referendaria e nella politica.
Poi però succede, qualche volta tornato a casa, che ho bisogno di risalire in superficie e prendere aria. Ingoiare ossigeno non solo rispetto alle millanterie o alle iperboli intellettualmente disoneste (da entrambi i fronti) ma soprattutto dalla bile, dal veleno e dalla rabbia. Quella stessa rabbia che cova contro la politica tutta oggi è brace contro chi non è d’accordo. Sì o no non c’entrano e non vale nemmeno la pena di fare la conta da una o dall’altra parte: c’è un Paese crepato da chi ha impugnato il referendum come randello, da chi sfrutta la campagna referendaria per svitare l’olio di ricino.
Non è battaglia politica, no: è sputo. Questo che dice che voterà sì e l’altro che gli urla “tu non capisci un cazzo”, addebitamenti di fascismo o comunismo ogni mezza riga, relatori che sono stronzi servi o venduti e che devono morire, donne che al solito sono zoccole o puttane, i gufi che vogliono nuotare nella melma e dall’altra parte i criminali della Costituzione, Benigni che è un coglione e non fa ridere nessuno, Dario Fo che per fortuna è morto, la Boschi che si ciuccia Renzi, D’Alema che è un merdoso ferro vecchio, Ignazio Marino ladro e Ignazio Marino santo, le giovani donne del PD che per forza devono essere le bamboline di qualcuno, i giornalisti da prendere tutti a calci nel culo, i partigiani che sono bolliti, i costituzionalisti che sono per il sì che sono tutti imbecilli, chi si espone è un venduto e chi non si espone è un vigliacco, chi non capisce il quesito è un ignorante del cazzo e chi prova a spiegarlo un inutile professorino.
La Costituzione, quella carte che unisce un Paese abbracciandone tutte le sensibilità oggi è un ring. La politica aizza gli istinti animali per confondere e urlare.
Di questo, anche di questo, poi qualcuno dovrà rispondere. Prima o poi. Anche di questo.