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Mayki Gorosito: Non c’è futuro senza memoria dei desaparecidos

BUENOS AIRES – Non erano solo minacce elettorali per solleticare il ventre molle della società argentina. La volontà da parte del presidente Javier Milei e del suo governo insediato a gennaio di quest’anno, di interrompere il processo di ricostruzione della verità e di giustizia per le vittime della dittatura civico-militare degli anni Settanta, più volte manifestata a parole arrivando a negare addirittura i 30mila desaparecidos, si è materializzata a metà di agosto scorso quando un decreto presidenziale ha stabilito lo smantellamento della Commissione nazionale per il diritto all’identità (Conadi). Stiamo parlando di un ente pubblico che, attraverso la sua Unità investigativa speciale, indagava per restituire ai rispettivi familiari i corpi delle vittime non ancora ritrovati e i figli rubati a prigioniere incinte che dopo il parto furono fatte scomparire con i famigerati voli della morte.
Conadi dunque non ha solo contribuito in maniera determinante alle condanne dei repressori e alla ricerca che le Abuelas di Plaza de Mayo portano avanti da 47 anni in Sud America, in Europa e in Italia in particolare. È anche uno dei pilastri del Nunca más (Mai più, ndr), cioè della difesa della memoria di quanto accadde tra il 1976 e il 1983 in Argentina, insieme alle Abuelas, alle Madri di Plaza de Mayo e ad altre associazioni ed enti per i diritti umani. Tra questi spicca il Museo sitio de la memoria Esma (MsmE) che si trova a Buenos Aires all’interno della ex Scuola per ufficiali di marina dell’esercito (Esma), tristemente nota per essere stata diretta dall’ammiraglio Massera, numero due della giunta di Videla e iscritto alla loggia P2 di Licio Gelli, e il luogo da cui tra il 1976 e il 1978 scomparvero almeno 5mila persone. Per cercare di raccontare nel modo migliore cosa sta accadendo in Argentina abbiamo incontrato la direttrice del Museo, Mayki Gorosito e le abbiamo rivolto alcune domande.

Mayki Gorosito

Dottoressa Gorosito, sappiamo che i prigionieri del regime di Videla erano detenuti illegalmente e clandestinamente proprio nell’angusto sottotetto della palazzina in cui è stato realizzato il Museo, il cui contenuto si basa principalmente sulle testimonianze rese dai sopravvissuti durante i processi ai militari della giunta del 1985 e a quelli sulle violazioni dei diritti umani dal 2004 in poi. Motivo per cui è un punto di riferimento storico ma da un anno esatto è anche Patrimonio Unesco. Cosa rappresenta quindi non solo per gli argentini ma per l’intera umanità il Museo sitio de la memoria?
Queste mura sono state un centro di detenzione clandestina, tortura e sterminio. Il riconoscimento da parte dei Paesi membri dell’Unesco implica una maggiore visibilità a livello nazionale e internazionale di ciò che il sito museale simboleggia e testimonia. Vale a dire da un lato la denuncia del terrorismo di Stato basato sulla sparizione forzata di persone e dall’altro il valore del consenso sociale come mezzo per raggiungere la giustizia e perseguire il Nunca más. Ma essere Patrimonio Unesco implica anche una maggiore protezione di tutto questo, oltre quella già garantita dal fatto di godere dello status di prova giudiziaria, di monumento storico nazionale e di bene culturale del Mercosur (il mercato comune dell’America meridionale, ndr). Difatti lo Stato argentino è obbligato a preservare e conservare non solo l’edificio e le sue istituzioni e professionalità, ma anche a fornire le risorse necessarie per la gestione e l’adempimento delle funzioni in conformità con il decreto di realizzazione del Museo.

Le idee di Lombardi, così vitali per la sinistra

Sono passati quarant’anni dalla scomparsa di Riccardo Lombardi avvenuta a Roma il 18 settembre 1984; era nato a Regalbuto, in provincia di Enna, il 16 agosto 1901. Lombardi è stato una figura di primo piano della politica italiana, dall’impegno nella lotta al fascismo, alla vicenda del socialismo italiano – passando per il Partito d’Azione di cui fu uno dei leader di maggior livello – e la sua figura, il suo pensiero, ci consegnano una riflessione ampia su una questione centrale dei nostri tempi: sul socialismo e sul fatto che la crisi mondiale ne rilanci la necessità senza, peraltro, che se ne prenda atto così come la realtà ci dice si dovrebbe.
Nel nostro Paese, poi, la questione dovrebbe essere più che altrove all’ordine del giorno vista la svolta a destra del quadro politico; di una destra che “discende per li rami” direttamente dal fascismo repubblichino di Salò.
Riflettere su Lombardi significa farlo avendo presente l’assenza di una sinistra organizzata. Chi sostiene non esservi oggi lo spazio per un soggetto simile mentisce sapendo di mentire, poiché in politica lo spazio si conquista non regalandolo nessuno. Lo si conquista mettendosi seriamente in gioco come movimento di popolo portando una visione precisa del mondo e di cosa si vuole cambiare, di chi si vuole rappresentare; in nome di quali idee, del futuro concreto che si propone; insomma, di un “pensiero compiuto”.
In un’epoca in cui lo stesso “pensiero” è anch’esso in crisi, non è facile, ma non esiste un’altra strada. Alla metà degli anni Trenta il liberalismo entrò in crisi; oggi registriamo la crisi della democrazia le cui ragioni risiedono in quelle stesse della politica tout court poiché, quando essa cessa di essere la regola dei sistemi liberi, essi divengono subalterni al mercato senza regole e al capitalismo finanziario con la conseguenza che il meccanismo di relazione si rompe e le quotazioni borsistiche prevalgono sulle scelte politiche condizionandole pesantemente. La progressiva frammentazione sociale riaccende i nazionalismi, si smarrisce il senso stesso della convivenza tra i popoli e si riaffacciano prepotenti i nazionalismi e le ambizioni imperialistiche.

I neofascisti spagnoli ora si accaparrano El Cid

II Parlamento regionale di Castiglia-Leon, l’alleanza di Vox con i Popolari ha promulgato una legge per mettere da parte le direttive nazionali sulla memoria storica (2007 e 2022) che marcavano la condanna del regime fascista di Francisco Franco. Ora l’estrema destra iberica vuole cambiare la narrazione del Paese (si noti l’affinità con la retorica della destra italiana), perché non venga più infangata la nazione: secondo loro si deve allora riabilitare il franchismo, con un atteggiamento non così lontano da quello nostrano, che evita programmaticamente la condanna piena di tutto il ventennio e rivendica il legame con il Msi, come presunto dato nobilitante.
Dopo le elezioni europee il partito di Abascal è entrato nel gruppo orbaniano dei Patriots for Europe, cui Giorgia Meloni per ora non ha aderito, ma con cui ci sono diversi punti di contatto, come ha mostrato l’esibita ambiguità delle scelte fatte a Bruxelles fra giugno e luglio. Il patriottismo a cui si richiama il gruppo è quello del primato nazionale e della chiusura, che ha segnato gli orrori del ’900 nel mito assurdo della purezza e del rifiuto dell’alterità.
Così, le politiche di cultura identitaria di questi partiti diventano cartine di tornasole interessanti. Abascal non ha mai fatto mistero dell’ascendente franchista come mito fondatore che – come in Italia per gli eredi di Almirante e della sua storia – esercita la sua azione anche attraverso il recupero odierno di riferimenti culturali che già il Caudillo aveva fatto suoi. Si tratta in molti casi di figure storiche in sé problematiche oggi, come i conquistadores che sterminarono i popoli amerindi, i crociati e i reali spagnoli del XV sec. che propugnarono la limpieza de sangre. In occasione del primo risultato elettorale rilevante (l’ingresso nel Parlamento andaluso) Abascal descrisse il cammino intrapreso come una Reconquista contro ogni invasore della “pura” Spagna, nello spirito del Campeador già elogiato da Franco. E proprio su Rodrigo Díaz de Vivar, noto come El Cid Campeador, vorrei spendere qualche riflessione. Eroe guerriero nella Spagna medievale, certo, ma non in linea con l’ideologia di Vox e dei Patriots se osservato con attenzione.
In Italia abbiamo avuto il Dante di destra proclamato da Sangiuliano. Questa proposta non era una novità, non possiamo attribuire alla sola creatività dell’ex ministro il parto di una tale assurdità: si poneva in continuità con l’operazione tentata nel ventennio – senza alcun rispetto per il testo e i suoi valori storici – di un Dante “fascista” (ricordiamo ad esempio il volume di Domenico Venturini Dante Alighieri e Benito Mussolini, del 1927). Anche Abascal si rifà alla politica culturale franchista: il generalissimo, in piena guerra civile, insediò a Burgos, città dell’epopea cidiana, la giunta militare di difesa nazionale, e fece di quella città la capitale del “nuovo regno”; a dittatura in corso, organizzò sempre lì una grande cerimonia per l’erezione di un monumento equestre dedicato all’eroe che aveva assunto come simbolo (improprio e deformato) della lotta fascista spagnola. Ma il dittatore del secolo scorso e il suo attuale erede hanno manipolato questo personaggio, senza tener conto della realtà storica in cui visse.

Benedetta Tobagi: Le stragi nere non sono un mistero

Misteri d’Italia. Quante volte abbiamo letto questa espressione sui giornali. Quante volte l’abbiamo sentita ripetuta in tv. Le stragi avvenute tra il 1969 e il 1980 lo sono per eccellenza, secondo una certa pubblicistica che finisce per essere complice di chi ancora vuole confondere le menti riguardo alle responsabilità del terrorismo neofascista in alleanza con servizi segreti, P2 e mandanti politici. La storica e scrittrice Benedetta Tobagi non ci sta. E smaschera questo “brand” con un libro efficace e indispensabile per chiunque voglia vederci chiaro. S’intitola Le stragi sono tutte un mistero ed è uscito nella collana Fact Checking di Laterza a poca distanza dal suo Segreti e lacune, le stragi tra servizi segreti, magistratura e governo (Einaudi). Doppietta ineludibile. L’assunto metodologico di fondo di entrambi i lavori è, per dirla con le parole del portavoce dell’associazione dei familiari delle vittime di Bologna Paolo Bolognesi: «I misteri sono quelli della fede, questi sono fatti concreti, azioni umane. Sono più laicamente e concretamente segreti». In attesa di incontrarla il 12 settembre a Roma all’Archivio Flamigni (vedi box) ci ha concesso questa generosa intervista.
Tobagi, perché dopo diversi ergastoli e condanne definitive su chi ha commesso, finanziato e organizzato la strage di Bologna del 2 agosto 1980 c’è chi ne nega ancora la matrice neofascista ed eversiva?
C’è un discorso da fare, articolato e complesso, che riguarda tutte le stragi. E ce n’è uno specifico che riguarda Bologna. Ma il mancato riconoscimento della matrice nera delle stragi da parte dalla subcultura di destra tocca tutti gli eventi stragisti e si lega a una mancata elaborazione del passato da parte della destra. Prevale la prassi di rimuovere tutte le pagine scomode dall’album di famiglia. Storicamente il Msi e An, e poi FdI, non hanno mai riconosciuto la responsabilità del terrorismo nero nello stragismo. Alcuni gruppi parlamentari ed esponenti di governo non lo riconoscono perché fra le sue caratteristiche c’è stata la porosità fra ambienti extra parlamentari ed eversivi e ambienti della destra legale. Si registrano molti casi di doppia militanza fra Msi e organizzazioni della destra extraparlamentare con sconfinamenti in gruppi responsabili di attentati.
Da qui il tentativo di cancellazione di tutte le evidenze emerse nei decenni?
I depistaggi sistematici hanno giocato un ruolo chiave. Nella confusione le destre hanno potuto negare l’evidenza che emerge nei processi, e al tempo stesso assumere un atteggiamento vittimistico.
Esponenti della destra parlamentare, extraparlamentare, e perfino terroristi hanno detto che le stragi furono di Stato. Come leggere questa affermazione?
Hanno copiato uno slogan della sinistra extraparlamentare, nato a difesa degli anarchici in occasione di piazza Fontana. Lo usano per dire che i terroristi neri sarebbero stati i capri espiatori delle stragi di Stato. È un meccanismo importante da capire e da segnalare perché decenni di indagini e di processi affermano, invece, che i depistaggi sono stati tutti e sempre a difesa dei responsabili di estrema destra delle stragi.

La doppia sfida dei figli d’Africa

JARRA SOMA – Il sole picchia ostinato sulla terra della costa sorridente del West Africa, così come la chiamano i giovani del luogo: “The smiling coast of Africa”.
Arriviamo al tramonto e subito iniziamo a parlare con la gente nella città di Banjul, la capitale. In tanti ci raccontano del piccolo paese: parlano di accoglienza, di un buon Domodà da dover assaggiare e, come minimo comune denominatore tra i suggerimenti, visitare le spiagge del Senegambia. L’atmosfera è frizzante, il calore umano si sente nei sorrisi dei giovani e nelle melodie vivaci delle strade. Emozioni che arrivano addosso e ci travolgono, così velocemente come il tempo passato i primi giorni tra Banjul e Serrekunda.
Un doppio ritratto vibrante della vita urbana gambiana emerge tra le strade trafficate, mercati pieni di gente e tantissimi turisti anglofoni in direzione della spiaggia. Ma il nostro viaggio ci porta oltre il litorale, verso l’entroterra, al villaggio di Jarra Soma, a più di 300 km dalla capitale.
Lungo il percorso, il paesaggio cambia gradualmente riempiendosi di verde. Qui, la vita scorre più lentamente e il senso di comunità è palpabile. I bambini ci accolgono con curiosità e calore, ricordiamo gli odori di un pasto quasi pronto e le strade polverose animate da risate e giochi. La sera, subito dopo la cena, camminando lungo la strada sabbiosa verso un parco vicino, le stelle rendono la via più luminosa e le voci dalle case ci fanno compagnia. Il nostro viaggio in Gambia ha un obiettivo chiaro: raccogliere storie di rimesse dall’Italia e valutarne l’impatto con più consapevolezza. Così, già il giorno dopo il nostro arrivo, ci svegliamo, facciamo colazione con tè caldo e baguette, e ci dirigiamo verso il mercato di Soma. Questo è il cuore pulsante di scambi economici e sociali. Ogni volta che arriva denaro dall’Europa, il mercato si anima ancora di più: le persone comprano più riso e più carne per il tradizionale Domodà, e altre discutono di progetti e spese future. Le rimesse non sono semplicemente un flusso di denaro, ma un collegamento interessante tra due mondi, un filo che mantiene unite le famiglie divise dal Mediterraneo.

Fabio Ciconte: Non siamo consumatori ma cittadini

L’esigenza più pratica di ogni consumatore passa dal desiderio di riempire frigoriferi e dispense, di portare in tavola sempre più cibo, frutta, verdura e prodotti alimentari, possibilmente a basso costo. Un’esigenza acuita dalla povertà in aumento e da un potere di acquisto in calo, bruciato dall’inflazione. Ma tutto ciò rischia in qualche modo di diventare un (involontario) alleato del caporalato, di foraggiare lo sfruttamento del lavoro? E avremmo gli strumenti per disinnescare questo rischio, evitando i prodotti di aziende poco trasparenti, boicottando beni che arrivino sugli scaffali dopo un percorso lavorativo opaco? Affinché la nostra illusoria “opulenza” non diventi un meccanismo perverso, che si ripercuote sulle condizioni di lavoro e di vita di altre persone, spesso l’anello debole del ciclo produttivo, è arrivato il momento di prendere coscienza di un fenomeno.
L’ipocrisia dell’abbondanza. Perché non compreremo più cibo a basso costo è l’ultimo saggio di Fabio Ciconte (Laterza), scrittore ed esperto di agricoltura, nonché direttore dell’associazione ambientalista Terra!
Un libro come quello di Ciconte permette riflessioni di ampio respiro, perché occuparsi di cibo è una delle questioni centrali del nostro tempo, vuol dire avere a cuore l’ambiente, i diritti sociali, i temi della povertà e dello sfruttamento.

Fabio Ciconte

Con Ciconte siamo partiti da un assunto: per il mondo occidentale è davvero finita l’era dell’abbondanza, come sostenne due anni fa il presidente francese Emmanuel Macron, nel discorso alla nazione che lo stesso Ciconte ricorda nel suo libro? E soprattutto: perché c’è ipocrisia dietro la ricerca dell’abbondanza?
«Il titolo del libro nasce anche dalla rabbia che provai ascoltando le parole di Macron, che rientrato dalla vacanza estiva, nei primi mesi dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, diceva al popolo francese che bisognava abituarsi all’idea che era finita l’età dell’abbondanza. Macron non si è neppure accorto che in molti, quell’età, non l’hanno vista neppure da lontano. Oggi tantissimi vivono in una condizione di povertà e ciò aggrava tutto quello che stiamo raccontando. Parliamo di milioni di persone, a cui nel frattempo è stato tolto il reddito di cittadinanza. Così la povertà è stata stigmatizzata sempre di più», sottolinea Ciconte.

Jean-René Bilongo: Illegalità nei campi e governo latitante

Jean-René Bilongo è ormai uno dei volti più noti e delle voci più ascoltate nel mondo dell’immigrazione. Attualmente è responsabile del Dipartimento politiche migratorie, della Flai Cgil nazionale ed è coordinatore dell’Osservatorio Placido Rizzotto. Quella che segue è la sintesi di una lunga conversazione avuta con lui che parte e termina nelle campagne di Latina, dove a giugno è stato ucciso il lavoratore agricolo Satman Singh. Ma sempre nelle stesse campagne, il 16 agosto un’altra persona è morta sul lavoro, che non ha fatto notizia. Dalvir Singh aveva 54 anni, era un bracciante agricolo con regolare contratto, è morto mentre lavorava, forse a causa di un malore determinato da caldo e fatica, si è accasciato e non è stato possibile rianimarlo. Anche se c’è il contratto, se non si rispettano ritmi e condizioni di lavoro, la vita può essere a rischio. E prima ancora, un altro presunto omicidio, in Puglia. Rajwinder Sidhu Singh aveva 38 anni, il 26 maggio scorso fu portato all’ospedale San Pio di Castellaneta dopo aver accusato un malore mentre lavorava nelle campagne di Laterza, nel tarantino. Quando è giunto al pronto soccorso, per lui non c’era più nulla da fare. L’azienda per cui lavorava è sotto inchiesta per caporalato e perché ci sono discordanze rispetto al ritrovamento del corpo (potrebbe non aver ricevuto soccorsi) e in merito agli orari di lavoro. Questi sono i nomi su cui si è aperto uno squarcio ma non è detto che siano i soli. A proposito di quanto avviene nell’Agro Pontino, il sociologo Marco Omizzolo, parla da anni di “quinta mafia”, un approccio che Bilongo condivide: «È evidente a tutti – dice – che molti imprenditori della zona hanno trascorsi in ambienti mafiosi. Nessuno giustificherebbe le condizioni di vita in cui si fanno lavorare le persone, sottoposte ad una prepotenza e ad una arroganza tipica della criminalità organizzata. Poi questa è terra di riciclaggio».

Jean-René Bilongo

Bilongo approfondisce: «C’è un luogo chiave che è il Mof (Mercato ortofrutticolo di Fondi) in cui questo è evidente a tutti. Un ruolo chiave lo gioca la camorra che trova varchi dalla legislazione vigente. L’esperienza mi fa partire dal fatto che ci sono territori off limits, anche rispetto alle leggi. Anche dove l’agricoltura è ricca, impera un modello che schiaccia le persone. Erroneamente si pensa che il problema sia nei decreti flussi». L’analisi che fa Jean-Renè Bilongo parte dal presupposto che i flussi sono meccanismi di migrazione circolare ormai adottati in tutta Europa e in molti altri Stati ad economia avanzata. «Ma il meccanismo in Italia non funziona. Su 10 istanze per lavoro stagionale solo 2 si traducono in contratti effettivi. Gli altri si ritrovano immediatamente immessi nel circuito del caporalato. I flussi, se non rispettati, non determinano sanzioni per il datore di lavoro. Il governo nella fattispecie, per agevolare urbi et orbi, non seleziona come interlocutori le organizzazioni datoriali più rappresentative. Le richieste di assunzione per flussi sono aumentate, ma chi mi assicura che l’impresa tal dei tali, non faccia 10mila richieste per ottenerne in realtà solo pochi? Non c’è nessun rigore nel vagliare le proposte di lavoro e le condizioni offerte».

Il caporalato si sconfigge all’alba

Ore tre del mattino. Suona la sveglia. Ci si prepara in fretta, qualche minuto per la colazione e poi tutti fuori. Ci si divide in gruppi da cinque o sei persone. E si sale nei diversi furgoni. Destinazione: i luoghi dove i braccianti dell’Agro Pontino partono per raggiungere le campagne. Cominciano così le giornate per le “Brigate del lavoro” della Flai, la categoria della Cgil che tutela i lavoratori agricoli e quelli dell’industria alimentare. Il progetto si chiama “Diritti in campo” e dura cinque settimane. Due hanno previsto attività nella provincia di Latina e due nel foggiano, tra giugno e luglio. Ultima settimana nel veronese, a settembre. Per l’organizzazione che le ha curate si tratta di un ritorno alle origini. Fare sindacato di strada, intercettare lavoratrici e lavoratori nei territori dove sono impegnati, senza attendere che siano loro a farsi avanti, è una pratica antica. Per Federterra e Federbraccianti, gli “antenati” della Flai, era una abitudine. Da una ventina d’anni, l’esplosione del fenomeno del caporalato ha portato Flai a rispolverarla e affinarla.
La prima tappa è una pompa di benzina. Siamo a Terracina, in provincia di Latina, un centinaio di chilometri a sudest della Capitale. Il sole sta sorgendo e illumina i volti dei lavoratori che man mano si avvicinano e si riuniscono in piccoli gruppi, nei pressi del distributore. Prima che arrivino i furgoni che li prelevano per condurli nelle aziende agricole, i sindacalisti si avvicinano e porgono alcuni oggetti. Un cappello di paglia che protegge dal sole. Un gilet catarifrangente per essere visti a distanza quando ci si sposta in bicicletta. Una bottiglietta d’acqua con un’etichetta staccabile che riporta i contatti del sindacato sul territorio. Dei volantini, scritti in varie lingue, che illustrano i diritti dei lavoratori agricoli e il modo in cui la Flai può aiutare a farli valere. Si tratta di cose particolarmente utili. Molti dei braccianti di questo territorio sono di origine indiana.
Per l’Istat, nella sola provincia di Latina risiedono oltre 13mila indiani. Ma, secondo alcune stime, gli irregolari sarebbero circa il triplo. La parte più consistente proviene dalla zona del Punjab. Molti di loro sono impiegati nelle aziende agricole del territorio. Spesso si spostano in bici e purtroppo non è raro che vengano investiti, in particolare nelle strade poco illuminate o in quelle dove la velocità delle auto è più elevata. Essere visibili, dunque, può voler dire salvarsi la vita.
La consegna di questi strumenti basilari però, è solo una parte del lavoro delle Brigate. Che prosegue quando i sindacalisti riescono a stringere un rapporto col lavoratore. «Vivi da tanto in zona?». «Dove lavori?». «Hai un contratto in regola?». «Quanto prendi all’ora?». «Ti vengono segnate tutte le ore?». Molti braccianti indiani sono impiegati attraverso lavoro nero, per molti altri si tratta di lavoro grigio: hai un contratto, da esibire durante un eventuale controllo, per cui dovresti lavorare un certo numero di ore, ma poi in realtà ne lavori di più.

Superare la Bossi Fini, una questione di civiltà

Sull’immigrazione in Italia e in Europa bisogna cambiare tutto. È infatti inutile girarci attorno. Sia sul piano delle scelte politiche di fondo che su quello della narrazione, della percezione, della qualità del dibattito e del “sentito dire” si è di fronte ad un bisogno evidente, ineluttabile, di trasformazione radicale. Questo, dicevo, è un tema innanzitutto europeo. Perché è evidente a chiunque voglia ragionare nel merito che si è di fronte ad un gigantesco fallimento delle politiche dell’Unione. Le regole derivanti dai cosiddetti “accordi di Dublino” rappresentano la formalizzazione di quel che sto affermando. Del resto negli anni si è imposta una logica secondo la quale chi arriva nel Paese di primo ingresso deve fare richiesta d’asilo su quel territorio senza che ciò valga anche “in” e “per” altre nazioni e a ciò si è accompagnata la gestione della “redistribuzione” della responsabilità dell’accoglienza su scala episodica e volontaria. E, ancora più gravemente, non esistendo vie d’ingresso legali e sicure per chi arriva in Europa i flussi si sono orientati, in modo del tutto “irregolare” lungo rotte di mare e di terra cresciute nella totale illegalità. Ecco perché da mesi, anche a fronte delle scelte ostinatamente sbagliate realizzate sempre in sede europea (come quelle riguardanti il Patto immigrazione e asilo di recente approvazione), diciamo che ci vorrebbero ben altre strade: quelle, per l’appunto, costituite da canali d’ingresso legali e sicuri che alla radice si ponessero come un’alternativa istituzionalizzata (e perfino più controllabile!) rispetto alla logica perversa dei “barconi”. Non solo. Con la stessa filosofia affermiamo che è indispensabile arrivare all’istituzione di una “Mare nostrum europea” per salvare le vite. Tutto qui?
Assolutamente no. Esiste infatti un’altra faccia della medaglia, quella connessa alle scelte italiane riguardanti la legislazione italiana. E il primo passo da compiere è costituito esattamente dal superamento della “Bossi Fini” ovvero dal superamento del complesso di regole che (nella cornice di ipocrisie europee a cui facevo riferimento) ha visto il consolidarsi di una gestione emergenziale della vicenda migratoria.

Lo ius scholae è solo l’inizio, aboliamo la Bossi Fini

Finalmente si torna a parlare concretamente della necessità di riformare la legge sulla cittadinanza, varata nel lontano 1992 quando la realtà italiana era ben diversa da oggi. Ci battiamo per questo da moltissimi anni come racconta tutta la storia di Left. Che (dopo le polemiche legate alle Olimpiadi) di questo tema si sia discusso per tutto agosto è un fatto inusuale, speriamo non sia il segnale di un interesse transitorio (troppe volte negli anni l’abbiamo registrato). Sul piatto c’è una proposta di mediazione: lo ius scholae che permetterebbe agli studenti stranieri di acquisire la cittadinanza dopo un ciclo di studi. Il Pd di Schlein avrebbe preferito lo ius soli (cioè: è italiano chi nasce in Italia) ma è aperto alle proposte potenzialmente trasversali di Forza Italia e M5s. È un primo passo. Ora se ne discuta in Parlamento. I diritti fondamentali di un milione circa di giovani italiani senza cittadinanza non possono più aspettare. Troppe volte sono stati feriti dalle politiche discriminatorie delle destre e sono stati delusi dai partiti di centrosinistra. («Potevamo approvare la legge sullo ius soli nel 2015», ammette il sindaco Pd di Roma Gualtieri ed ex ministro dell’economia Pd). Ma tant’è. Adesso anche un partito di centro-destra come Forza Italia sembrerebbe aver maturato la consapevolezza che lo ius sanguinis, la cittadinanza per diritto di sangue, per stirpe (in virtù di antenati che magari nemmeno parlano italiano) è discriminatorio e fuori dal tempo. Gli alti lai di Lega e Fratelli d’Italia che si trincerano dietro la frase «Non è nel programma», evidenziano una falla nella maggioranza. L’opposizione ha l’occasione per renderla una voragine, riprendendo contatto vero con la realtà dell’Italia, un Paese che sta invecchiando, senza prospettive, che ha bisogno della linfa vitale, delle idee e non solo della forza lavoro degli immigrati. (Lo ha detto perfino il capo di Bankitalia Panetta).

Allora guardiamoci in faccia: bene la proposta dello ius scholae che è il necessarissimo minimo sindacale, ma se gli studenti immigrati di seconda generazione vivono in famiglie in cui i genitori sono spinti verso la marginalità dalla legge Bossi-Fini siamo punto e accapo. «Non basta infatti che si consenta al minore “irregolare” di essere iscritto alla scuola italiana o proseguire gli studi con riserva, perché di fatto, l’irregolarità della permanenza in Italia dei genitori incide sulla possibilità di avere una casa, mezzi di sostentamento, un lavoro e uno stipendio regolari. Cioè tutti quegli elementi essenziali alla frequentazione scolastica», si legge nell’appello dell’associazione Migrare, che ha lanciato una petizione e una raccolta di firme su Change.org.

La battaglia da fare ora, a sinistra, è per l’abolizione della legge 189 del 2002 che istituì il reato di clandestinità, che è il maggior ostacolo all’immigrazione regolare in Italia perché prevede l’ingresso solo a chi ha già un posto di lavoro. In questo modo gli immigrati che vengono in Italia per lavorare – intrappolati nel combinato disposto fra legge Bossi-Fini e decreto flussi – finiscono nelle mani di “datori di lavoro” che li sfruttano, li ricattano, li riducono in condizioni di schiavitù lasciandoli alla mercé del caporalato e della criminalità organizzata. Proprio grazie alla Bossi-Fini e a imprenditori senza scrupoli i lavoratori immigrati vanno ad alimentare il vasto mondo del lavoro “nero” senza tutele, senza sicurezza, senza diritti.

L’uccisione di Satnam Singh, lasciato morire dopo un incidente sul lavoro nell’Agro pontino, al quale dedichiamo idealmente anche questa storia di copertina, continua a interrogare le nostre coscienze. Lo scorso giugno la sua inaccettabile fine aveva potentemente scosso l’opinione pubblica. Così come per il femminicidio di Giulia Cecchettin, grandi manifestazioni in piazza per dire no alla violenza, no alla riduzione di esseri umani a oggetti da possedere, da sfruttare, da gettare via. Poi però nulla è cambiato. E in questa estate torrida ci sono stati altri femminicidi e altre morti di lavoratori, nei campi e non solo, che purtroppo non hanno avuto la stessa eco. Ce ne parla Jean-René Bilongo della Flai Cgil, coordinatore dell’Osservatorio Placido Rizzotto, riportando della morte di Dalvir Singh morto il 16 agosto nelle campagne di Latina e un altro presunto omicidio, quello di Rajwinder Sodhu Singh accaduto a maggio. Sono vittime di un sistema di produzione e di massimizzazione del profitto che non tiene in nessuna considerazione la vita umana. Accade anche nelle fabbriche, accade in agricoltura, non solo al centro sud. Le cronache ci dicono della presenza di lavoro nero, di caporalato, di subappalti che non rispettano i diritti dei lavoratori anche nel produttivo nord. E anche in filiere di grandi marchi di moda che pagano borse ai produttori poco più di 50 euro e le rivendono a oltre duemila.
Per sconfiggere il caporalato abbiamo a disposizione anche buone leggi, come la 199 (conquistata con aspre lotte sindacali) ma è largamente disapplicata, specie nella parte della prevenzione. Mancano i controlli, come torna a denunciare il segretario generale della Flai Cgil Mininni che già mesi fa su Left paventava il rischio che i 200 milioni di euro del Pnrr destinati alla costruzione per alloggi dignitosi per lavoratori immigrati potessero essere stornati e destinati ad altro. Che fine hanno fatto quei soldi che dovevano servire al superamento di ghetti e baraccopoli? Oggi, mentre si torna a parlare di costruzione di nuove carceri e di disumani, costosi e molto probabilmente incostituzionali Cpr in Albania, la domanda è più attuale che mai.

Nella foto: Immagine dalla pagina facebook di Italiani senza cittadinanza