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Stanno facendo la storia. Sì, come no

«Stiamo facendo la storia», dice ai suoi la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e per questo «non si possono fare errori». Le parole pronunciate ieri durante il vertice di partito sono state pronunciate poche ore prima che il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano divorasse un bel pezzo del principale telegiornale della televisione pubblica italiana per raccontare dei suoi folli ardori estivi sventolando pezze d’appoggio come un commesso viaggiatore preso in castagna. 

Alle famiglie tradizionali dell’epoca Meloni si aggiunge quindi un ministro che ha lasciato gironzolare negli uffici del ministero, nel Parlamento e perfino al Quirinale un’amica che ha video registrato le sue passeggiate, ha registrato le telefonate e ha avuto accesso alle riunioni operative facendo indispettire i servizi di sicurezza di un paio di nazioni preoccupati dalla nostra classe dirigente pecoreccia.

Stanno facendo la storia anche con la ministra al Turismo che porta il cognome del marito con cui si è lasciata 35 anni fa e ora è invischiata in una brutta storia di soldi pubblici usati come non dovevano essere usati. Hanno fatto la storia anche con Pozzolo e il sottosegretario Delmastro che a Capodanno hanno festeggiato a suon di pistolettate raccontando una versione dei fatti che fa acqua da tutte le parti. 

Stanno facendo la storia con il non marito della premier infilzato da fuori onda in cui si vanta d’esser stallone, prima di essere scaricato quanto basta. Stanno facendo la storia con un cognato (mai sposato) ministro all’Agricoltura che non sapeva quanto facesse schifo parlare di sostituzione etnica. 

Stanno facendo la storia. Sì, come no. 

Buon giovedì. 

Carceri in Albania: la xenofobia costa un miliardo agli italiani

A proposito del pecoreccio caso in cui è rimasto invischiato il suo ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha dichiarato che l’unica cosa che veramente la preoccupa è che non siano stati spesi «soldi pubblici, dei cittadini».

Sullo sperpero di soldi pubblici la premier però non risponde quando si parla di Albania, là dove il suo governo ha deciso di impiantare come cattedrali nel deserto due carceri illegali per migranti che servono per sfamare la xenofobia di una parte del suo elettorato. Per quello di Gjader serviranno, solo per il personale, 30 mila euro al giorno, 900 mila in un mese. I posti disponibili per gli agenti sono 45 e sono già arrivate 3 mila domande. Anche perché le regole d’ingaggio sono vantaggiose: 130 euro lordi in più al giorno per 4-6 mesi di servizio. Con la possibilità di rientrare in Italia a spese dell’amministrazione.

Il sindacato di polizia fa notare come «una volta si tendeva a chiudere le carceri sotto i cento posti perché antieconomiche. Ora se ne costruisce una molto piccola, con un rapporto agenti – detenuti decisamente sproporzionato. Se in Italia c’è un poliziotto ogni tre reclusi, circa 25mila per oltre 61mila persone, lì ce ne saranno tre per ogni detenuto». 

Si parla di un miliardo di euro – ma i costi potrebbero lievitare ancora – per una campagna pubblicitaria senza nessuna reale ricaduta sul flusso di sbarchi e di accoglienza per l’Italia. Un miliardo di euro per un progetto al sapore di porti chiusi da offrire ai propri elettori. Altro che caso Sangiuliano. 

Buon mercoledì. 

Nella foto: La presidente del Consiglio Meloni e il presidente albanese Edi Rama in visita alle strutture del porto di Shengjin, 5 giugno 2024

Quello sguardo di Enrico Berlinguer ancorato al futuro

In occasione dell’uscita di Prima della fine, il nuovo film di Samuele Bersani su Sky Documentaries il 5 settembre, il regista racconta in esclusiva su Left la sua ricerca e il making del film   

Il nome di Enrico Berlinguer evoca immediatamente una storia precisa, che ancora emoziona una comunità che andava oltre il perimetro di una fede politica, il simbolo di una stagione irripetibile, il ritratto di un politico onesto, integro, al quale riconoscere se non il proprio voto sicuramente il proprio rispetto. Per me che sono nato nel 1984, lo stesso anno quindi in cui se ne andava, Berlinguer è stato argomento di studio universitario, ma soprattutto protagonista di racconti appassionati dei miei nonni, grazie ai quali ho vissuto l’impegno gratuito e sincero dei militanti al Circolo, le storie che sentivo quando da bambino correvo tra i tavoli della Festa dell’Unità di Pisa, gli occhi lucidi di mio nonno, ancora lui, quando parlava di Enrico. Perché così lo chiamavano i militanti, semplicemente per nome – Enrico – come una persona cara, di famiglia, vicina. Il leader, sicuramente, una guida salda e solida, ma anche un compagno che si percepiva alla pari, non distante, al quale affidare le proprie insicurezze, difficoltà, dubbi e dal quale aspettarsi, anche nei momenti più difficili, una risposta, facile o scomoda che fosse. Una presenza non irraggiungibile, al contrario da sentire al fianco, accanto al quale camminare anche sui sentieri più faticosi. Così, quel sorriso pacato e delicato, quegli occhi sinceramente mossi dalla volontà di cambiare in meglio la società, quel piglio sincero ed autorevole, mai arrendevole, se pur garbato e rispettoso, hanno rappresentato per milioni di italiani un modo di fare politica in cui credere, in cui riconoscersi, per il quale meritare rispetto.
Da tutto questo è nato il mio desiderio di raccontare quei suoi ultimi giorni che in modo indelebile avevano segnato milioni di persone che per sette giorni avevano seguito con grande turbamento le sorti del leader del Pci. La sensazione era che di lì a poco niente sarebbe stato più come prima.
L’attrazione per il significato di quella storia – e di quella fine, umana come politica, sociale come culturale – si nascondeva in me come un ricordo vivo, eppure non mio, ma filtrato; un coinvolgimento profondo, sia intellettuale che emotivo, inseguito tra memorie non mie, dentro ricordi che di generazione in generazione venivano tramandati da una comunità che andava svanendo, mentre la società stava irrimediabilmente cambiando. Il film documentario si fa carico così di questi sentimenti, di questo struggimento per un tempo che più non è: l’evento – quei sette giorni così vibranti – vengono vissuti, esplorato e raccontato da uno sguardo che non c’era e cerca però di esserci in modo nuovo, rinnovato, attraverso gli infiniti materiali di repertorio, molti inediti e riportati alla luce dopo 3 anni di ricerche, che avevano cercato di raccontare il crescente dolore dal quale il Paese era stato travolto.

Il suo malore, davanti a quella folla appassionata che tanto lo ammirava e che coinvolgeva con passione sincera, gettò nello sconcerto un intero Paese. Il suo funerale, seguito dal vivo da oltre un milione di persone e raccontato da una diretta televisiva le cui immagini sono ancora vivide nella memoria collettiva, è stato il funerale politico più imponente della storia della Repubblica. Così gli ultimi giorni di Enrico Berlinguer sono diventati la traccia di un ragionamento non solo sulla fine di un leader e su un pensiero politico così attuale, così lucidamente ancorato al futuro, tanto da anticipare temi quali l’ambientalismo, la sobrietà, l’austerità, il sovvertimento dei paradigmi sociali, il senso della comunità internazionale, la necessità di un dialogo globale come base per una pace duratura e rispettosa delle singole autonomie, ma anche di un periodo storico, di un’epoca forse, di un’intera comunità politica, l’idea stessa di un Paese che sembra dopo quei giorni svanire per sempre e diventare solo memoria lontana.

Il docufilm: Prima della fine, gli ultimi giorni di Enrico Berlinguer, scritto e diretto sa Samuele Rossi è prodotto da Echivisivi con Salice Production e Solaria Film e racconta gli ultimi momenti di vita del segretario del Pci Enrico Berlinguer, dal malore durante il comizio di Padova, alla morte quattro giorni dopo in ospedale, fino al funerale in piazza San Giovanni a Roma il 13 giugno 1984. Sarà trasmesso il 5 settembre alle 21,15 su Sky Documentaries e il 6 settembre su SkyArte. In streaming solo su Now e disponibile anche on demand.

L’autore: Samuele Rossi è regista, sceneggiatore e produttore 

Le carezze agli evasori stanno nei numeri

Il giornalista economico Roberto Seghetti sulla newsletter quotidiana Appunti di Stefano Feltri mette in fila alcune norme entrate in vigore dal primo giorno di settembre. 

Si va dall’abbassamento al 120% (prima era fino al 240%) delle sanzioni per i contribuenti che non presentano la dichiarazione fiscale; c’è poi la sanzione da 250 a 1.000 euro se non ci sono imposte da dichiarare raddoppiata nel caso in cui non si tengano i libri contabili; la sanzione in caso di dichiarazione infedele era dal 90 al 180% e ora è solo del 70%; l’omessa dichiarazione dell’Iva comportava una sanzione fino al 240% e ora si è dimezzata al 120%; l’infedele dichiarazione Iva invece dalla sanzione massima del 180% ora scende al 70%. 

Dalla relazione sul rendiconto generale dello Stato della Corte dei conti sappiamo che i controlli in Italia sono ben al di sotto del periodo prepandemico mentre “consistente è il numero dei contribuenti che non versano quote rilevanti delle imposte dovute e dichiarate: a fronte degli importi richiesti a seguito di comunicazioni di irregolarità, solo poco più del 20 per cento viene corrisposto”. 

“Lo stesso accade – scrive la Corte dei conti –  per i controlli documentali: delle somme dovute sono versate in media meno del 30 per cento. Un fenomeno che risulta ancora più grave quando accompagna misure come le rottamazioni delle cartelle esattoriali con consistenti vantaggi per i singoli contribuenti”. 

Le carezze agli evasori di questo governo stanno tutte nei numeri. Come ai bei tempi di Silvio Berlusconi, semplicemente con l’aggiunta di un furbesco riserbo. 

Buon martedì. 

Contro il premierato. Il giurista Schillaci: Così la nostra democrazia si riduce alla investitura di un leader

Di Premierato, o meglio di elezione diretta del presidente del Consiglio, Left parla il 3 settembre alla Festa dell’Unità di Ferrara (Pontelagoscuro) con Angelo Schillaci, professore associato di Diritto pubblico comparato all’Università La Sapienza di Roma (e già difensore del Ddl Zan).

Approvato in Consiglio dei ministri lo scorso 3 novembre e in Senato il 18 giugno, il Ddl Casellati sul premierato si appresta a passare alla Camera, seppure non si esclude da parte della maggioranza un reinvio alla luce delle ambiguità ancora sussistenti rilevate da oltre 3 mila emendamenti e delle manifestazioni di piazza, come quella unitaria di Santi Apostoli il giorno del sì del Senato.
Professor Schillaci il premierato è stato presentato come forma di maggior potere al cittadino. Dall’elettorato viene percepito come rappresentanza o investitura cui acconsente? Quale è la posta in gioco?
La promessa di maggior potere e coinvolgimento è solo apparente: la combinazione tra elezione diretta del presidente del Consiglio e elezione a strascico della maggioranza parlamentare trasforma infatti la nostra democrazia nella sola investitura di un leader, dalla quale dipenderanno tutte le dinamiche di funzionamento della forma di governo. La posta in gioco, quindi, è la stessa fisionomia della forma di Stato repubblicana, che si basa sul concorso democratico dei cittadini nella determinazione della politica nazionale attraverso l’associazione in partiti, come vuole l’articolo 49 della Costituzione. Un processo che dal basso conduce verso l’alto, e non viceversa.
Il nostro elettorato, che peraltro vira verso l’astensionismo, è sufficientemente consapevole e informato di cosa significa questo tipo di riforma costituzionale?
La storia recente – penso alla riforma del 2016 ma anche, con le dovute differenze, al taglio dei parlamentari – dimostra che la revisione della costituzione viene percepita come un grande tema del dibattito pubblico, suscitando discussione e partecipazione. In questo caso c’è ancora bisogno di un lavoro di informazione e sensibilizzazione sulle implicazioni profonde della riforma: quel che rischia di passare al grande pubblico è infatti che si tratti di una riforma che dà maggior potere ai cittadini quando si tratta esattamente del contrario.
Cosa il cittadino, nella narrazione / propaganda, non sa?
Ancora non è sufficientemente chiaro che l’elezione diretta del presidente del Consiglio e l’elezione a strascico della maggioranza parlamentare riducono, anziché aumentare, gli spazi della partecipazione democratica e mettono a rischio la tenuta delle istituzioni di garanzia. L’essenza di una democrazia costituzionale – indipendentemente dal modo di selezione della leadership – sta infatti negli equilibri e nei contrappesi che permettono di controllare continuamente l’esercizio del potere da parte delle maggioranze. Equilibri e contrappesi che la riforma vanifica.
Davvero i governi dureranno di più?
Non è affatto detto. La riforma stessa prevede la possibilità di sostituire il presidente del Consiglio eletto con un altro esponente della stessa maggioranza, ad esempio. Più che mirare alla stabilità complessiva della forma di governo, la riforma sembra piuttosto puntare ad assicurare la stabilità della maggioranza elettorale, peraltro assecondandone – paradossalmente – le dinamiche conflittuali.
Un presidente della Repubblica de-potenziato, quasi subalterno al presidente del Consiglio, come potrà essere garante della Costituzione e dell’unità nazionale?
Anche in questo caso, apparenza e realtà vanno in direzioni diverse. Dal punto di vista formale, infatti, i poteri del Presidente della Repubblica non vengono intaccati. Tuttavia, la “coabitazione” con un Presidente del consiglio eletto direttamente dai cittadini sottoporrà inevitabilmente le funzioni di garanzia del Presidente della Repubblica a un fortissimo stress.
La cancellazione della nomina dei senatori a vita, che senso ha e in che direzione va?
L’eliminazione dei senatori a vita è coerente con l’obiettivo di ridurre l’intero funzionamento della forma di governo alla sola elezione di un leader e di una maggioranza parlamentare. Si ritiene infatti che la presenza di parlamentari non eletti possa in qualche modo alterare le dinamiche politiche e gli equilibri parlamentari determinati dalle elezioni. La storia della Repubblica dimostra, tuttavia, che le senatrici e i senatori a vita hanno rappresentato una risorsa importante in termini di autorevolezza della classe politica nel suo complesso: basti pensare da ultimo, alla figura della senatrice Liliana Segre. Non credo che perdere questo patrimonio faccia bene alla qualità della nostra democrazia.
Che lettura si può dare del ddl Casellati nel contesto attuale, internazionale? Oggi il semipresidenzialismo francese è percepito come autoritario e in quanto tale oggi vulnerabile. Il presidenzialismo americano, con Capitol Hill, preoccupa per le possibili degenerazioni. E nel mezzo ci sono il conflitto russo – ucraino e israelo – palestinese?
In un tempo complesso come quello che viviamo, si ha la falsa impressione che una leadership forte e solitaria sia più adatta a fronteggiare crisi e ad assumere decisioni. Questo vale – ovviamente e non da ora – nei contesti autoritari ma, purtroppo, questa convinzione tende a farsi strada anche nelle democrazie. Si dimentica però che, come dimostra la storia del costituzionalismo occidentale, la chiave del successo delle democrazie sta nell’equilibrio tra leadership solide e processi politico-parlamentari fortemente legittimati in dinamiche di partecipazione e nella salvaguardia del pluralismo: questo è, in fondo, anche l’insegnamento di modelli come quello francese e quello statunitense che, al netto delle degenerazioni, si sono sempre ispirati a questo tipo di equilibrio. Insomma, per essere solida e stabile, una leadership ha bisogno di avere alle spalle un tessuto democratico forte e in salute.
Che peso avrebbero col Premierato i corpi intermedi? Perderebbero autorevolezza?
Ridurre il funzionamento della democrazia all’investitura elettorale del leader e della “sua” maggioranza parlamentare ridurrà indubbiamente il ruolo dei corpi intermedi e degli stessi partiti politici. Le istanze di riconoscimento e di giustizia veicolate dai corpi intermedi faranno quindi più fatica a trovare rappresentazione nel processo politico, che sarà inevitabilmente egemonizzato dal/la leader eletto/a.
Secondo lei, alla fine, si farà il referendum?
Fino a questo momento, l’iter della riforma costituzionale è stato portato avanti secondo una logica tutta interna alla maggioranza e al governo. Se le cose non cambieranno – se cioè non ci saranno delle aperture significative e reali alle opposizioni, anzitutto per quel che riguarda proprio l’elezione diretta del presidente del Consiglio – mi pare molto probabile che la riforma venga approvata a maggioranza assoluta e che, quindi, si apra la strada per il referendum oppositivo previsto dall’articolo 138.

L’appuntamento:Il 3 settembre alle 19.45 CONTRO IL PREMIERATO alla Festa dell’Unità di Ferrara, per difendere la nostra Costituzione nata dalla Resistenza.

Intervengono: Angelo Schillaci, professore associato di diritto pubblico comparato Università La Sapienza di Roma, Mattia Franceschelli, capogruppo Pd, Comune di Cento (Fe) Modera: Camilla Ghedini, giornalista collaboratrice di Left

 

Per chi volesse acquistare il libro, oltreché dal vivo a Ferrara: https://left.it/libri

Essere o non essere?

Risuona l’amletico interrogativo vergato da William Shakespeare all’inizio del Seicento nella sua più famosa tragedia.
La citazione, apparentemente banale, è però sempre la più sintetica definizione della condizione esistenziale umana. Vale per ognuno di noi individualmente. Ma anche, in senso lato, per le nostre aggregazioni, inclusi gli Stati.
Insomma, l’Italia è o non è un Paese in grado di provvedere a sé medesimo? Il suo governo – quale che sia – è o non è in grado di tenere le redini dell’economia e dello Stato sociale?
Il debutto di settembre ci presenta un Paese e il suo governo impegolati nella difficile elaborazione di un Bilancio pubblico le cui novità strutturali abbiamo messo in evidenza su queste colonne anche la scorsa settimana.
L’Italia è ancora o non è in grado di essere un grande un Paese industriale, capace di crescere e trainare un incremento adeguato del potere d’acquisto dei lavoratori attivi, dei pensionati e delle famiglie in generale? Le previsioni Istat sul Pil non sono certo eccellenti: l’1% per quest’anno, l’1,1% nel 2025. Sì, gli indicatori sull’occupazione sono apparentemente incoraggianti, con i record di lavoratori attivi – in luglio 24 milioni – che si succedono da alcuni mesi. Ma dentro questo incremento ci sono aspetti che vanno considerati con attenzione: la crescita degli occupati di luglio riguarda interamente il ritorno all’occupazione autonoma (+75mila, +250mila nell’ultimo anno).

Contemporaneamente, torna a salire il numero degli inattivi (+73mila). E gli inattivi sono in prevalenza donne e giovani under 35. Quindi se i lavoratori maturi (uomini in particolare) sono i protagonisti della crescita dei rapporti a tempo indeterminato, i giovani restano fermi sulla porta d’ingresso dell’universo dell’occupazione di qualità. Quella che genera, tra l’altro, il grosso della contribuzione previdenziale.

Contemporaneamente, i dati sulla Cassa integrazione in luglio, elaborati nel report mensile del nostro Centro studi di Lavoro&Welfare, ci dicono diverse cose. Con la richiesta di oltre 36 milioni e mezzo di ore nel mese, l’utilizzo di questo ammortizzatore sociale cresce del 4% rispetto a giugno e di quasi il 28% in confronto a luglio del 2023.

Nei primi sette mesi del 2024 si registra una crescita della CIG di oltre il 20% se rapportato allo stesso periodo del 2023. Incrementi che si verificano in particolare nella Cig ordinaria e straordinaria e che segnalano situazioni critiche per imprese e settori produttivi. Settori, va segnalato, tra i più importanti della nostra industria come il metalmeccanico e il metallurgico.
Il nostro tessuto produttivo, soprattutto nel manifatturiero, non se la vede bene anche per la stagnazione che attraversa l’intera economia dell’Eurozona.

Dunque, nel torrido clima di quest’estate si sono sciolte le facili promesse elettorali che sono state la piattaforma delle forze di maggioranza. Niente più bandierine e, per contro, aree critiche come la sanità pubblica, la previdenza e l’istruzione, sono messe seriamente a rischio dalla necessità di ridurre il deficit pubblico di un Paese che non cresce.

Non si scarichi la responsabilità sui celeberrimi “burocrati di Bruxelles”. Le condizioni di bilancio dipendono dallo stato dell’economia e dai patti sottoscritti da questo governo. Non solo da questo, ma senz’altro anche da questo.
È ora di decidere seriamente ciò che dobbiamo e intendiamo essere e non di abbandonarci al cupio dissolvi del facile vittimismo, caro alla destra, che conduce a un inaccettabile e amletico “non essere”.

L’autore:  Sindacalista e già ministro del lavoro Cesare Damiano è presidente di Lavoro & Welfare

Valentina Mira:«Scrivere sulla morte di Mario Scrocca in carcere è lottare perché non accada di nuovo»

Dalla stessa parte mi troverai (Sem edizioni), che fu presentato da Franco Di Mare al Premio Strega 2024, è un libro coraggioso. Prima di tutto perché esplora la storia di una vittima a lungo dimenticata: Mario Scrocca, militante di sinistra che a quasi dieci anni di distanza fu ingiustamente accusato dell’aggressione alla sede del Msi di Acca Larenzia del 1978 (a maggio scorso acquistata dalla omonima associazione con soldi della Fondazione An nel cui cda siede Arianna Meloni ndr). Poco dopo l’arresto Scrocca fu trovato impiccato in una cella anti-impiccagione a Regina Coeli.

È un libro coraggioso anche perché emozionante voce narrante dell’autrice coglie aspetti profondi della crisi in cui si annidano i germi della violenza e della sopraffazione, e i rischi che rendono fragili le libertà, nella vita delle persone come in quella dei Paesi e dei popoli. Con un’attenzione speciale per le donne.
Valentina Mira, che effetto ha fatto essere stata selezionata per lo Strega con un libro così diverso da quanto viene proposto dall’editoria mainstream?
Penso che mi avrebbe fatto effetto a prescindere dal tipo di libro, a essere sincera. Diciamo che la prima parte della mia vita è stata costellata di fallimenti e sfortune di vario genere, un precariato perenne e faticosissimo a fronte di un impegno gigante, in termini di studio e di lavoro: mi piace pensare che dovessi imparare delle lezioni importanti, e andare incontro con tutta l’umiltà e la gratitudine del mondo a questa nuova, insperata piccola gioia.
Mario Scrocca è stato una vittima “indiretta”. Eppure, di lui si sono dimenticati quasi tutti. Perché?
Credo che troppe poche persone si siano spese per ricordarlo, che troppo sia ricaduto sulle spalle di quella che all’epoca era una ragazza giovanissima (25 anni), con un bambino di 2 anni da crescere, all’improvviso, da sola. Dipende da tanti elementi: i tabù sul carcere e sulle persone che ci muoiono, il tabù sugli abusi in divisa, l’impianto martirologico che su Acca Larenzia ha messo paura a chiunque non parlasse di fascisti ma di antifascisti. Contribuì anche un pessimo giornalismo, che accompagnò la vicenda cercando di metterla a tacere fin dall’inizio. E poi c’è il dato umano. È proprio grazie a quanto Rossella è tenace se oggi parliamo di Mario.

La moglie Rossella Scarponi è oggi un’attivista impegnata contro gli abusi sui detenuti, un’urgenza sulla quale il tuo libro riporta l’attenzione
Assolutamente sì, perché il modo migliore per ricordare una persona morta in carcere in circostanze così sospette è lottare affinché non accada di nuovo. Nel libro parlo di sovraffollamento carcerario, della Corte europea dei diritti dell’uomo che per l’Italia parla di trattamento inumano e degradante. Di un’Italia che però se ne frega. Dall’inizio del 2024 ci sono stati già più di 60 suicidi in carcere, è chiaro che non può continuare così.
Oggi sono molti i libri che affrontano il neofascismo dal punto di vista saggistico, ma pochi quelli che usano la narrativa, anche se basata su storie vere come il tuo. Pensi che sia una modalità efficace per sensibilizzare il pubblico, soprattutto i giovani?
Penso che sia un bel tabù. Che in letteratura il neofascismo sia trattato troppo spesso in modo binario: o demonizzazione assoluta (che però non te li fa riconoscere quando te li trovi vicino), o la risposta a questa mostrificazione che troppo spesso strizza l’occhio a una fascinazione mortifera. A me interessa indagare due elementi diversi e, mi sembra, più realistici: la banalità del male che riguarda le persone manipolate da quel tipo di pensiero, e l’eccezionalità del male che riguarda chi quella manipolazione la agisce dai vertici. Mi chiedi se sia efficace: non pensavo così tanto da farli reagire in modo violento, quindi probabilmente sì.
Fra i tuoi libri, X e Dalla stessa parte mi troverai, pur diversi, c’è il filo conduttore della tua scrittura, messa “a disposizione” della collettività. Qual è per te il senso dello scrivere?
Penso che ognuno abbia il diritto di trovare il proprio senso: la scrittura è un atto di libertà. Nel caso della mia, ha a che fare con un processo di liberazione; se la libertà non ti è data alla nascita, chiamare le cose col loro nome e rimettere le responsabilità al loro posto è qualcosa di magico. La scrittura questo lo permette, ed è uno dei tanti motivi per cui la amo.
C’è anche un’attenzione al tema dell’identità e della libertà delle donne, perché non accettino situazioni di sottomissione, un voler far tesoro della tua esperienza e metterla a frutto delle altre.
L’identità non è un tema che mi sta a cuore, anzi lo trovo piuttosto di destra. Si è parlato negli ultimi anni di identitary politics: ecco, questo a me non interessa, sono più vicina al femminismo intersezionale, che vede tutte le lotte legate tra loro. Invece sulla libertà, e ancor di più sulla liberazione, scrivo da diversi anni. L’intento che ho non è mai insegnare. Nell’assenza quasi assoluta di momenti rilevanti di autocritica maschile mi sembra comunque utile il lavoro di chi descrive dei pattern che si ripetono con poche variabili: la mia speranza è che, intanto, si riesca a scappare in tempo da certe relazioni. Non ti nego che inizia a infastidirmi l’incapacità maschile, anche in letteratura, di mettere in discussione il proprio agire e certi stereotipi. Mi pare che ci sia perfino chi ci lucra sopra, scrivendo libri che servono solo a dire “sono fatto male perché mio padre è fatto male” ma non a spezzare certi cicli mortiferi, e prendendosi applausi, come se fosse un approfondito lavoro antisessista. Diverso è con la saggistica e con qualche prodotto seriale. Lì qualcosa negli anni si è mosso, non solo in Italia. Una serie ben fatta sul rapporto padre-figlio, sulla mascolinità tossica e soprattutto su come la si spezza, è Eric, su Netflix. L’ho trovata molto bella.
Quali sono gli autori e le autrici che più ami e hanno influenzato il tuo stile, le tue voci narranti?
Uh, domanda difficile. Leggo un sacco, per cui scegliere è complicatissimo. Posso dirti i preferiti di ogni età, non l’ho mai fatto ma mi sa che è l’unico modo di dare una risposta onesta. Nell’infanzia ho amato Roald Dahl, J.K. Rowling (scoprirla transfobica mi ha spezzato il cuore) e trovavo esilarante Roddy Doyle. Volevo bene ai fumetti delle W.I.T.C.H., e conservo ancora uno scambio di lettere di quando avevo dodici anni, con Angelo Petrosino. Mi ha cambiato la vita rispondendo alla domanda su come si diventi scrittori o scrittrici: “È una strada laboriosa”, ha detto. Aveva ragione. Durante l’adolescenza ho amato Dostoevskij, Shakespeare, Sartre e De Beauvoir, in generale stavo in fissa per i classici. Oggi trovo Furore di Steinbeck una delle cose più belle mai scritte, e empatizzo facilmente con Martin Eden di London, che usa l’amore per questa donna che non se lo fila come stella polare, diventa uno scrittore e poi scopre che lei è meschina e che il mondo editoriale è spaventoso. Per un periodo ho amato molto Zerocalcare. E poi tutto quello che una penna femminista abbia partorito: Virginie Despentes, Valerie Solanas, Liv Stromquist, Vanessa Springora, Filo Sottile, Chanel Miller, un’infinità di meraviglia a cui sono approdata in età adulta, che mi dà una speranza che nient’altro sa darmi, facendomi sentire meno sola, trovando parole che neanche pensavo ci fossero.
Progetti per il futuro?
Nell’immediato futuro c’è un piccolo viaggio in un paesino del mio cuore, che per inciso è dove Hemingway scrisse Il vecchio e il mare, prima di ambientarlo a Cuba. È anche un piccolo posto dove mi portavano in vacanza i nonni (il nome non lo dirò mai, sennò si riempie di turisti): il piano è starci per un paio di settimane e scrivere come una matta, poi tornare e continuare a scrivere. Non dico ancora cosa, sono solo all’inizio. Però mi appassiona parecchio, e spero che leggerlo sarà bello come è per me, ora, scriverlo.

L’autore: Francesco Troccoli è scrittore e traduttore, autore di una trilogia di fantascienza (tra cui Ferro sette, Curcio, 2012) e per l’Asino d’oro del romanzo Mare in fiamme in cui ha affrontato il tema del passato coloniale dell’Italia fascista

Versione aggiornata dell’intervista è uscita sul numero di Left di luglio 2024

In foto Valentina Mira, courtesy Sem

Per cosa è stata votata Schlein

Inutile girarci intorno. Chi ha votato Elly Schlein per la segreteria del Partito democratico l’ha fatto con la speranza che il partito diventasse qualcosa di profondamente diverso da quello che era stato fino a quel momento. 

Nel dicembre del 2022 quando l’attuale segretaria lanciava a Roma la sua candidatura alla guida del partito disse testualmente: «A Renzi, che dice di averci portato in Parlamento, dico di non dimenticare che per quanto mi riguarda a portami in Parlamento furono 50mila preferenze. Renzi ha il merito di aver spinto me e tanti altri fuori dal Pd con una gestione arrogante. Ha ridotto il Pd in macerie e poi se n’è andato».

A gennaio del 2023 Schlein spiegò che «Renzi ha fatto scelte politiche sbagliate che hanno allontanato molti di noi dal Pd e ha fatto le sue scelte e ha lasciato macerie dopo aver fatto errori su lavoro, migrazione, sblocca Italia». A maggio di quest’anno Renzi spiegava che «il Pd di oggi sta con Cgil e Landini» e chiedeva ai riformisti: «ma che ci fate ancora là dentro?». Qualche giorno dopo, in occasione dell’appoggio del Pd al referendum contro il Jobs act, il senatore fiorentino rincarò la dose. «Finalmente si è fatta chiarezza!», disse stentoreo nel suo ennesimo penultimatum. 

Dice Schlein che «il dibattito sulle alleanze non è interessante» ma bisogna «ragionare sui temi». È la stessa frase usata dai dirigenti del vecchio Pd ogni volta che preparavano un compromesso al ribasso. Ma qui non si tratta di alleanze: si tratta di avere coscienza del perché Schlein sia diventata segretaria, preferita a Bonaccini, con i voti di chi non avrebbe mai votato quel Pd. 

Buon lunedì. 

Nella foto: manifestazione a Genova, 18 luglio 2024 (foto pagina Fb Elly Schlein)

L’astrattismo sensibile di Carla Accardi. Finissage

Carla Accardi, Grande dittico, 1986, vinilico su tela grezza, cm 220 x 320, Collezione privata, Vicenza | © Carla Accardi by SIAE 2023

Riemerge come un flusso travolgente di forme astratte e colori squillanti l’opera di Carla Accardi inondando le sale bianche del Palazzo delle Esposizioni a Roma. Nel centenario della nascita dell’artista siciliana la Capitale le dedica un’ampia e coinvolgente retrospettiva (fino al 1 settembre).
Le sue creazioni sono presenti nei circuiti museali internazionali ma negli ultimi anni la sua opera è stata alquanto trascurata da critici e curatori. E sul perché ci sarebbe molto da interrogarsi, visto il grande significato che la sua opera ha avuto sul piano artistico ma anche nell’aprire la strada ad altre artiste nell’avanguardia del Novecento.
All’indomani della guerra, mentre il suo docente all’Accademia di Venezia Arturo Martini le ripeteva che l’arte non è roba per donne e il padre le diceva che non si era mai vista una Raffaello donna, Carla Accardi realizzava due intensi autoritratti in pose raffaellesche e, nel frattempo, sperimentava a tutto raggio, abbandonando la figurazione, costruendo un proprio alfabeto personale di segni, fino a trovare una propria cifra originale con la serie dei “Bianchi e neri” che catturano potentemente lo sguardo dopo le prime prove scolastiche (e tuttavia interessanti proprio per capire l’entità della sua coraggiosa svolta).
Quelle danze di segni percorse da un crescente ritmo interiore che ci attraggono nella prima grande sala suscitarono l’interesse del critico francese Michel Tapiè, che cominciò a parlare di lei come esponente della corrente dell’Art autre, mettendola accanto a Alberto Burri, Antoni Tàpies e Georges Mathieu. Ed era solo l’inizio.

Carla Accardi, Autoritratto (1946)

Attraversando le sale della mostra romana (ciascuna quasi monografica nel documentare le varie fasi creative dell’artista) curata da Paola Bonami e Daniela Lancioni si resta via via sempre più intrigati dalla fervida e continua ricerca di Carla Accardi.
Dagli esordi in una attardata Sicilia, emulando Kandinskij, i Fauves e Picasso, fino a trovare un proprio linguaggio visivo che si esprime in continui e sempre nuovi giochi di forma e colore. Andando oltre ogni steccato che all’epoca era anche di genere.
Certo lei era cresciuta in una famiglia siciliana colta che le aveva permesso di studiare, di frequentare l’accademia a Venezia, a Firenze e poi di trasferirsi a Roma, in via del Babuino, in quella casa con vista sui tetti che poi sarebbe stata sempre una casa studio, aperta agli incontri e al confronto con amici e colleghi, ma anche sede del gruppo Rivolta femminile, fondato nel 1970 insieme a Elvira Banotti, e Carla Lonzi da cui si allontanò perché la prassi dell’autocoscienza le andava stretta e le suonava troppo razionale e lontana dalla sua ricerca sulle immagini.

L’aver avuto una base materiale fu un vantaggio ma non era certo sufficiente per farsi strada in un’avanguardia della pittura che nel dopoguerra era tutta al maschile, anche a sinistra. Serviva talento e una grande consapevolezza di sé per poter portare avanti, quasi unica donna del gruppo Forma I, una propria ricerca nella galassia dell’arte astratta avversata anche dai dirigenti della propria parte politica.
Per questo forse è utile riannodare seppur brevemente i fili della storia. Nel 1946, pochi mesi dopo quello storico referendum in cui le donne, che avevano appena conquistato il diritto di voto, furono determinanti nella scelta della Repubblica, Accardi esordiva come artista.

Carla Accardi, Labirinto con settori (1956)

Ventenne, era appena arrivata a Roma. Nel ’47 proprio nella Capitale nacque il gruppo Forma 1, con uno sguardo internazionale (ereditato dalla Resistenza che aveva sconfitto il fascismo) e rivolto al nuovo campo di ricerca dell’astrattismo. «Proponevano un’ arte nuova… un’arte senza figure, né storie, solo forme e colori che parlano alla sensibilità di tutti gli uomini e di tutte le donne di qualsiasi nazionalità essi siano», annota Miguel Gotor nell’introduzione al sostanzioso catalogo della mostra edito da Quodlibet.
Con Accardi facevano parte di Forma 1 Consagra, Dorazio, Turcato, Guerrini e Maugeri, Perilli, Sanfilippo, (con il quale Accardi si sposerà per poi presto, separarsi). Nel frattempo a Milano nasceva il Fronte nuovo delle arti, mentre a Mosca era all’opera Andrej Zdanov. Lo zdanovismo italiano non si manifestò prima dell’ottobre del ’48 quando Palmiro Togliatti, dopo l’attentato di luglio, poté riprendere, su Rinascita i panni di Roderigo di Castiglia. Per prima cosa stroncò la mostra bolognese dell’Alleanza per la cultura animata da Accardi e compagni. Una raccolta di «cose mostruose», di «orrori e scemenze», di «scarabocchi», scrisse dimostrando una totale assenza di apertura e di sensibilità artistica. Il gruppo Forma I, da sinistra, sfidava il realismo socialista proponendo una ricerca per rappresentare la realtà umana più profonda, andando oltre i canoni razionali della pittura figurativa che si limitava a riprodurre la percezione retinica. Ma l’establishment del Pci, tragicamente, non capì. E perse un’occasione storica. Intanto il gruppo cresceva e discuteva anche se rimanere o meno nell’alveo del Pci. La stessa Accardi fu iscritta al partito dal 1947-al 1956. «La fine della guerra – scriveva Consagra in Vita mia (Feltrinelli) fu una grande festa. A Roma arrivavano artisti, poeti, scrittori da tutte le parti d’Italia e poi dalla Francia, dall’Inghilterra, dall’America».

«Perilli e Dorazio erano i più “letterati” del gruppo e Turcato era il più grande fra noi», ebbe a dire generosamente Carla Accardi, spiegando: «Forma I è stata soprattutto una premessa nel mio lavoro». Un manifesto e una rivista furono gli strumenti di riflessione teorica del gruppo che animò un forte dibattito culturale. Gli artisti del gruppo si dichiaravano marxisti e formalisti, convinti che non fossero scelte antitetiche. In polemica con Picasso, e più in sintonia con Matisse, sostenevano che un quadro potesse essere anche un complemento decorativo. «Associare funzione decorativa e opera d’arte fu una sfida. Gli artisti di Forma I perseguivano il desiderio di trasformare l’ambiente anche quello domestico) alla luce di una nuova sensibilità, offrendo a tutti un orizzonte nuovo e aderente ai tempi», scrive Daniela Lancioni nel catalogo Quodilibet.
«Avevo fiducia nell’evoluzionismo – ricordava Carda Accardi in una intervista del 1986, perché credevo nella possibilità di migliorare la vita, in un mondo che doveva sconfiggere le sofferenze con la scienza e il progetto sociale».
Una svolta avvenne nel 1947 quando Accardi visitò il Musée de l’Homme a Parigi, in particolare la sezione antropologica. «Mi fu di grande ispirazione» disse . «Mi servì per staccarmi da quella che era la mia formazione classica che privilegiava il Rinascimento. Venivo da Trapani, in Sicilia, una regione isolata dove però qualcuno viveva la cultura in modo vivace».
La ricerca di Carla Accardi si sviluppò in parallelo con l’Informale, ma cercando una propria strada autonoma, distinguendosene, mantenendo sempre, nell’astrazione, un rapporto con l’umano, in modo femminile.
Dal 1954 al 1959 ecco i quadri bianco e neri, con segni che si intrecciano e che sono fra le sue opere più conosciute. Lungo il percorso della mostra romana incontriamo il vocabolario segreto di segni neri circolari di Arciere in bianco (1955) e, tra le altre opere, Labirinto con settori (1956, dove alla danza del bianco e del nero si aggiunge il rosso, fino ad Assedio rosso e Bianco nero chiuso, che sembra ricreare un antico merletto a tombolo. I segni dinamici si irradiano tutt’intorno, l’immagine in filigrana è un pullulare di esseri umani, uguali e diversi che cercano una interazione, che si incontrano in gruppo.
Poi tra il 1959 e il 1963 Accardi riprese a usare i colori forti. Nacquero opere come Verderosso (1963), Rossoverde (1963) e Violarosso (1963), su basi di colore deciso e compatto, su cui fiorisce una scrittura di segni tutti diversi, in un ritmo tellurico. E si accende la luminosità dei quadri. Lei la creava alla maniera di Veronese, accostando colori complementari che vibrano uno accanto all’altro. Dopo la Biennale, nell’estate del 1964 si mise a lavorare molto su grandissimi quadri. E dall’anno dopo cominciò ad usare la plastica e colori fluorescenti. In particolare usava come supporto su cui dipingere un materiale plastico trasparente, il sicofoil, (con grande sorpresa anche degli stessi produttori del materiale).

Carla Accardi, Tenda (1965)

Da una parte l’interesse per l’artificiale, per la modernità, dall’altra il permanere dell’interesse per segni arcaici. Entrambi si ritrovano nella serie, con onde che paiono a stento trattenute dalla cornice, come in Verde (1974) e Marrone (1974). L’esigenza è sempre più quella di uscire dal limite del quadro e di sperimentare con la luce. L’uso della plastica la potenzia come dimostra la Tenda del 1965 che fu esposta in una lungimirante Biennale del 1976 sul tema dell’ambiente; ora troneggia e riluce qui al centro di una sala. Il riferimento implicito erano le tende dei nomadi e rappresentava il tentativo di uscire dalla dittatura del quadro per creare uno spazio a misura di persona, cercando un rapporto dialettico con lo spazio.

Tuttavia Carla Accardi non perse mai l’interesse per i quadri. Anzi. Da ultimo usava grandi tele grezze. E non perse mai l’interesse per la pittura. Le ultime opere sono un’esplosione di colore. Fino alla fine non ha mai smesso di fare ricerca. «Ho famiglie di quadri. Il mio lavoro è unitario ma ci sono molte oscillazioni che mi permettono di lavorare tutta la vita in un campo in fondo ristretto e semplice dove ci sono solo il segno, il colore, il bianco e nero e l’astrazione», raccontava di sé in una intervista. E ancora: «Mi piace avere dei riferimenti nascosti. Oltre a fare la scelta di rinunciare al racconto diretto (la figurazione) e di compiere invece un viaggio nell’interiorità, sarebbe una prigione e la fine di ogni emozione se mi trattenessi anche in un’ unica posizione». E poi aggiungeva: «Ecco quindi le oscillazioni di cui parlo. Ma ogni volta che ho preso una nuova strada, è stato molto difficile ed emozionante. Ci sono stati cambiamenti dovuti ai miei bisogni, altri da sensibilizzazioni dall’esterno. L’artista vive sempre nel suo tempo». Tutta la sua gioia di vivere tocca lo zenit nell’ultima sala del Pala Expo dove campeggiano, in alto, opere che echeggiano l’ultimo Matisse e dove esplodono di energia le ultime opere, realizzate poco prima di morire nel 2014: sono tele dai colori sgargianti, giocate su accostamenti cromatici audaci e coraggiosi, come il rosso nero e bianco di Ordine inverso (2014) e Imbucare i misteri (2014), fra azzurro, nero e bianco. Vi si ritrova tutta la sua energia raggiante, quella che Gillo Dorfles chiamava la brillanza di Carla Accardi.

Trent’anni fa il cessate il fuoco in Irlanda del Nord che aprì la strada alla pace

Belfast

Trent’anni fa, il 31 agosto 1994, l’Ira (Esercito repubblicano irlandese) annunciava il cessate il fuoco che avrebbe aperto la strada al processo di pace nell’Irlanda del Nord. «Riconoscendo il potenziale della situazione attuale e al fine di favorire il processo democratico», la dirigenza dell’Irish Republican Army rendeva noto che avrebbe sospeso «qualunque operazione militare» a partire dalla mezzanotte.

Nel comunicato si leggeva, fra le altre cose, «Riteniamo che siano state realizzate le condizioni per stringere un accordo giusto e destinato a durare». Veniva citata la Dichiarazione di Downing Street, il comunicato congiunto diffuso il 15 dicembre 1993 dal Primo ministro britannico John Major e dal Taoiseach (il capo del governo) della Repubblica d’Irlanda Albert Reynolds, anche se si osservava che la dichiarazione non rappresentava di per sé una soluzione. Quella, proseguiva il documento, sarebbe stata raggiunta solo «come risultato di negoziati inclusivi».

Il cessate il fuoco dell’Ira rappresenta una tappa decisiva nel processo di pace che portò alla firma dell’Accordo di Belfast, detto anche Accordo del venerdì santo, del 10 aprile 1998 e, successivamente, alle elezioni per l’assemblea legislativa locale e all’insediamento di un esecutivo “consociativo” (basato cioè sulla condivisione del potere fra i rappresentanti delle due principali comunità politico-religiose del Nord) con competenza su un certo numero di responsabilità devolute da Londra.

Le tappe che precedettero questo storico annuncio sono ben note. Nel novembre 1990, in un discorso pubblico del ministro per l’Irlanda del Nord Peter Brooke, fece la sua comparsa una formula che sarebbe ritornata nella Dichiarazione di Downing Street e che avrebbe rivestito un’importanza decisiva. Brooke, autorizzato dalla premier Margaret Thatcher e d’accordo con John Hume, il segretario del Partito socialdemocratico laburista (Sdlp) dell’Irlanda del Nord, dichiarò che il Governo britannico non aveva alcun «interesse strategico o economico nell’Irlanda del Nord». Nell’aprile 1993 venne pubblicato il primo comunicato congiunto emesso dai leader di Sinn Féin e del Sdlp: il documento era l’esito di una serie di incontri riservati che il repubblicano Gerry Adams e il moderato John Hume avevano avuto nella prima metà del 1988 allo scopo di riattivare il dialogo fra le due anime del nazionalismo. Nell’autunno dello stesso anno l’iniziativa Hume-Adams venne commentata favorevolmente dall’Ira mentre, grazie all’impegno del segretario del Sdlp, i risultati dei negoziati fra i due leader nazionalisti venivano studiati attentamente dai governi di Londra e Dublino.

Si giunse così alla Dichiarazione di Downing Street, che segnava un netto passo avanti sotto diversi aspetti. Londra riconosceva che spettava «soltanto alla popolazione dell’isola d’Irlanda… esercitare il diritto all’autodeterminazione in base al principio del consenso, affermato liberamente e simultaneamente, al Nord e al Sud, per realizzare l’unificazione dell’Irlanda, se questo sarà il suo desiderio». Il Primo ministro irlandese, da parte sua, affermava che «sarebbe sbagliato cercare di imporre un’Irlanda unita in assenza del consenso, liberamente espresso, della maggioranza della popolazione dell’Irlanda del Nord».

La Dichiarazione permise a Gerry Adams di vincere le resistenze degli elementi più sospettosi della dirigenza dell’Ira, che decise quindi di procedere con l’annuncio del cessate il fuoco il 31 agosto.

La natura del conflitto

Il conflitto, o meglio l’ultima fase del conflitto secolare fra i ribelli irlandesi e lo Stato britannico, divampa alla fine degli anni 60 del Novecento. Come data d’inizio si prende in genere l’invio dell’esercito britannico nelle Sei contee nell’estate del 1969, ma ci sarebbero ottime ragioni per assumerne altre: ad esempio il 7 maggio 1966, quando un gruppo di unionisti filo britannici guidati da Gusty Spence, un ex militare, diede il via a una serie di attentati contro cittadini nazionalisti o cattolici scelti del tutto a caso, riesumando il nome Corpo volontario dell’Ulster (Uvf) e facendo tre morti prima di finire in cella alla fine di giugno. Oppure il 5 ottobre 1968, data della prima risposta violenta della polizia del governo unionista, a Derry, alla mobilitazione pacifica per i diritti civili dei cittadini irlandesi. Quest’ultima sarebbe a mio parere la più indicata, perché permetterebbe di ricordare la vera ragione dietro lo scoppio del conflitto, vale a dire l’incapacità, o la mancanza di volontà, dello Stato britannico, di garantire a tutti i propri cittadini, anzi a tutti i propri sudditi, parità di condizioni e uguaglianza davanti alla legge.

L’estate del 1969, invece, è più funzionale alla narrazione che diventerà quella prediletta di una delle due principali parti in causa, cioè Londra, soprattutto a partire dalla metà degli anni 70, per spiegare il conflitto. L’estate 1969, infatti, è la stagione dei violenti pogrom scatenati dagli estremisti unionisti, con la connivenza della polizia nordirlandese, contro la popolazione nazionalista e cattolica: l’esercito verrà schierato nelle Sei contee principalmente per difendere i cattolici dalla violenza degli estremisti protestanti e della polizia. Questa è appunto la lettura che diventerà narrazione dominante, cioè i Troubles come esito del secolare conflitto fra due comunità in lotta fra loro, divise dalla religione e dall’identificazione nazionale, gli uni fedeli alla Corona e gli altri all’obiettivo di un’Irlanda unita e sovrana.

La vera natura del conflitto emerge peraltro chiaramente dalla storia dei contatti segreti fra Londra e l’Ira susseguitisi nel corso degli anni nel tentativo di mettere fine alla violenza. Il primo contatto ebbe luogo già agli albori dei Troubles: il 20 giugno 1972 Dáithí Ó Conaill, uno dei comandanti dell’Ira nonché uno dei suoi principali strateghi, incontrò due funzionari del governo britannico guidato dal conservatore Edward Heath e del MI6 (il servizio segreto esterno) con il benestare del ministro per l’Irlanda del Nord William Whitelaw. All’incontro, che si tenne in una casa di campagna al confine con il Donegal, partecipò un giovane Gerry Adams che, a testimonianza dell’autorevolezza che gli veniva riconosciuta già all’età di 23 anni, fu appositamente scarcerato per ordine dello stesso Whitelaw. L’incontro si rivelò positivo e servì a preparare un successivo incontro che si sarebbe tenuto due settimane dopo, questa volta a Londra. Il 7 luglio una delegazione dell’Ira guidata dallo stesso capo di stato maggiore Seán MacStiofáin venne caricata in gran segreto su un aereo della Raf e portata a Londra per incontrare lo stesso Ministro Whitelaw. Questo incontro, che si tenne in uno dei quartieri più esclusivi della capitale britannica, non ebbe alcun esito, soprattutto per l’intransigenza di Seán MacStiofáin. Della delegazione faceva parte un altro giovane, di appena 22 anni, che sarebbe diventato di lì a poco uno dei principali alleati di Gerry Adams e si sarebbe rivelato una delle figure centrali sia della lotta del movimento repubblicano sia del lento cammino verso la pace: Martin McGuinness.

Nel maggio 1973 un altro funzionario del MI6, Michael Oatley, nome in codice “Mountain-climber” (lo scalatore) riuscì a stabilire una linea di comunicazione segreta con un negoziante di Derry, Brendan Duddy, vicino a Martin McGuinness, ora comandante della Brigata Derry dell’Ira. Questo canale non diede frutti immediati, ma si rivelò estremamente importante negli anni successivi, soprattutto durante gli scioperi della fame del 1980-81 e, ancora di più, all’inizio degli anni 90. Intanto, contatti segreti avevano avuto luogo fra l’Ira e il governo laburista di Harold Wilson a cavallo fra il 1974 e il 75; anche in quel caso furono coinvolti Michael Oatley e Brendan Duddy. Nel febbraio 1977 perfino l’allora leader dell’opposizione a Westminster, Margaret Thatcher, autorizzò un proprio rappresentante a incontrare Gerry Adams e Danny Morrison a Belfast. Infine, nell’ottobre 1990, Brendan Duddy organizzò un incontro fra Michael Oatley e Martin McGuinness, che ricopriva anche la carica di vice presidente di Sinn Féin, che si tenne a Derry. Il canale di comunicazione fondamentale era stato di nuovo stabilito e avrebbe garantito contatti costanti e proficui per i successivi 4 anni, fino al cessate il fuoco dei repubblicani del 31 agosto 1994.

La pressione militare

Nei lunghi anni dei Troubles, i contatti segreti fra l’Ira e Londra procedettero di pari passo con l’evoluzione del conflitto armato. La violenza rese sempre ovviamente tutto più complicato. In alcuni casi fece fallire i negoziati. In altri casi, d’altro canto, costituì uno sprone per esercitare autocontrollo, pazienza e rinnovare l’impegno per mantenere attivi i canali di comunicazione o per riattivarli.

La seconda metà degli anni 80 non fu un periodo semplice per le prospettive di pace. L’Ira riuscì a ripristinare il rapporto con il colonnello Gheddafi, a seguito degli scioperi della fame del 1981, garantendosi una nuova insperata fonte di approvvigionamento di armi e denaro che diede nuovo impulso alla propria campagna militare. Nel 1987 le autorità intercettarono un carico di 150 tonnellate di armi proveniente dalla Libia e si scoprì così che nei due anni precedenti l’Ira ne aveva già ricevuti ben quattro. I dettagli arrivarono qualche anno dopo, nel 1992, quando Gheddafi cercò di recuperare il rapporto con Londra e rivelò i dettagli del suo sostegno ai repubblicani irlandesi, iniziato nel 1973 e poi messo da parte per circa un decennio. In anni recenti sono stati pubblicati documenti d’archivio che rivelano che, più ancora delle armi, fu l’entità del contributo economico che lasciò esterrefatti gli inglesi. Pare che nel corso di quei circa 15 anni il governo libico abbia fatto arrivare ai Provos, in contanti, l’equivalente di 40 milioni di Euro dei nostri giorni.

Così, l’Ira potè intensificare la propria offensiva sia nelle 6 contee sia in Inghilterra (i Provos hanno sempre insistito che non avrebbero mai colpito la Scozia o il Galles): il 7 febbraio 1991 l’Ira attaccò a colpi di mortaio nientemeno che il numero 10 di Downing Street mentre era in corso una riunione del gabinetto di guerra del premier conservatore John Major per discutere della situazione in Iraq. Il 10 aprile 1992 i Provos fecero esplodere un furgone pieno di Semtex presso il Baltic Exchange, nella City di Londra. La bomba, la più potente esplosa in Gran Bretagna dalla fine della Seconda guerra mondiale, causò tre morti e danni per ottocento milioni di sterline. Il 20 marzo 1993 l’Ira fece esplodere due ordigni a Manchester; le esplosioni causarono la morte di due bambini di tre e dodici anni. Poco più di un mese dopo, il 24 aprile, i repubblicani colpirono di nuovo la City di Londra con un camion bomba che esplose presso il grattacielo 99 Bishopsgate. La deflagrazione devastò l’intero quartiere e causò oltre un miliardo di sterline di danni. Grazie a un preavviso più preciso rispetto a quello di attentati precedenti ci fu una sola vittima, un fotografo che ignorò gli avvertimenti della polizia per avvicinarsi il più possibile alla zona segnalata. Intanto, l’Ira aveva intensificato la propria offensiva nell’Irlanda del Nord colpendo perfino alcuni elicotteri dell’esercito britannico: fra il 1988 e il 1994 riuscì a colpirne ben quattro con mitragliatrici o con mortai artigianali, abbattendoli o costringendoli ad atterraggi di fortuna.

Dal canto loro, i militari britannici non intendevano porgere l’altra guancia: l’8 maggio 1987 l’esercito tese un agguato a un commando dell’Ira che intendeva assaltare una caserma della polizia a Loughgall, nella contea di Armagh. Un’unità dello Special Air Service (Sas) aprì il fuoco uccidendo otto guerriglieri e un passante. Il 6 marzo 1988, a Gibilterra, tre volontari dell’Ira, due uomini e una donna, furono intercettati dal Sas e uccisi a sangue freddo con diversi colpi di arma da fuoco. Tutti e tre erano disarmati e vestiti con abiti leggeri. Il Sas colpì ancora il 3 giugno 1991 uccidendo tre volontari dell’Ira armati in un’auto a Coagh, nella contea di Tyrone.

Gli stessi anni videro anche una recrudescenza della violenza delle milizie lealiste filo britanniche, volta principalmente a colpire civili cattolici scelti a caso per terrorizzare la popolazione nazionalista e scoraggiarne il sostegno all’Ira. Nel 1987 Brian Nelson, un ex soldato originario di Shankill Road, a Belfast, che due anni prima era stato reclutato dal servizio segreto britannico e infiltrato nella milizia lealista Associazione per la difesa dell’Ulster (Uda), si recò in Sud Africa per trattare l’acquisto di un grosso quantitativo di armi. Una parte delle armi venne intercettata e confiscata dalla polizia, ma una parte venne distribuita fra le principali milizie lealiste, principalmente l’Uda e l’Uvf. Contemporaneamente Brian Nelson, che nel frattempo era assurto al ruolo di responsabile del servizio informazioni dell’Uda, passava documenti riservati su persone sospettate di fare parte dell’Ira, fornendo così ai miliziani lealisti gli obiettivi da colpire. Quello di Brian Nelson fu uno dei casi esaminati all’inizio degli anni 90 dal funzionario di polizia britannico John Stevens nel corso dell’inchiesta che condusse sulle denunce di collusione fra le autorità e le milizie lealiste filo britanniche. Interrogato dalla commissione Stevens, Brian Nelson confermò di avere agito in base a istruzioni delle autorità britanniche. Condannato a una serie di pene detentive nel 1992, Brian Nelson scontò sei anni di prigione. Morì nel 2003 a soli 55 anni.

Nei primi anni 90 sia l’Ira sia Londra riconoscevano, in alcuni casi pubblicamente, che una soluzione militare del conflitto era impossibile. L’Ira sapeva di non essere in grado di cacciare gli inglesi dall’Irlanda e Londra si rendeva conto che avrebbe potuto anche contenere l’Ira, ma non sconfiggerla. I tempi erano maturi per una soluzione di altro tipo.

Il processo di pace

Il percorso non fu né rapido né semplice, anche se nelle prime settimane dopo la tregua annunciata dall’Ira vi furono segnali incoraggianti. Il 13 ottobre 1994 le principali milizie filo britanniche annunciarono il cessate il fuoco con un comunicato congiunto che venne letto da Gusty Spence, l’uomo che aveva guidato l’inizio della campagna di terrore contro la popolazione nazionalista di Belfast nel maggio 1966. I lealisti vennero così coinvolti attivamente nel processo di pace, attraverso due piccoli partiti che da qualche anno si stavano proponendo come interlocutori politici a nome dei miliziani armati. Questa configurazione del processo di pace era ovviamente funzionale alla narrazione alla quale ho già accennato, quella della riconciliazione fra le due comunità in lotta fra loro; un’impostazione non certamente gradita ai repubblicani che, tuttavia, Sinn Féin dovette giocoforza accettare.

Ci vorranno più di tre anni per giungere alla firma dell’Accordo di Belfast, nell’aprile 1998, e ai successivi referendum popolari confermativi svoltisi su entrambi i lati del confine, e altri nove per giungere alla formazione del secondo esecutivo consociativo che vide l’adesione del Partito unionista democratico (Dup), ora partito di maggioranza della comunità unionista, e l’inizio della coabitazione con Sinn Féin.

I recenti successi elettorali di Sinn Féin, ora guidato da due donne, Mary Lou McDonald e Michelle O’Neill, hanno premiato la lungimiranza di chi 30 anni fa si assunse rischi non indifferenti per convincere il movimento repubblicano a proseguire la lotta sul terreno politico: Sinn Féin è attualmente il primo partito all’Assemblea di Belfast, nel voto amministrativo locale e persino in quello per il Parlamento di Westminster. Dallo scorso febbraio Michelle O’Neill ricopre la carica di Primo ministro dell’esecutivo di Belfast, affiancata da un’altra donna, nel ruolo di Deputy First Minister, Emma Little-Pengelly (Dup), figlia di un ex miliziano lealista.

Le sfide che deve affrontare il governo consociativo di Belfast sono tante, a partire dallo stato in cui versa la sanità pubblica nelle Sei contee, ma è bene ricordare che il solo fatto di avere istituzioni locali finalmente funzionanti è di per sé un grande risultato e che non sarebbe mai stato possibile senza una pre-condizione fondamentale, vale a dire la pace.

L’autore: Carlo Gianuzzi è co-autore e co-conduttore di Diario d’Irlanda, trasmissione diffusa da Radio Onda d’Urto. Sua la foto di apertura