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La rigenerazione urbana a Firenze ora ha un Lumen

“Icchè Ci Vah Ci Vole” è un nome che suona bene e che colpisce subito. È il nome dell’organizzazione, ente del terzo settore, che ha dato vita al progetto LUMEN Laboratorio Urbano MENsola. Ma cosa significa “Icchè Ci Vah Ci Vole”? È un’espressione fortemente fiorentina che vuol dire “quel che ci va, ci vuole” – ciò che sentiamo di fare è necessario e deve essere realizzato con impegno. Si possono avere molte idee, ma ci vogliono impegno, passione, dedizione, tanta creatività e una grande voglia di mettersi in gioco per realizzarle davvero.
L’organizzazione fiorentina Icchè Ci Vah Ci Vole (ICVCV), nata nel 2017 dall’unione delle associazioni Riot Van, No Dump e Progeas Family, ha creato uno spazio meraviglioso alle porte di Firenze. Non solo per la bellezza del luogo, immerso nel verde e immediatamente accogliente, ma soprattutto per la sua missione.
LUMEN è uno spazio concesso gratuitamente dal Comune di Firenze, in cambio della manutenzione ordinaria e straordinaria. Si tratta di un importante progetto di rigenerazione urbana basato sulla cultura, che riqualifica il patrimonio immobiliare comunale e crea socialità in uno spazio pubblico dismesso. L’obiettivo è quello di creare un nuovo polo culturale accanto al neonato Parco del Mensola. Il nome LUMEN significa “Laboratorio Urbano Mensola”, ma “lumen” è anche l’unità di misura del flusso luminoso, che rappresenta la quantità totale di luce emessa da una sorgente luminosa. Una bella immagine per uno spazio che mira a rigenerare gli spazi attraverso la cultura.


Abbiamo incontrato l’architetto e dottoranda in tecnologia dell’architettura Arianna Camellato durante un corso di formazione organizzato dall’organizzazione capofila ICSE & co. ETS e accreditata nel settore gioventù presso l’Agenzia nazionale per la gioventù. Questo corso, finanziato dall’Unione Europea, era incentrato sulle dinamiche di apprendimento e sulla promozione dei processi partecipativi tra i giovani. Ha coinvolto operatori giovanili provenienti da tutta Europa, riuniti a Firenze. La collaborazione di ICSE&co., esperta nell’educazione non formale nel settore giovanile, il know-how di Arianna Camellato sul tema dei processi partecipativi e gli spazi di LUMEN messi a disposizione, hanno reso tangibile il concetto di partecipazione. Il prossimo corso, intitolato “Your game”, si terrà dal 30 agosto al 6 settembre, con l’obiettivo di migliorare le competenze degli operatori giovanili nell’uso e nella creazione di giochi educativi. Un esempio quest’ultimo di come diverse sinergie del territorio fiorentino si siano unite per fare cultura, esportandola a livello europeo tramite il programma Erasmus+.
Arianna Camellato, membro del direttivo di Icchè Ci Vah Ci Vole, originaria di Treviso, è arrivata a Firenze per studiare scienze dell’architettura dopo un passato da attivista nella sua città natale. Con la Rete degli studenti medi di Treviso come capofila, un gruppo di associazioni del territorio, e con il sostegno di Cgil e Sspi, hanno partecipato a un bando del Comune per recuperare uno stabile dismesso al fine di trasformarlo in un nuovo luogo aggregativo, capace di produrre cultura, integrazione, nuove forme di socialità, intergenerazionalità e cittadinanza attiva. «Abbiamo risistemato questo spazio, dismesso da anni, che è diventato un circolo Arci ed è stato restituito alla cittadinanza dopo vent’anni. Un circolo tuttora attivo che si chiama Binario 1».


Il background di Camellato si inserisce perfettamente in questo nuovo progetto che è LUMEN. Ma quando è nato esattamente così come lo conosciamo oggi? «Nasce nell’estate 2021, tra Settignano e Rovezzano, nel cuore del Parco del Mensola di Firenze. Sono stati recuperati 400 mq di immobile e 4.000 mq di verde, comprese 4 serre da 3.000 mq, in precedenza abbandonati, con la pratica dell’autocostruzione basata su criteri etici e di economicità. Possiamo affermare che LUMEN rappresenta un unicum nel territorio nazionale perché c’è stata un’assegnazione diretta da parte dell’amministrazione e non tramite bando come si era verificato con Binario 1. Il lungo curriculum dell’associazione e l’idea ben precisa di riqualificazione degli spazi ha fatto sì che ci fosse questa assegnazione diretta», racconta Camellato. Un accordo di concessione temporanea di 18 mesi che sarebbe stato propedeutico all’attivazione di una concessione trentennale, sempre finalizzato a restituire a questo spazio una nuova vita per la cittadinanza.
«Questa attivazione a livello trentennale ancora non si è verificata. Siamo all’interno di una serie di proroghe della concessione temporanea. Si tratta di progetti altamente sperimentali; non essendoci nulla del genere a livello nazionale, significa che non ci sono ancora le leggi e le condizioni burocratiche adatte alla gestione di questo tipo e noi vorremmo costruire un precedente».
Ma come è stato possibile ottenere la concessione degli spazi senza la presenza di un bando? «Abbiamo studiato molto e abbiamo rinvenuto l’esistenza dell’Articolo 20 del regolamento sui Beni Immobili del Comune. L’articolo, datato 2017, esprimeva la possibilità che in casi eccezionali, i beni immobili di proprietà dell’Amministrazione Comunale appartenenti al demanio o al patrimonio indisponibile potessero essere assegnati in concessione gratuita a soggetti terzi sulla base di un progetto che evidenziasse utilità per la collettività».
Ci chiediamo a questo punto com vedete il futuro di LUMEN? “Vorremmo che LUMEN diventasse un laboratorio di sperimentazione per le realtà del territorio. Uno spazio dove le persone possano avviare imprese e creare valore attraverso attività culturali, costruendo reali opportunità lavorative nel terzo settore. Il terzo settore è molto collegato all’ottica del volontariato; invece, a noi piacerebbe riuscire a costruire delle reali occasioni lavorative nel settore culturale. Le possibilità, anche in termini burocratici, esistono, e quindi perché anche il terzo settore non potrebbe essere un motore di lavoro? Abbiamo avuto la necessità di prorogare la fase di concessione temporanea. Non ci sono state le condizioni politiche per riuscire a costruire un framework burocratico che fosse adatto a quello che volevamo fare. Nella volontà di costruire un precedente concreto e riproducibile, preferiamo aspettare che queste condizioni si allineino. Una volta che il progetto si dimostrerà veramente possibile e sostenibile, puntiamo a procedere».
La missione di LUMEN è creare uno spazio in cui le persone possano costruire autonomamente le opportunità per intervenire attivamente nella loro comunità. Attraverso la partecipazione e l’empowerment individuale, promuovendo la creatività, la partecipazione civica e la rigenerazione urbana, si incoraggia la costruzione di un ambiente in cui ogni individuo possa contribuire al cambiamento positivo. E riprendendo le parole del presidente di ICVCV Antonio Bagni: «Se realtà simili esistono a Berlino e Barcellona, perché non possiamo farlo anche noi a Firenze?».
Siamo pienamente d’accordo e chi visita LUMEN oggi percepisce subito una sensazione di accoglienza. Si può partecipare a laboratori, concerti, momenti di co-design, centri estivi e tante altre attività dell’associazione. Le persone possono stare in compagnia, godere delle attività, leggere un libro, mangiare una pinsa o semplicemente bere una birra da soli o in compagnia.
Ogni mese esce la programmazione, e si può partecipare a lezioni di medicina tradizionale giapponese, di kintsugi (la tecnica giapponese di restauro con l’oro), di yoga, dell’arte marziale kinomichi, e tanto altro ancora. Per i bambini ci sono molte attività di educazione in natura, diverse attività creative o legate ai libri. Il tema del gioco è una parte importante e, in collaborazione con l’Ingegneria del Buon Sollazzo, si è creato uno spazio giochi che è diventato un catalizzatore di scambio continuo: si possono vedere prima i bambini giocare, poi adulti e bambini insieme, fino a vedere nelle ore più tarde giocare solo gli adulti.
Un insieme quindi di iniziative creative e collaborative che dimostrano come spazi abbandonati possano essere trasformati in vivaci centri culturali.

L’autrice: Amarilda Dhrami è giornalista freelance

L’operazione israeliana “Campi d’estate” tra le più violente in Cisgiordania

The Israeli settlements in the West Bank

Negli ultimi due giorni, la Cisgiordania è diventata l’epicentro di una delle operazioni militari più violente condotte da Israele negli ultimi decenni. L’operazione, soprannominata “Campi d’estate”, ha causato un bilancio attuale di almeno 18 morti.

Secondo i media israeliani, centinaia di militari sono attualmente dispiegati in diverse aree della Cisgiordania settentrionale, con operazioni concentrate nelle città di Jenin, Tulkarem, Tubas e Nablus. Questa mobilitazione su larga scala ha portato a una situazione di estrema violenza che, secondo i giornalisti locali, non si vedeva dai tempi della seconda intifada palestinese, avvenuta due decenni fa. Le forze israeliane hanno intensificato l’offensiva soprattutto a Tulkarem, dove hanno assediato il campo profughi di Nour Shams. In questa zona, molti civili sono stati sottoposti a interrogatori sul campo, con le forze militari che non hanno mostrato alcun segno di voler interrompere gli assedi.

La situazione non è meno grave a Jenin, dove le truppe israeliane hanno assediato il centro della città, l’ospedale pubblico e la sede della Mezzaluna Rossa Palestinese, ostacolando così l’intervento delle squadre mediche e bloccando per ore le operazioni di soccorso. Un’azione che non può non essere condannata come una palese violazione del diritto umanitario internazionale. Un oltraggio inferto ai principi cardine che dovrebbero proteggere i civili in zone di conflitto, ma che qui, in questo scenario di desolazione, sono stati calpestati con indifferenza.

Il governatore di Jenin, Kamal Abu al-Rub, ha provato a descrivere ai media locali la devastazione che sta colpendo la città. Le forze israeliane hanno distrutto veicoli e proprietà civili, oltre che danneggiato gravemente le infrastrutture della città e del campo profughi. Le testimonianze raccolte indicano che numerosi cittadini sono stati costretti a evacuare le proprie case, trasformate successivamente in caserme militari dalle forze israeliane. A Tubas, la situazione appare altrettanto drammatica: dopo un’operazione militare durata più di 30 ore, sono stati registrati morti, detenzioni e una distruzione significativa delle case e delle infrastrutture locali.

Il bilancio delle vittime continua ad aumentare, con otto palestinesi uccisi a Jenin, cinque a Tulkarem e quattro a Tubas. Tra i nomi delle vittime, si è aggiunto quello di Mohammad Jaber, noto come Abu Shujaa, un comandante delle Brigate Quds di Tulkarem, che è stato ucciso dopo un lungo scontro con le truppe israeliane. Le forze israeliane hanno assediato la casa in cui Abu Shujaa si trovava insieme ad altri quattro combattenti, tutti uccisi nel corso dell’operazione. Il numero dei feriti è altrettanto allarmante, con almeno 30 persone coinvolte in gravi incidenti, e si teme che il bilancio delle vittime e dei feriti possa continuare a crescere nelle prossime ore.

In merito a queste operazioni, il ministro degli Esteri israeliano, Israel Katz, ha rilasciato una dichiarazione in cuiha difeso con determinazione l’azione militare, affermando che l’esercito sta agendo con «tutta la forza» necessaria per smantellare quelle che ha definito come «infrastrutture terroristiche islamico-iraniane» presenti in Cisgiordania, (che lui, chiama con il nome biblico Giudea e Samaria ndr). Katz ha inoltre ventilato l’ipotesi di evacuazioni temporanee dei residenti palestinesi, una dichiarazione che non era mai stata fatta ufficialmente in precedenza e che ha suscitato preoccupazioni ancora maggiori tra la popolazione palestinese e la comunità internazionale.

Dall’altra parte del conflitto, il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Mahmoud Abbas, ha espresso preoccupazione per l’escalation di violenza in Cisgiordania. Attraverso un portavoce, Abbas ha avvertito che l’intensificarsi dei raid israeliani, combinato con la guerra in corso a Gaza, potrebbe portare a conseguenze «terribili e pericolose» che finirebbero per colpire duramente tutte le parti coinvolte. Anche le Nazioni Unite hanno espresso profonda preoccupazione per l’operazione, con una portavoce dell’Alto commissariato per i diritti umani che ha dichiarato come un’azione militare di tale portata rischi di aggravare ulteriormente una situazione già definita catastrofica. L’uso di attacchi aerei e altre tattiche militari pesanti da parte delle forze di sicurezza israeliane è stato criticato per la violazione delle norme internazionali sui diritti umani, che dovrebbero essere rispettate anche durante le operazioni di applicazione della legge.

Per comprendere appieno la gravità della situazione attuale in Cisgiordania, è utile riflettere sulle stime fornite dalle Nazioni Unite. Secondo i dati raccolti, dall’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, sono stati uccisi 622 palestinesi nei territori occupati, inclusa Gerusalemme Est. Numeri, crudi e tragici, che svelano l’intensità di una crisi che si ingigantisce come un enorme buco nero, minacciando di assorbire l’intera regione in un conflitto dalle radici più profonde e devastanti.

In foto insediamenti israeliani in Cisgiordania

L’autore: Andrea Umbrello è direttore editoriale & Founder di Ultimavoce

Lo Stato delle cose nel governo

Lo Stato delle cose avvicinandosi l’invio di settembre si potrebbe riassumere in pochi punti. 

Il Consiglio dei ministri di oggi è figlio del rinvio prima della pausa estiva, quando la presidente del Consiglio confidava che le vacanza potessero sopire le fibrillazioni nella maggioranza. Missione fallita. 

Agosto ha svelato un Tajani figliol prodigo della Cei improvvisamente innamorato dei diritti civili, del voto cattolico e della presidenza Rai che deve portare in dono ai fratelli Berlusconi. Nelle stesse settimane Matteo Salvini sente la corda intorno al collo stretta dal generale Vannacci che apparecchia il suo movimento con la buona scusa di non essere benamato all’interno del partito. 

Lega e Forza italia hanno bisogno di uno slancio per rinfrancarsi elettoralmente e lo slancio, quando si è al governo, spesso fa rima con necessarie e riconoscibili frizioni nell’esecutivo. 

Fratelli d’Italia avrà gioco facile quindi nell’usare la carta del vittimismo, questa volta contro i suoi alleati, per resistere al logoramento. Nel partito di Meloni vi sono però anche nodi interni da scegliere: l’ubbidiente Fitto verrà spedito in Ue lasciando libera la delicata casella del Pnrr e la ministra Santanchè dovrà salutare la sua sedia da ministra per il processo che incombe. La voglia di rimpasto degli alleati aggiungerà inevitabili fibrillazioni. 

In tutto questo l’Europa “consiglia” da settimane a Meloni di mettere a cuccia il più possibile e il prima possibile i sovranisti che isolano l’Italia a Bruxelles. Poi ci sarebbe la politica, ad esempio, con la Legge di Bilancio da cominciare a immaginare…

Buon venerdì. 

Al rientro dalle vacanze le stesse bugie

Al ritorno dalle vacanze Giorgia Meloni e il suo governo hanno sventolato una serie di risultati che, a un’analisi attenta, risultano essere esagerazioni o, in alcuni casi, distorsioni della realtà.

Meloni ha dichiarato che il governo avrebbe rivisto il 55% del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), ma in realtà solo il 5% dei progetti è stato modificato. Un’altra affermazione riguarda la flat tax per le partite Iva fino a 100 mila euro, una misura che la premier ha descritto come una novità introdotta dal suo governo. Tuttavia, si tratta di una norma già esistente dal 2019, estesa solo marginalmente da questa amministrazione.

Sul fronte del calo dei reati, Meloni ha parlato di un crollo del 7% rispetto al 2019, ma non ha menzionato che il numero di reati era già in diminuzione negli anni precedenti. Anche l’aumento dell’occupazione è stato attribuito al governo Meloni, ma i dati indicano che l’incremento è in linea con un trend iniziato ben prima del suo insediamento.

La premier ha rivendicato il merito per il rallentamento dell’inflazione ma l’andamento dell’inflazione dipende da fattori globali e, si sa, non può essere attribuito interamente all’azione di un singolo governo. La diminuzione della corruzione sventolata da Meloni fa riferimento a dati addirittura ventennali. Nel quantificare le esportazioni internazionali la presidente del Consiglio ha aggiunto 40 miliardi di euro che non esistono. 

Buon rientro. E buon giovedì. 

Il leone del deserto liberato dalla censura

Il film del 1981 Il leone del deserto è stato, secondo la recensione dell’influente critico Vincent Canby del New York Times, «il più grande film di partigianeria del Medio Oriente o del Nord Africa uscito dai tempi di Exodus di Otto Preminger». Il film aveva appena fatto il suo debutto nelle sale degli Stati Uniti e il giudizio di Canby poteva essere determinante, scrive The Guardian. Eppure il film che Canby definì «spettacolare» è stato bandito in Italia per quattro decenni. Il 16 settembre, sei città italiane ospiteranno in contemporanea le proiezioni del film – grazie all’Ong Un Ponte Per. Questo evento senza precedenti richiede una attenta analisi del film, della sua storia e del suo contesto, e delle ragioni del bando quarantennale dell’Italia.
Possiamo affermare che la politica e il cinema sono intrinsecamente correlati. I governi, dopo tutto, influenzano notevolmente l’opinione pubblica, e la propaganda e la censura sono stati gli strumenti preferiti dai fascisti. Purtroppo queste strategie sono persistite a lungo anche dopo la caduta del regime fascista. È stata la politica, in fin dei conti, ad incentivare Gheddafi a finanziare il film e il motivo per cui l’Italia lo ha censurato.
Portare Hollywood nel deserto
Il leone del deserto, diretto dal regista siro-americano Mustapha Al-Akkad, è un epico film d’azione hollywoodiano che racconta la verità su un capitolo oscuro della storia libica da una prospettiva libica. Il film è basato sulla storia, che Al-Akkad ha studiato a fondo per un anno e mezzo. Akkad vede la leggendaria lotta di Al-Mukhtar come un simbolo della lotta araba ovunque nel mondo. Egli ha constatato che molti arabi combattenti per la libertà e figure storiche anticoloniali sono stati esiliati, a differenza di Al Mukhtar, che ha rifiutato l’esilio e ha scelto di morire nel suo Paese.
Il film racconta la storia del combattente per la libertà libico Omar Al-Mukhtar (Anthony Quinn), che ha combattuto l’occupazione italiana dopo l’invasione della Libia nel 1911. Il controllo italiano sulla Libia risultava limitato e inefficace, motivo per cui, nel 1929, Benito Mussolini (Rod Steiger) inviò il generale Rodolfo Graziani (Oliver Reed) per porre fine alla resistenza libica in corso. Il film racconta la battaglia tra i due, in una guerra squilibrata in cui i combattenti della resistenza libica erano armati con vecchi cannoni e cavalli ottomani, mentre i soldati italiani erano armati fino ai denti con macchine da guerra all’avanguardia. Il 16 settembre 1931, dopo 20 anni di combattimenti, lo spietato Graziani catturò e impiccò il 73enne Omar Al-Mukhtar.
Le riprese iniziarono a marzo del 1979 e si conclusero in ottobre dello stesso anno. La maggior parte dei luoghi delle riprese erano i reali luoghi in cui si sono svolti gli eventi. Gheddafi non badò a spese per realizzare il film, coprendo un budget di 35 milioni di dollari (140 milioni di oggi). Il casting comprendeva circa 250 attori provenienti da tutto il mondo e circa 5000 comparse.
Propaganda e censura
Il leone del deserto è stato distribuito in tutta Europa dopo essere stato presentato in anteprima mondiale a New York nell’aprile del 1981 e al Festival di Cannes nel 1982. Tuttavia, in Italia, è stato bandito e non ha ricevuto il “visto” della censura. Secondo le parole del sottosegretario degli Esteri in carica all’epoca, Raffaele Costa, del governo Andreotti, il film era «lesivo dell’onore dell’esercito».
Dopo la firma dell’accordo italo-libico con Berlusconi, in cui l’Italia riconosceva il suo passato coloniale e prometteva di risarcire i libici sotto forma di investimenti, Gheddafi fece una visita a Roma nel 2009. A parte la tenda di lusso che è stata allestita a Villa Doria Pamphili, la proiezione del film è stata una delle richieste di Gheddafi a Silvio Berlusconi. Il film venne trasmesso un’unica volta sulla rete Sky Cinema Classics il giorno dopo l’arrivo di Gheddafi a Roma, l’11 giugno 2009. Tuttavia, nonostante gli sforzi di Gheddafi di rivendicare l’eredità di Omar Al-Mukhtar, Il leone del deserto ha una propria matrice antiautoritaria e trascende il regime che lo ha finanziato. Due anni dopo, durante la rivolta contro il regime di Gheddafi nel 2011, Omar Al Mukhtar è stata la figura che ha spronato i libici per unirsi nella lotta contro Gheddafi, ispirandoli a recitare le sue parole dal film: «Non ci arrendiamo, vinciamo o moriamo».
Far conoscere Il leone del deserto
Portare questo film nelle sale italiane fa parte di un più ampio e ambizioso progetto dell’organizzazione no-profit Un Ponte Per, che mira a contribuire a recuperare la memoria e la consapevolezza del colonialismo italiano nella coscienza collettiva. Questa proiezione è stata il frutto di una lunga ricerca dei possessori dei diritti poiché in Italia non c’è un distributore cinematografico autorizzato, il regista siriano è morto in un attentato di Al Qaeda con la figlia e la società statunitense che ha prodotto il film non esiste più. Dopo diversi tentativi, Un Pone Per ha trovato una società straniera che detiene ancora i diritti di distribuzione in tutto il mondo e ha negoziato l’acquisto dei diritti per dieci proiezioni. Hanno potuto richiedere l’autorizzazione al ministero della Cultura come “auto-distributori”, con l’assistenza di un’agenzia italiana.
Abbiamo “liberato” Il leone del deserto dalla censura, e oggi può quindi essere proiettato liberamente in tutte le sale che lo vorranno, e Un Ponte Per solleciterà le sale e le associazioni a farlo. Chiunque sia interessato a proiettare il film nei prossimi mesi può contattare: [email protected]

l’autore: Khalifa Abo Khraisse è regista e sceneggiatore

Traduzione di Valbona Kunxhiu

In foto: Rodolfo Bigotti e Irene Papas

Opera propriaRodolfoBigotti

Il nostro nome per la Commissione Ue?

Oggi è mercoledì quindi tra due giorni scade il termine entro cui i Paesi membri devono inviare i nomi proposti come membri della prossima Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen. 

L’Italia – a differenza della gran parte dei Paesi europei – non ha ancora ufficializzato la sua decisione, che dovrebbe comunque ricadere sull’attuale ministro Raffaele Fitto. Soprattutto in Italia, a differenza degli altri Paesi europei, non c’è stato nessun dibattito sulle competenze che il governo richiede al rappresentante italiano, su quali dovrebbero essere gli obiettivi della nostra “nomina”, su quali dovrebbero essere i suoi rapporti con l’Ue. Nulla.

Ieri la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha ironizzato sulla sua “scomparsa” nel periodo estivo nientemeno che dal palcoscenico del Tg1. Il principale telegiornale pubblico ha ospitato la scenetta imbarazzante della premier che ha deciso di tornare al lavoro attaccando ovviamente i giornalisti, a suo dire troppo curiosi sui suoi spostamenti.

Forse non ha capito, Meloni, che sono i nostri spostamenti sotto la sua responsabilità a preoccuparci più di tutto il resto: oltre alla nomina italiana alla Commissione europea ci interesserebbe sapere quando Meloni ha intenzione di sciogliere la vicenda Rai, impantanata da mesi. Forse ha tutta l’aria di una “sparizione” anche la riforma dell’Autonomia differenziata che non piace – lo scopriamo ora – nemmeno a un partito della maggioranza, Forza italia. 

Più delle sue colazioni estive ai giornalisti interesserebbe sapere se la linea sulla politica estera italiana sia quella di Meloni in pubblico, di Salvini in pubblico, di Tajani in pubblico o quella di Meloni in privato all’interno del partito. 

Ci faccia sapere. 

Buon mercoledì. 

Nella foto: il ministro per gli Affari europei, il Sud e la coesione territoriale Raffaele Fitto e la presidente del Consiglio Giorgia Meloni (governo.it)

Impresa, patria e nazionalismo. L’educazione di Valditara non è per niente civica

Non so quanto il ministro Valditara sia consapevole della coincidenza tra l’emanazione delle “Nuove Linee guida” per l’insegnamento dell’educazione civica, obbligatorie a partire dall’anno scolastico 2024-2025, e il sessantesimo anniversario della prima ricerca su L’educazione civica nella scuola e nella vita sociale, pubblicata da Aldo Capitini nel 1964 (Editori Laterza), con contributi di Guido Calogero ed altri. Temo ben poco, altrimenti (forse) si sarebbe reso conto che le sue “nuove” linee guida sono rivolte al passato, anziché al presente ed al futuro, mentre quelle di Capitini sono avanzate rispetto ai nostri tempi oscuri. Non che quelle in vigore non avessero pesanti lacune, come avevo evidenziato a suo tempo, ma queste hanno una precisa intenzione ideologica nazionalista-liberista, che va nella direzione opposta a quella proposta da Capitini, che – da pedagogista e filosofo della nonviolenza – dava un fondamento epistemologico all’educazione civica che nel dopoguerra muoveva timidamente i primi passi.

L’educazione civica, scriveva Capitini, è «quella parte dell’educazione di sé e degli altri, che ha lo scopo di preparare a partecipare nel modo meglio informato e più attivo alla complessa vita della comunità e al miglioramento delle sue strutture sociali e giuridiche, sostituendo volentieri ragioni pubbliche a motivazioni esclusivamente private, e tendendo a liberare l’individuo in una sempre più autentica socialità». Aggiungeva, inoltre, che l’educazione civica non deve essere «ridotta a semplice obbedienza all’ordine costituito e alle “autorità”» ma dev’essere «vista come attiva cooperazione critico-produttiva e instancabilmente informata alla vita civile ed alle sue istituzioni con continuo promovimento di maggiore giustizia e maggiore libertà». E, concludeva, rispetto alle tendenze normalizzatrici che già allora si manifestavano: «valgano questi pensieri (…) a correggere l’idea che l’educazione civica voglia dire educazione all’obbedienza alle autorità esistenti. Ben più largo è l’orizzonte, e se educazione civica è educazione all’obbedienza allo spirito della democrazia, esso è ricerca continua, incontro con i diversi, dialogo con tutti, servizio aperto, responsabilità di portare il proprio contributo critico e costruttivo, con la costante intenzione di stare insieme».

Già nella definizione di educazione civica si manifesta la distanza culturale con le Linee guida di Valditara che sono, invece, volte a enfatizzare «il nesso tra senso civico e sentimento di appartenenza alla comunità nazionale definita Patria». Un patriottismo nazionalista sovraesteso, volto ad abbracciare l’intero Occidente: «coscienza di una comune identità italiana come parte della civiltà europea e occidentale e della sua storia». Si tratta, sostanzialmente, della preparazione delle nuove generazioni alla guerra di civiltà, al ritorno ai blocchi di appartenenza della nuova guerra fredda, che diventa ogni giorno più calda. Che Capitini indicava come criticità educativa già ai suoi tempi: «Quel che si nota è anche la tendenza ad allargare la coscienza nazionalistica alla coscienza di “blocco”, che dà luogo all’”europeismo” o al “continentalismo” americano». Ma, aggiungeva fiduciosamente, «si tratta – è credibile o almeno sperabile – di una fase transitoria che sarà superata, così com’è stata superata quella tanto pericolosa del patriottismo sciovinistico negli scorsi decenni».

Ma Aldo Capitini non aveva fatto i conti con il ritorno degli eredi del fascismo al governo del nostro Paese, all’interno di una dimensione internazionale di ritorno dei blocchi contrapposti. Rispetto alla quale il filosofo della nonviolenza indicava proprio nell’educazione civica una via d’uscita: «È chiaro che un’educazione civica rettamente e largamente intesa apre all’internazionalismo ed è altresì chiaro che un internazionalismo non generico o retorico consente e promuove un approfondimento di motivi e di temi anche sul piano dell’educazione civica, che invece il nazionalismo nega. (…) Il compito della scuola per decidere di tale contrasto a favore delle posizioni più avanzate e di più larga apertura, è d’importanza fondamentale. Ma naturalmente è necessaria una scuola sempre meno evasiva e sempre più impegnata».

Il modo in cui s’intende l’educazione civica è, dunque, cartina di tornasole del ruolo culturale che si affida alla scuola. Per Valditara essa deve veicolare i valori d’impresa, la proprietà privata, l’educazione finanziaria e la crescita economica, insomma deve essere al servizio del modello liberista fondato sul successo individuale, seppur dentro ad una logica nazionalista. Invece, sosteneva Capitini, «La scuola è connessa con ciò che è in atto, oltreché un elemento di apertura e di educazione alla pace nella conoscenza dei problemi di tutti i popoli, superando anche quella cornice di europeismo in senso nazionalistico e presuntuoso, e come diretto contro altri, come purtroppo si fa per esortazione ufficiale, e con stimoli di temi e di premi, nelle scuole di oggi». Si tratta insomma di «impostare i rapporti con tutti in modo orizzontale, con rispetto e reciprocità. È chiaro che questo vale pienamente sul piano dell’educazione civica nella società italiana in trasformazione».

Con l’educazione si danno gambe non solo all’idea di società, ma anche ai rapporti di potere che la governano. Per Capitini, come per i grandi sperimentatori di educazione popolare di quel periodo, attraverso la scuola si tratta di re-distribuire il potere tra tutti. «Questa possibilità di un potere concreto di tutti esige la diffusione di una nuova educazione» – conclude Capitini – «cioè di un metodo nelle lotte stesse che non sia distruzione: il metodo nonviolento, diffuso e insegnato dappertutto, dà fiducia ad ogni essere di avere una sua forza, un suo potere attraverso le tecniche della nonviolenza, e rende perciò attuabile, al posto della società oligarchica, la società omnicratica, sempre in movimento, sempre superantesi e correggentesi, ma che mai distrugge i suoi componenti. Così è possibile portare al massimo orizzonte possibile l’educazione alla comprensione e collaborazione internazionale, che non si esaurisca nella conoscenza degli altri e delle istituzioni internazionali, ma muova anche l’animo a sentire l’unità con tutti».

Il sentire di cui abbiamo bisogno oggi più che mai, con il ritorno della guerra perfino in Europa. Anziché del nazionalismo di Valditara.

L’autore: Pasquale Pugliese è filosofo e formatore, fa parte del Movimento nonviolento

Nella foto: frame del video dell’intervento del ministro Valditara al Meeting di Cl a Rimini

Occhio al nuovo piano strutturale di Bilancio

Le ferie estive sono agli sgoccioli e la realtà è qui ad attenderci con una nuova versione delle regole che governano la finanza pubblica. Regole delle quali è importante capire bene i nodi fondamentali. Lo è per chi ha responsabilità politiche. Lo è, altrettanto, per chi cercherà, nelle prossime settimane, di orientarsi nell’argomento che prenderà il centro della scena politica: quello sulla legge di Bilancio per il 2025.
C’è un nuovo “protagonista” su questa scena: si chiama piano strutturale di Bilancio di medio termine. Si tratta di un documento che il governo dovrà presentare all’Unione Europea entro il 20 settembre. Cioè tra 24 giorni (Poi il governo ha chiesto una proroga ndr).
In sintesi, il Piano dovrà delineare l’andamento della spesa pubblica e delle riforme strutturali – richieste dall’Unione a ogni Stato membro – per un periodo di 7 anni. E attenzione: 7 anni in senso letterale. Perché il piano strutturale stesso non potrà essere riformulato ogni anno come avviene, nella nostra esperienza, per i documenti di finanza pubblica come Def e Nadef e, ovviamente, per la legge di Bilancio stessa. No. Esso avrà valore per il quinquennio e vincolerà il Paese per quel periodo. Unica situazione nella quale potrà essere rimesso in discussione potrebbe essere la caduta del governo e la nascita di un nuovo Esecutivo.
Dunque, il governo Meloni e la sua maggioranza – con l’eventuale, ma non scontato, confronto con l’opposizione e le forze sociali al quale saranno disponibili – da qui a pochi giorni porranno vincoli definitivi al futuro del Paese per 7 anni.
Di tutto questo, nel discorso pubblico, non c’è praticamente traccia.

Come ben poco si parla degli effetti del nuovo Patto di stabilità sulla legge di Bilancio per il 2025: ossia l’impossibilità di adottare misure in deficit.
Non c’è da illudersi che il governo vada oltre le misure a tempo, ossia non strutturali, con le quali ha caratterizzato la propria azione in passato, a partire dal taglio del cuneo fiscale. O quelle come le finte “quote” di anticipo pensionistico, con abbondante ricalcolo contributivo, alle quali non conviene aderire se non si vuole subire un taglio consistente dell’assegno previdenziale.
È bene, invece, prepararsi a vedere tagli draconiani alla spesa pubblica. E non è improbabile che le sforbiciate colpiscano ciò che è più facile tagliare: settori già in difficoltà come la Sanità e la scuola pubbliche, senza escludere la previdenza.
Tant’è: la nuova stagione “va a incominciare”. E sarà molto importante riuscire ad indagarne le pieghe più complesse e sfuggire alle sirene propagandistiche per comprendere cosa ci attende a partire da settembre.

L’autore:  Sindacalista e già ministro del lavoro Cesare Damiano è presidente di Lavoro & Welfare

Giorgia, stacce

Che il personale sia politico lo sanno bene dall’altra parte dell’oceano dove l’attuale presidente Usa Joe Biden ha dovuto ritirarsi dalla corsa non per divergenze sul suo operato governativo ma per sue personalissime debolezze. 

Che il personale sia politico lo sanno bene anche i membri della famiglia Meloni che in poco tempo hanno monopolizzato la scena usando la premier, il suo ex compagno Giambruno, la sorella Arianna e il cognato Lollobrigida in metafora di comando, come nelle peggiori dinastie imprenditoriali italiane. 

Hanno poco da lagnarsi quindi quelli del clan (politico) Meloni se il lato famigliare che loro stessi danno in pasto alla stampa poi diventa argomento di dibattito di stampa e di politica. Di mezzo ci sarebbe anche la valutazione di coerenza di una presidente del Consiglio che ha lucrato elettoralmente sulle famiglie degli altri, decidendo cosa fosse tradizionale e cosa no. 

Il 22 aprile del 2015 in occasione della votazione sul cosiddetto divorzio breve Giorgia Meloni scriveva: «Nessuno è obbligato a sposarsi ma se lo fa contrae un impegno serio sul quale la società investe. Non mi convince il fatto che questo vincolo si possa sciogliere in pochi mesi e senza norme in grado di salvaguardare i figli, prime vittime di un rapporto fallito. E dunque non mi convince una legge che rischia di minare la prima cellula della nostra società». 

Giorgia Meloni ha lasciato via social il suo compagno Giambruno per il suo atteggiamento predatorio verso le donne ma ci ripete che Giambruno è il miglior padre possibile per sua figlia, femmina. Il ministro Lollobrigida e la sua ex compagna Arianna Meloni hanno passato anni a decidere cosa fosse “famiglia tradizionale”. Entrambi i nuclei famigliari hanno avuto figli al di fuori dal matrimonio. 

Come direbbero a Roma: Giorgia, stacce.

Buon lunedì. 

Nella foto: frame della trasmissione L’aria che tira, La7, 3 febbraio 2018

Zahir Tahseen Raddad: ferito, usato come scudo umano e morto in custodia israeliana

Zahir Tahseen Raddad, un giovane palestinese di 19 anni proveniente da Saida, un villaggio vicino a Tulkarem, in Cisgiordania, è morto domenica 25 agosto 2024 all’ospedale “Meir”, una struttura sanitaria gestita dalle autorità israeliane. La sua morte, ha immediatamente provocato indignazione e allarme nell’opinione pubblica palestinese e le organizzazioni umanitarie che parlano di grave violazione dei diritti umani. La commissione per gli Affari dei prigionieri ed ex prigionieri e il club dei prigionieri palestinesi hanno denunciato pubblicamente le gravi circostanze che hanno portato al decesso del ragazzo.

Zahir era stato arrestato il 23 luglio 2024 dopo essere stato ferito dalle forze israeliane durante un’operazione che l’esercito israeliano ha descritto come “di sicurezza”. Dopo l’arresto, le stesse autorità israeliane hanno utilizzato Zahir come scudo umano, caricandolo sulla parte anteriore di un veicolo militare. Il trattamento riservato al giovane palestinese rappresenta una violazione inaudita ai principi umani fondamentali e uno sfregio alla dignità intrinseca di ogni individuo. Come preda inerme, è stato esposto alla brutalità del potere, vittima di una caccia in cui la vita è svalutata e l’essere umano diventa solo un mezzo, privato di identità e valore.

Nonostante le sue condizioni di salute estremamente critiche, Zahir è stato trattenuto dalle autorità israeliane e non ha avuto alcuna possibilità di partecipare alle udienze del suo processo. Durante la sua detenzione, ha subito numerosi interventi chirurgici ed è stato mantenuto in vita solo grazie al supporto medico intensivo. Nonostante le cure ricevute, è rimasto in custodia fino al giorno della sua morte.

La tragica fine di Zahir non può essere considerata un evento isolato, ma fa parte di un quadro più vasto in cui vengono costantemente documentati abusi e crimini sistematici commessi da Israele contro i prigionieri palestinesi. Le organizzazioni che monitorano la situazione all’interno dei penitenziari israeliani, tra cui la commissione per gli Affari dei prigionieri ed ex prigionieri e B’Tselem, denunciano che i prigionieri palestinesi sono frequentemente sottoposti a torture, umiliazioni, privazioni alimentari e isolamento forzato.

Dal 1967, anno dell’inizio dell’occupazione israeliana dei territori palestinesi, Israele ha imprigionato quasi 800mila palestinesi, ovvero circa il 20% della popolazione e il 40% degli uomini palestinesi, il che significa che non esiste famiglia palestinese in cui uno dei suoi membri non abbia vissuto l’esperienza della prigionia.

B’Tselem descrive il sistema carcerario israeliano come uno strumento che deumanizza i palestinesi, trasformandoli in un blocco omogeneo senza volti né identità individuali. Secondo l’organizzazione, questa disumanizzazione serve a giustificare l’oppressione e la violazione dei diritti fondamentali dei detenuti, rendendo il carcere una delle manifestazioni più estreme e brutali del controllo israeliano sui palestinesi.

La crisi dei diritti umani nei territori illegalmente occupati da Israele è in costante aumento. Con la morte di Zahir, il totale dei prigionieri palestinesi deceduti dal 7 ottobre 2024 è arrivato a 23, rendendo questo periodo uno dei più tragici nella storia del movimento dei prigionieri. Nel frattempo il numero complessivo di prigionieri morti in custodia dall’inizio dell’occupazione israeliana nel 1967 ha raggiunto i 260.

Zahir Tahseen Raddad è l’ennesima vittima innocente dell’inferno che si vive quotidianamente nelle prigioni israeliane. Un altro nome aggiunto alla macabra lista dei prigionieri torturati, umiliati e infine uccisi, in un modo o nell’altro, nel conflitto israelo-palestinese.

In quei luoghi dove la speranza muore sotto il peso della violenza e il silenzio della disumanizzazione, la sua morte si trasforma in una protesta inarrestabile. È un poema di resistenza, un richiamo a ricordare non solo la forza, ma anche la crudeltà con cui viene annientata la dignità umana.

L’autore: Andrea Umbrello è direttore editoriale & Founder di Ultimavoce