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Boccia Gate. E l’egemonia di destra da b-movie

Gennaro Sangiuliano, foto di Marioluca Bariona

Mercoledì 4 settembre i fan di Temptation Island devono aver pensato che il loro
programma preferito avesse traslocato dalle reti Mediaset addirittura al Tg1, sulla
principale rete della Tv pubblica italiana.
Alle 20:30, infatti, iniziavano ben 17 minuti di intervista del direttore del Tg1 al ministro
della Cultura Gennaro Sangiuliano (già direttore del Tg2, carica ricoperta fino alle elezioni politiche del 2022 in quota ultradestra) che confessava tra le lacrime – forse vere, forse fake – di aver avuto una relazione extraconiugale con Maria Rosaria Boccia, la donna che il 26 agosto aveva affermato sui social di aver ricevuto dal ministro l’incarico di «consigliere per i Grandi Eventi».
È quindi con un semplice post social che scoppia il gossip dell’estate. Alle 13:33 del 26 agosto Maria Rosaria Boccia è ancora un’illustre sconosciuta. Le cose stanno per cambiare. È a quell’ora che su Facebook e Instagram scrive: «Grazie al ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano per la nomina a consigliere per i Grandi Eventi».
Un’ora prima, si scoprirà poi (il documento è stato mostrato durante l’intervista al Tg1), il
ministro Sangiuliano aveva inviato una mail a un suo collaboratore. Sono le 12:31 del 26
agosto: «In merito alla nomina a consigliere a titolo gratuito della dottoressa Maria Rosaria
Boccia accogliendo le perplessità circa potenziali situazioni di conflitto di interesse ti prego
di non procedere al riguardo e di non perfezionare gli atti. Dunque, la nomina non esiste».
Il sito di gossip Dagospia alle 18:20 pubblica un post intitolato: «Chi è e soprattutto chi si
crede di essere la bombastica 41enne nativa di Pompei che annuncia su Instagram la sua
nomina a consigliere». Lo stesso sito riporta che il portavoce del ministro Sangiuliano
avrebbe smentito: «Notizia falsa…, mai stata nominata consigliere del ministro».
«Quella nomina non esiste, la dottoressa Boccia cerca di accreditarsi senza averne
motivo», fanno poi sapere dallo staffa del ministro.

La smentita, come sa chiunque faccia giornalismo, è una doppia notizia.
Così Maria Rosaria Boccia diviene repentinamente un personaggio pubblico, un nome
che circola sulle bocche di giornalisti, addetti ai lavori e, sempre più rapidamente, su
quelle di comuni cittadini. Le ricerche sul suo conto si moltiplicano. Si scorrono i suoi profili
social, i media cominciano a pubblicare le numerosissime foto scattare in occasione di
incontri pubblici presenziati insieme al ministro Sangiuliano.
È scoppiato il Boccia-Gate. Veniamo così a sapere che per tutta l’estate Sangiuliano ha fatto il giro d’Italia accompagnato da Maria Rosaria Boccia. Non c’era appuntamento cui lei mancasse: festival, musei, cerimonie, ma anche pranzi e ombrelloni al mare. Occasioni ufficiali, riunioni di lavoro ma anche momenti di svago e relax. Sanremo, Taormina, Polignano, Rimini, Milano. E poi Pompei. La sua città. Quella che, peraltro, dovrebbe ospitare alcuni passaggi dell’imminente G7 Cultura. Cominciano ad affiorare le prime domande. In virtù di quale incarico Boccia ha accompagnato il ministro? Sono stati spesi soldi pubblici per lei in assenza di incarichi ufficiali? È stata messa a parte di informazioni
riservate e/o sensibili? Sangiuliano giura e spergiura – per ultimo nell’intervista al Tg1 – che non è stato speso denaro dei cittadini: «Mai pagato nemmeno un caffè a Boccia». Lei, però, risponde: «Mai pagato nulla, mi è sempre stato detto che il MiC rimborsava le spese» (nell’intervista al Tg1 Sangiuliano affermerà poi di aver provveduto con la propria carta di credito personale a pagare le spese sostenute da Boccia). È lo schema che caratterizza fin dall’inizio l’intera vicenda: il ministro parla, spiega, soprattutto nega; Boccia risponde sul suo instagram smentendo la versione di Sangiuliano. Più Sangiuliano cerca di prendere le distanze, di minimizzare il ruolo svolto da Boccia negli ultimi mesi, più lei pubblica sul suo Instagram. Centellina foto che hanno l’obiettivo di dimostrare la sua organicità al ministero e la sua vicinanza al ministro. Insinuando il dubbio in chi le guarda, che ce ne possano essere molte altre, anche più imbarazzanti per il ministro. E il sito di gossip Dagospia fa il suo lavoro, cioè fa gossip. Mostra che quando Sangiuliano è in compagnia di Boccia non indossa la fede nuziale.

La storia assume i contorni di una commedia all’italiana. Presto, però, si passa a un altro genere e l’intrigo diventa una sorta di spy-story. Al confine, però, con la farsa. L’attenzione si sposta dalla “relazione affettiva” extraconiugale di Sangiuliano alla possibilità che il ministro abbia permesso a Boccia di venire al corrente di informazioni
riservate. Al centro dell’attenzione è soprattutto il prossimo G7 Cultura, che si terrà dal 18 settembre tra Napoli e Pompei (a questo punto è in forse). Sangiuliano afferma che Boccia non ha avuto accesso a documenti riservati. Lei replica. È lunedì 2 settembre. Mentre sulla TV berlusconiana Rete 4 (rete chiave per comprendere l’ascesa dell’ultradestra in Italia) va in onda un’intervista a Giorgia Meloni che ripete le rassicurazioni ricevute da Sangiuliano, Boccia invia a un altro programma Televisivo – In Onda, sul La7, di proprietà di Urbano Cairo, editore anche del principale quotidiano italiano, il Corriere della Sera – la notizia che a breve avrebbe pubblicato sul suo account informazioni interessanti. Sul suo profilo Instagram compaiono due fogli sui quali si distingue l’intestazione del G7.
Boccia però non si ferma qui. Anzi, in un crescendo degno di miglior thriller, diffonde una
mail ricevuta il 10 luglio dal ministero della Cultura in cui si legge della sua “nomina” a
“Consigliere del Ministro per i grandi Eventi”. Ancora: l’audio di una telefonata intercorsa
col funzionario del Gabinetto di Sangiuliano.
Dunque Boccia registrava le telefonate.
Non solo. Ci sono infatti video all’interno del Parlamento italiano che Boccia sostiene di
aver registrato con una telecamera nascosta negli occhiali. Illegale o meno che fosse – dal
2002 è fatto divieto di realizzare video all’interno del Parlamento senza previa
autorizzazione – il mistero della spy story si infittisce. Boccia è forse in possesso di video di conversazioni politiche compromettenti per il ministro Sangiuliano?
Nell’intervista al Tg1 Sangiuliano afferma “non sono ricattabile”. Sarà vero? A Meloni non
resta che sperarlo. Ma chi può dirsi sicuro di quest’affermazione?
1. Quello che però emerge è che difficilmente qualcuno metterebbe onestamente la mano
sul fuoco sull’affermazione del Ministro. Perché ciò che è in crisi, al di là del suo ruolo, è la
sua stessa credibilità. In politica la credibilità è una delle risorse chiave. Difficile da costruire, facilissima da bruciare e quasi impossibile da ricostruire. Sangiuliano è oggi
poco credibile non perché abbia avuto un’amante quanto perché nella sostanza ha
mentito. Ha provato a negare, a nascondere, a minimizzare. Solo perché messo alle
strette dalla situazione che si è creata, ha “confessato” nel corso dell’intervista al Tg1 (con
domande presumibilmente concordate col direttore meloniano Chiocci).
2. Non è un caso che l’intervista al Tg1 abbia spostato l’attenzione dal piano delle
questioni più politiche richiamate sopra al gossip alla Temptation Island: moglie, amore,
tradimento, amante. Sangiuliano andava mostrato nella sua fragilità di essere umano
“normale”, con le “normali” debolezze di tutte e tutti noi. Lo scopo era creare, se non
un’identificazione, quanto meno una disponibilità al perdono di fronte alle lacrime versate
quando ha nominato la persona più importante, una persona “eccezionale”, la moglie.
3. Proprio sull’intervista del Tg1 le opposizioni giustamente incalzano. Perché la
grammatica istituzionale vorrebbe che un ministro riferisse in Parlamento e non in TV –
per di più non davanti a un direttore di telegiornale politicamente vicino all’ultradestra, da
cui è stato nominato per quell’incarico. È TeleMeloni all’ennesima potenza. La TV pubblica
piegata nuovamente agli interessi privati. Non tanto e non solo di Sangiuliano, quanto di
tutta la sua parte politica, che è quella che oggi gestisce la RAI. Altrettanto vero, però, che
le regole della comunicazione della società in cui viviamo prevedono la rapidità. Il Boccia-
Gate è scoppiato il 26 agosto, l’intervista del TG1 è del 4 settembre; 8 giorni possono
essere un’eternità, figuriamoci i tempi istituzionali, necessariamente più lenti. Si può
protestare perché sta cambiando (è già cambiato) l’equilibrio di poteri, ma è un po’ come
un abbaiare alla luna.
4. La reazione di una parte dell’opposizione, politica e non solo, evidenzia – se ancora ce
ne fosse bisogno – un’attitudine che dire snob è dir poco. In particolare dall’area
dell’estremo centro liberista, si contrappone l’estrema attenzione che sta ricevendo il
Boccia-Gate con quella relativamente scarsa di cui è oggetto il rapporto sulla competitività
stilato da Draghi su incarico della Commissione Europea di Ursula von der Leyen.

Che il potere mediatico pratichi la distrazione, indirizzando attenzione e interesse per temi
comodi al potere politico ed economico non è affatto una novità. Ogni giorno ci sono 4
morti ammazzati sul lavoro, per dirne una, e mai è notizia da prima pagina. La costruzione
dell’agenda del Paese è uno dei poteri più significativi dei media. Ma l’estremo centro
liberista palesa il suo disprezzo per il “popolo bue” (quello che va da parrucchieri ed
estetiste, come qualcuno ha scritto su X) e invoca il potere di presunte élite politico-
intellettuali. Che, guarda caso, sono quelle che loro identificano con la modernità:
europeiste, atlantiste, belliciste, liberiste.
C’è stato poi l’ex direttore del Corriere della Sera e attuale membro dell’Aspen Institute
Italia, Paolo Mieli, che ha definito Maria Rosaria Boccia, una “pompeiana esperta”.
Utilizzando la provenienza di Boccia (Pompei) e l’illazione secondo cui avrebbe praticato
l’arte della fellatio (in italiano si usa il termine “pompino”, “pompinara”), Mieli si è prodotto
in un gioco di parole che ben esprime il sessismo e il machismo dell’élite culturale del
Paese.
5. Se oggi tra i ministri del governo Meloni Sangiuliano è quello più vicino alle dimissioni (o
a essere dimissionato) è perché il Boccia-Gate tocca nervi scoperti nell’ultradestra di
governo. Quando il ministro dell’Agricoltura Lollobrigida affermò che non possiamo arrenderci all’idea della sostituzione etnica  come un qualsiasi suprematista e/o cospirazionista, non ci sono stati particolari imbarazzi. Perché, al di là dell’espressione utilizzata, il concetto esprime posizioni tutt’altro che lontane dalle linee politiche dell’ultradestra. Quando i dipendenti della Visibilia Editore e della Visibilia Concessionaria, società all’epoca riconducibili all’attuale Ministra del Turismo Santanché, hanno testimoniato di aver continuato a lavorare in smart working all’epoca del Covid malgrado le aziende
stessero usufruendo dei soldi pubblici previsti da un ammortizzatore sociale (la Cassa
Integrazione Covid a zero ore) per usufruire del quale, invece, avrebbero dovuto essere a casa per lavora c’è stato qualche tentennamento e poco più.
L’ultradestra di governo è espressione di una cultura in cui l’imprenditore è un eroe
vessato dai lacci e lacciuoli dello Stato, nonché dal sindacato. Se quindi infrange qualche
legge, in fondo lo fa per difendersi ed è sempre giustificato. È la stessa cultura che ha
portato Meloni a parlare delle tasse come “pizzo di Stato”.
Cos’è che rende invece più precaria la posizione di Sangiuliano? Se è vero che la
“famiglia tradizionale” fondata sulla relazione esclusiva e indissolubile tra uomo e donna,
sancita dal matrimonio, invocata di continuo è un riferimento quasi mitologico e sicuramnte
astratto – perché non c’è nulla di più tradizionale di una famiglia in cui giochi un ruolo
anche l’amante, purché non emerga alla luce del sole – è altrettanto vero questo
comportamento ormai pubblico di Sangiuliano può cozzare con l’universo culturale e
valoriale di settori sociali che sostengono l’ultradestra.
6. Per il momento Giorgia Meloni ha rifiutato le dimissioni offerte da Sangiuliano e l’ha
invitato ad andare avanti. Dalle opposizioni sostengono sia per timore di un rimpasto di
governo che sarebbe il via libera agli appetiti di Lega e Forza Italia. Potrebbe però esserci
un altro motivo. Meloni ha sempre dimostrato di proteggere il ristretto gruppo di persone di
cui si circonda. Una sorta di cerchio magico da difendere a ogni costo, perché il suo
sgretolamento equivarrebbe a uno sgretolamento della base dell’organizzazione del
potere istituzionale dell’ultradestra.
Meloni sa bene che in tempi di comunicazione istantanea spesso assistiamo a tempeste in
un bicchier d’acqua, che passano rapidamente senza lasciare particolari strascichi.
Almeno è la sua speranza.

L’autore: Giuliano Granato è portavoce di Potere al popolo, questo articolo è stato pubblicato in collaborazione con Canal red diretto da Pablo Iglesias

In foto il ministro Gennaro Sangiuliano. Foto di Marioluca Bariona

Francesca Pirani: «Storia di Vakhim e di affetti tra due mondi lontani»

Viene presentato il 6 settembre alle Notti Veneziane, sezione collaterale delle Giornate degli Autori, in collaborazione con Isola Edipo, Vakhim di Francesca Pirani. Prodotto da Luca Criscenti per Land Comunicazioni, in collaborazione con Valeria Adilardi, il documentario con musiche di Tony Carnevale, è stato anche tra i 20 progetti selezionati (tra i 150 candidati) a partecipare al Pitching Forum, nell’ambito dell’undicesima edizione di Bio to B – Industry Days 2024, che si è tenuto a Bologna lo scorso giugno.
Abbiamo incontrato, per l’occasione, la regista, e le abbiamo chiesto di raccontarci la nascita e lo sviluppo di questo progetto che parte da lontano, dalla prima immagine di Vakhim, «un bambino dalla maglietta gialla stretto al collo di uno dei ragazzi più grandi dell’Istituto dei bambini poveri di Phnon Penh» in Cambogia. Era novembre 2008, e Vakhim aveva quattro anni.

Francesca, come nasce l’idea del film?
Il film nasce dalla straordinaria quantità di girato a disposizione, e dalle richieste di amici e di addetti ai lavori che, conoscendo il materiale e la storia di Vakhim, mi hanno sollecitata a farne un film. Il girato, la cui finalità non era quella di realizzare un film su mio figlio – tra l’altro non nasco documentarista -, ha rappresentato sia la possibilità di comporre una memoria dei momenti più importanti della vita di Vakhim, sia l’esigenza che restasse una traccia della sua lingua madre, ossia lo khmer, che sapevo sarebbe svanita nel giro di pochi mesi. A differenza delle emozioni fortissime dei primi mesi, dei primi anni di vita che, invece, permangono. L’amore di Vakhim per la madre, il proprio nome legato al suono della sua voce, a lei che per prima glielo ha sussurrato, fondendolo per sempre alle prime carezze, al primo latte. Salvare una parte della storia di Vakhim è stato essenziale, e ritrovare i suoi fratelli ha significato anche impedire che tutto fosse perduto, che la propria memoria – e con essa i suoi affetti -, potesse essere distrutta. Mi piaceva anche l’idea che, da grande, mio figlio avrebbe potuto fare una ricerca sulla sua storia attraverso quelle immagini e quella lingua.

Francesca Pirani, regista e sceneggiatrice

Qual è stato il fattore determinante che ha sollecitato l’atto creativo, la scrittura, e che ti ha permesso di trasformare il vissuto in racconto cinematografico?
Una ulteriore spinta alla realizzazione del film è arrivata da un’amica scrittrice e sceneggiatrice, Silvia Cossu, che mi esortava a partecipare al Premio Solinas: era il 2019 e io mi stavo occupando di tutt’altro, stavo scrivendo dei testi per il teatro. Poi, di getto, a maggio 2019, ho scritto la storia di quello che sarebbe poi diventato il film e, incredibilmente, mi hanno selezionata per la sezione documentari. A settembre di quello stesso anno, a La Maddalena, ero tra i cinque finalisti. Il progetto non vinse, di fatto non era ancora del tutto delineata la fase di un processo compiuto che andasse oltre l’idea che avevo candidato al Premio. Ma è iniziato tutto da lì. In seguito, durante il periodo del lockdown, ho scritto la sceneggiatura, cercando di pensare, di comporre, non senza difficoltà, il seguito di questa storia.

Cosa ti premeva raccontare, in particolare, di questa storia?
Cosa mi premeva raccontare era abbastanza chiaro, fin dall’inizio, e, soprattutto, sapevo cosa non volevo fare. Non volevo realizzare interviste, non volevo raccontare la storia della famiglia e tutto il resto in maniera realistica, anche perché non è un registro che mi appartiene. L’idea era quindi quella di lavorare sulle immagini che avevo, che erano moltissime, e di poterle fondere con nuove riprese. Sono nati, così, dei primi tentativi, realizzati mediante l’utilizzo di alcune immagini di repertorio prese in rete evocative della Cambogia, che ho integrato con il materiale personale che avevo a disposizione, per farlo visionare ai produttori. Questa composizione di immagini aveva la capacità di creare un’emozione, raccontando la storia di Vakhim, i primi mesi in Italia, e al tempo stesso i suoi ricordi. Ho, dunque, cercato di costruire un doppio livello temporale, e di lavorare in una direzione ben precisa che mi permettesse di realizzare un racconto che non sembrasse ricostruito, finto.

Una immagine del docufilm “Vakhim”

In una scena del film, durante il viaggio dalla Cambogia verso l’Italia, la voce narrante, la tua, racconta di questa particolare sensazione che accompagna solitamente il rientro a casa dopo una vacanza estiva. E, invece, per Vakhim era il punto di non ritorno…
Il tema che volevo venisse fuori dal film non era solo la storia privata di Vakhim, ma volevo anche raccontare qualcosa che portasse dietro di sé un’eco un po’ più ampia, ponendo in risalto la questione delle madri cambogiane reclutate per le adozioni e, soprattutto, il tema della separazione. Che cosa accade a un essere umano che perde tutto il suo mondo? Cosa significava, da un giorno all’altro, perdere la propria madre, il proprio villaggio, la propria lingua, i fratelli, e tutti i sapori e gli odori di quei luoghi? È possibile ricominciare da quel ‘punto di non ritorno’? Dopo circa sei, sette mesi, siamo riusciti a ritrovare la sorellina maggiore Maklin, – che viveva a Riccione con un’altra famiglia adottiva -, e al telefono parlavano già l’italiano. Avviene, cioè, una cosa incredibile: se aderisci a questo mondo, sparisce l’altro. Fare della separazione il tema centrale è stato sempre il nucleo fondante la storia, poiché rappresentava il tema più universale. Le persone che arrivano con i barconi e si lasciano alle spalle la loro terra, la loro storia, ma anche le grandi separazioni nelle grandi storie d’amore, i lutti: ogni volta, sembra avvenire qualcosa di irreversibile.

La tematica, fondante, della separazione ha ispirato anche la tua opera prima, L’appartamento?
L’appartamento è un film d’esordio che non nasceva da un mio soggetto e che trattava il tema, allora assolutamente nuovo, dell’immigrazione in Italia. I protagonisti erano un ragazzo egiziano e una ragazza fuggita da Mostar, dagli orrori della guerra. Il taglio del film non era sociale, ma affrontava il tema con uno sguardo rivolto al modo diverso di separarsi dal proprio mondo: il ragazzo, padre di una bambina di pochi mesi, nonostante le difficoltà, era riuscito a conservare un rapporto affettivo con il suo Paese e il suo passato, mentre la giovane bosniaca aveva cancellato tutto dalla propria memoria, diventando depressa e raggelata. Il loro incontro produce una crisi nella ragazza e un’apertura inattesa che prelude alla possibilità di una sua rinascita. Infatti nel finale del film il ragazzo, costretto dagli eventi, affida la propria bambina a quella ragazza appena conosciuta, la quale si trova a farsene carico, ad ‘adottarla’. Mi rendo conto solo adesso che il tema di come si possono affrontare le separazioni è un elemento ricorrente nelle mie storie, e che incredibilmente è passato dal cinema alla realtà della mia vita. Sono trascorsi dieci anni tra quel film e la decisione di adottare un bambino in un Paese lontano e poi ancora altri dieci prima di pensare di raccontare la storia di Vakhim. Tornando al presente posso dire di non aver mai avuto paura del passato di mio figlio, ma l’idea che Vakhim potesse rimanere impigliato fra due mondi mi ha spinta, fin da subito, a cercare di rimanere aperta ai segnali che inviava. E ne inviava tanti, ma avrei potuto ignorarli: il nome che ripeteva, ‘Mali’ rivelatosi poi quello di sua sorella Maklin, i disegni, i sogni, e poi quei momenti in cui accennava la sensazione che gli mancasse ‘qualcosa nella testa’ o la paura che col tempo non avrebbe più saputo riconoscere sua madre.

Una immagine del docufilm “Vakhim”

Cosa ha significato, per te, intrecciare arte e vita?
Ho dedicato a questo progetto tutto il mio tempo, dal momento in cui ho deciso di realizzarlo. Ho visto moltissimi documentari di una scuola di filmmakers fondata dal regista cambogiano Rithy Panh. Sono tantissimi piccoli documentari – le cui storie si svolgono tutte nelle campagne -, realizzati da questi giovani studenti che sono stati poi messi in rete. È stato potente accedere a quel mondo da cui proveniva Vakhim.
All’inizio l’idea del film includeva molte scene di vita, ma poi ho immaginato, in fase di sceneggiatura, anche come poter realizzare delle immagini basate sulle memorie, sui ricordi di Vakhim e di sua sorella Maklin. Tuttavia, rimandavo questo momento perché aveva a che fare sempre con il vissuto. In seguito, dopo varie vicissitudini produttive, per me è stata importante la certezza che non fosse un documentario canonico.
Fin dall’inizio, è stata una grande avventura. Non avevo ancora la piena consapevolezza della compiutezza del progetto che, come diceva la mia amica che mi aveva esortata a candidarlo al Premio Solinas, avevo già dentro. Anche quando siamo in Cambogia e c’è questo piccolo ‘giallo’ sulla ricerca della madre, niente è stato costruito a tavolino, giorno dopo giorno scoprivamo dettagli in più e filmavamo le nostre scoperte.
L’idea è stata quella di raccontare il primo anno insieme, e solo successivamente, dopo l’arrivo delle lettere della madre di Vakhim, che non lo aveva mai dimenticato e chiedeva sue notizie, ho deciso di raccontare quell’evento sopraggiunto proprio alla soglia dell’adolescenza di mio figlio. Poi, cinque anni dopo, la partenza per la Cambogia. Qui, durante le riprese, abbiamo voluto evitare di raccontare il set per non inserire all’interno del racconto un ulteriore piano narrativo, perché ci sembrava un elemento di metalinguaggio che avrebbe raffreddato il tutto. Volevamo rimanere nella storia, nel racconto, senza che nulla divenisse esplicativo o didascalico, ma scoprendo le cose a poco a poco attraverso le immagini e la voce narrante.

Quando è avvenuto il ritorno in Cambogia, dopo il primo incontro con Vakhim, dopo questa prima evocativa immagine di lui, a quattro anni, che apre il film?
Siamo andati in Cambogia con un mio amico e collega, Stefano Viali, per i sopralluoghi e il casting, a febbraio dello scorso anno, quando abbiamo individuato la famiglia di contadini che si è poi prestata a far parte del film per rappresentare alcuni momenti dell’infanzia di Vakhim e i suoi fratelli. Le riprese sono poi state realizzate ad agosto dello stesso anno.

Com’è stata concepita la composizione del film, nel fondere le immagini di archivio con quelle girate in Cambogia?
L’intento è stato quello di introdurre sin da subito questo linguaggio, mescolando le immagini di archivio con quelle ricostruite. Riuscire, così, in qualche modo, a rappresentare le immagini che Vakhim aveva dentro di sé. E poi, andando in Cambogia, è stato possibile ampliare questo linguaggio, raccontare di Vakhim, ma anche di tutti gli altri bambini e bambine che hanno condiviso con lui una medesima storia.
Abbiamo voluto creare un linguaggio in cui si passasse senza soluzione di continuità dal presente al passato, dalla realtà del momento all’incursione di un ricordo. I bambini cambogiani che interpretavano Vakhim e Maklin piccoli giocavano con i veri protagonisti della storia, per poi farsi da parte e lasciare spazio alla rappresentazione. Ad esempio quando viene evocato il ricordo di Maklin del parto di sua madre e della nascita del fratellino, lei entra improvvisamente in campo e alla fine della scena socchiude gli occhi, come a suggerire che le immagini viste siano una sua rievocazione. Non concepite come delle immagini separate, ma come immagini che si nutrono della stessa storia. Vediamo, ad esempio, il ricordo del campo di farfalle, delle sanguisughe, di Vakhim che porta al pascolo la mucca. Tante piccole ricostruzioni che vengono mescolate con il repertorio.
La storia intima, privatissima, di Vakhim e dell’incontro con lui, viene intrecciata anche alla storia internazionale delle adozioni. C’era l’idea che comunque non si potesse tacere questa storia delle adozioni internazionali. Quando cominciano ad arrivare queste lettere da parte della madre – era il 2017 e Vakhim aveva tredici anni -, abbiamo iniziato a scoprire lo scandalo delle adozioni in Cambogia, diventato in poco tempo un caso internazionale. Madri analfabete costrette a sottoscrivere documenti di formalizzazione dell’abbandono dei propri figli, di cui pensavano avrebbero sempre potuto ricevere notizie.
Oltre al livello privato, ce n’è un altro, quello sociale, gravissimo, drammatico, che è il rapporto che lega l’Occidente con i Paesi cosiddetti del Terzo mondo. Una questione che merita anche un ulteriore tipo di approfondimento. Pur non raccontando tutti i particolari di queste storie, l’intento è comunque quello di restituire una verità più profonda del dramma sociale, cosa significa essere strappati alla propria storia.

Una immagine del docufilm “Vakhim”

Quando hai scelto di essere anche la voce narrante del film?
Subito, perché questo mi permetteva di rimanere il più possibile fuori dal campo visivo. La voce narrante è un personaggio del film, rappresenta sia il mio sguardo che la storia di una madre che vive la storia di suo figlio. Per il Premio Solinas la voce narrante era stata pensata in prima persona, rivolta a Vakhim, come fosse una lettera indirizzata a lui. Poi alla fine, con Nicola Moruzzi il montatore del film, che è anche un regista, l’abbiamo ripensata in terza persona, come fosse un diario. E volevamo che non avesse una funzione anticipatrice degli eventi (nella seconda parte del film ciò non sarebbe stato comunque possibile perché vediamo e scopriamo le cose mentre accadono). Tuttavia, anche nella prima parte si è cercato di procedere insieme con lo spettatore in questa scoperta, per porsi nelle condizioni di ripercorrere quei momenti per come te li stavi vivendo lì, e quindi nell’inconsapevolezza. Questo ha permesso di andare fino in fondo alla storia e all’intento che ci si era prefissati.

Quando Vakhim è stato presentato al Premio Solinas, il titolo del progetto era La lingua salvata. Ci racconti perché?
Mi piaceva questo titolo, che è il titolo di un libro di Elias Canetti, La lingua salvata. Storia di una giovinezza. Allo stesso tempo, mi riecheggiava questa storia della lingua madre, l’idea che nel primo anno di vita ci sia questa fusione tra il linguaggio e lo sviluppo. Poi, durante un incontro casuale a una festa di compleanno, lo psichiatra Massimo Fagioli disse a me e Simone, il mio compagno, dell’importanza che Vakhim, che era arrivato da pochi mesi in Italia, non perdesse la lingua madre. Purtroppo da noi non esiste un’ambasciata cambogiana né vi sono università che insegnano lo khmer.
Tuttavia, questa necessità di non perdere la lingua madre è diventata motivo di ricerca. Come si può non perdere la lingua madre? Come è possibile ‘ricrearla’? Trovare la sorella di Vakhim, farli rincontrare è stato fondamentale per questa ricerca. È stata una vera e propria conquista, anche perché Maklin, essendo la sorella maggiore, ha più ricordi della loro primissima infanzia, ed è sempre stata molto brava a tenere il filo del rapporto. Sono rimasti insieme, nell’Istituto dove la loro madre li aveva portati, per dieci mesi, fino a settembre quando lei è andata via. Il nostro incontro con Vakhim, invece, è avvenuto a dicembre. Oggi, Maklin ha deciso di venire a studiare a Roma, dove vive suo fratello Vakhim, mantenendo saldo e costante questo loro importantissimo rapporto.

 

Macron e il ritornello del “meno peggio”

Emanuel Macron, qui da noi ritenuto da alcuni un luminare della politica, ha dimostrato in un sol colpo la naturale propensione di certi liberali, anche nostrani: fingere di voler sconfiggere la destra per mangiarsi voti a sinistra e infine governare con la destra con i voti incauti di chi ha creduto di concorrere all’altra parte della barricata.

Il fronte popolare che il presidente francese aveva evocato per arginare Marine Le Pen e il suo Rassemblemente National ha partorito Michel Barnier, esponente politico di destra di lungo corso, ex ministro degli Esteri ed ex Alto commissario europeo. 

Il più anziano primo ministro nella storia della quinta repubblica francese (Barnier ha 73 anni) prende il timone in nome di “un governo di unificazione al servizio del Paese e dei francesi”, perifrasi che rimanda quasi sempre ad alchimie politiciste. 

Il Nuovo fronte popolare, la coalizione di sinistra che aveva ottenuto il maggior numero di seggi alle ultime elezioni (pur restando molto lontana dalla maggioranza assoluta), rimane fuori dai giochi e promette battaglia. I macroniani di Renaissance (forti del loro misero risultato) accusano i socialisti di avere aperto la strada alla destra non appoggiando Bernard Cazeneuve. I liberali che accusano il centrosinistra di avere aperto la strada alla destra abbracciata dal loro leader è un antipatico vizio anche al di là delle Alpi. 

Chissà che ne pensano i commentatori italiani che si sono sbellicati applaudendo il “capolavoro politico” del presidente francese che – a detta loro – avrebbe dovuto disinnescare Le Pen. Ora diranno che la soluzione è la “meno peggio”. E il meno peggio è il viatico migliore per il peggio, sempre. 

Buon venerdì. 

In foto il manifesto lanciato dalla France Insoumise che invoca le dimissioni di Macron

L’invasione delle graffette e altri miti

Come accadde per la legge europea per la protezione dei dati personali, il Digital market act, approvato dal Parlamento europeo nel marzo scorso, sta generando attriti tra la Commissione europea e le imprese del settore. La Apple, infatti, ha annunciato che al momento, a causa di quelle norme, alcune funzioni non potranno essere disponibili per gli europei, che ne verranno penalizzati. Il conflitto è in corso e sembra destinato ad accentuarsi: da un lato vi sono minacce e pressioni per una diffusione più accelerata di queste tecnologie, dall’altro, da tempo, vi sono profonde preoccupazioni sui rischi sociali che esse possono generare. Un filosofo molto ascoltato negli ambienti della Silicon Valley, Nick Bostrom, ha addirittura ipotizzato che un algoritmo programmato per massimizzare la produzione di graffette potrebbe ricoprire l’intero pianeta di graffette, conducendo all’estinzione della nostra specie. Tesi insostenibile, certo, che però coglie un punto: affidare scelte economiche e sociali alle macchine può essere disastroso.
Purtroppo una macchina programmata per sfruttare ogni opportunità offerta dal mondo circostante, priva di remore morali e di rispetto della vita umana, è già qui e condiziona ogni aspetto della nostra vita. È la società per azioni. Ciò che è pericoloso, pertanto, non è la tecnica, ma una tecnica potentissima posta al servizio di grandi corporations che hanno come obiettivo non certo la massima produzione di graffette, ma il massimo profitto.
Un po’ di storia è sempre utile per focalizzare l’enormità della posta in gioco. Il punto di partenza per ricostruire come tale macchina sia stata costruita può essere individuato nel principio della responsabilità limitata, che tanti dibattiti ha suscitato nell’Ottocento. Con esso proprietari e azionisti che formano una società a responsabilità limitata sono responsabili solo con il capitale investito, lasciando i costi di un eventuale fallimento sulle spalle dei creditori. Al tempo quello che è ormai un principio giuridico consolidato trovò molti oppositori: essi sottolineavano che il principio basilare della responsabilità personale nella condotta degli affari non poteva essere abbandonato; i suoi sostenitori ritenevano invece che l’investitore non dovesse rispondere col suo patrimonio per la condotta di un’impresa di cui possedeva solo una parte. Prevalse l’idea che il benessere collettivo fosse favorito se si facilitavano gli investimenti, e il principio della responsabilità limitata è divenuto il cardine di ogni ordinamento.
Nel secolo successivo si pose il problema se una società dovesse o meno operare nell’esclusivo interesse degli azionisti. Nel 1914 Henry Ford decise di portare da 2,89 a 5 dollari l’ora il salario dei suoi operai. In seguito, piuttosto che distribuire dividendi straordinari, stabilì una riduzione dei prezzi del Modello T e un aumento degli investimenti. La sua idea era che i benefici dell’industrializzazione dovessero diffondersi nella società e non solo portare all’aumento dei già ingenti profitti degli azionisti. Egli fu citato in giudizio dagli azionisti di minoranza, e nel 1919, con una decisione che fece storia, il tribunale stabilì che il dovere di ogni società è di operare nell’interesse degli azionisti, escludendo ogni altra motivazione. La macchina disumana era pronta: con la responsabilità limitata gli azionisti sono responsabili solo per la quota investita nell’impresa; col principio della massimizzazione del valore per gli azionisti, conta solo l’interesse dei proprietari.

Antonello Pasini: «Il clima riguarda tutti, i politici ascoltino gli scienziati»

Come cambia il clima e come dobbiamo cambiare noi? Sono gli interrogativi cruciali di questi nostri tempi ed è anche il tema della conferenza che Antonello Pasini, fisico climatologo del Cnr e docente di Fisica del clima all’università Roma Tre, tiene al festival Con-vivere a Carrara il 7 settembre. Pasini è molto impegnato nella divulgazione scientifica ed è autore di saggi sulla crisi climatica, tra cui L’equazione dei disastri: cambiamenti climatici su territori fragili (Codice edizioni). Lo abbiamo intervistato.

Antonello Pasini

Professor Pasini, nel libro lei evidenzia che una delle cause del negazionismo climatico e dell’atteggiamento di chi minimizza in buona fede l’impatto dei cambiamenti climatici è la scarsa cultura scientifica in Italia e in primis un equivoco alla base tra i concetti di clima e meteo. Ci può spiegare meglio?
Molte persone tendono a interpretare cosa succede senza nessuna cultura scientifica, si tende a generalizzare e a far coincidere le proprie esperienze particolari con una tendenza generale di lungo periodo, incappando così in un forte bias cognitivo. Questo non va bene. Il clima ha una sua variabilità naturale, per cui ci può essere un anno più caldo o un anno più freddo, un’estate più calda o una più fredda. Ma quello che bisogna andare a vedere è la tendenza di lungo periodo, perché è su questa variabile che si misura il cambiamento climatico.
Quindi una volta gli eventi estremi erano meno frequenti?
Anche decenni fa c’erano i forti temporali, le burrasche, le ondate di calore e altri fenomeni climatici estremi, ma quanto erano più forti e quanto erano più frequenti lo si vede soltanto andando a vedere i dati. Ed è questo che facciamo noi scienziati: analizziamo il passato e riscontriamo, per esempio, che questo riscaldamento globale recente non ha precedenti storici. E questo dà un’idea di quello che sta succedendo, della gravità della situazione. Poi, certamente, ci sono quelli che dicono “Annibale ha passato le Alpi con gli elefanti”, “la Groenlandia è chiamata terra verde, allora vuol dire che una volta faceva caldo”. Ma le nostre analisi di dati in serie riscontrano come quei riscaldamenti abbiano colpito solo singole regioni del globo e siano compatibili con una variabilità naturale del clima. Il riscaldamento globale attuale colpisce il 98% della superficie terrestre nello stesso momento, è ubiquitario e sincrono. Questo vuol dire che ci dev’essere qualche elemento esterno che spinge tutto il sistema a cambiare e che contribuisce ad aumentare le temperature globali. E noi sappiamo benissimo quale sia questo elemento.

I beni culturali alla fiera delle riforme

Dal 1998 ai primi mesi del 2024 il ministero dei Beni culturali ha conosciuto 15 riforme. Mediamente una ogni anno e sei mesi. Una strabiliante e instancabile vocazione innovativa o un terribile stress? Si è trattato, in realtà, prevalentemente di faccende relative alla denominazione – ora infatti il ministero è intitolato alla Cultura e non più ai Beni culturali – oppure di questioni riguardanti gli assetti interni, dalla struttura di vertice fino alle diramazioni territoriali, cioè i musei e le soprintendenze. E dunque l’uso del termine riforma appare un po’ sproporzionato. Infatti con esso si è talvolta designato l’accorpamento di beni culturali e turismo o, al contrario, la loro separazione. È stata poi adottata la parola riforma quando si è introdotto il segretariato generale, come punto apicale della piramide, e anche quando il segretariato generale è stato abolito.
Qualcuno, tempo fa, ha parlato di “sciame normativo”, paragonando a un fenomeno sismico quel che accadeva al fragile edificio della tutela pubblica in Italia, con l’avvertenza che non di attività naturale si trattava, ma degli effetti tellurici di decisioni politiche. Qualcosa di molto simile a una riforma è accaduto però nel 2014, quando l’allora ministro Dario Franceschini, governo presieduto da Matteo Renzi, ha deciso che alcuni fra i più grandi musei e siti archeologici – gli Uffizi, Capodimonte, Brera, poi anche il Colosseo… – diventassero autonomi, si sganciassero cioè dalle soprintendenze, alle quali erano fino ad allora collegati, e acquistassero una loro personalità giuridica e istituzionale. I primi effetti si sono visti a partire dal 2015 e hanno interessato venti, quindi quaranta e infine, diventato ministro Gennaro Sangiuliano, sessanta istituti. (…)
Contemporaneamente all’istituzione dei musei autonomi un’altra riforma modifica gli assetti interni del ministero incidendo sulla struttura delle soprintendenze, alcune delle quali avevano già conosciuto modifiche riguardo alle competenze territoriali, con intere province che, facenti capo a un ufficio, si trovavano di colpo assegnate a un altro. La svolta avviene però quando si decide che in ogni regione ci sarà un’unica soprintendenza che accorpa quelle per il paesaggio, i beni architettonici, quelli storico-artistici e successivamente anche quelli archeologici (in alcune regioni, però, ci saranno anche più soprintendenze uniche). È una semplificazione? Così l’allora ministro Franceschini la promuove nelle interviste che rilascia. (…)

Alice Pasquini: «Un volto di donna per le città»

«Io spero che un giorno si arrivi alla parità, nel senso che le donne non avranno più bisogno di dimostrare nulla», dice Alice Pasquini, un’artista le cui opere figurano sulle superfici urbane, nei musei e nelle gallerie in tutto il mondo. Sono lavori che mettono al centro l’immagine femminile, perché «manca una narrazione delle donne», come dice in questa intervista in cui parla della sua formazione, delle sue idee sull’arte urbana e sul rapporto con la realtà in cui opera. Come il paese di Civitacampomarano (Campobasso) dove Alice Pasquini è la direttrice artistica del Civita CVTà Street Fest, che a giugno ha chiamato a raccolta artisti italiani e internazionali.
Alice Pasquini, com’è nata in te la scelta di diventare una street artist?
Prima del termine “street art”, che nasce attorno al 2009-2010, i lavori si chiamavano graffiti, erano “brutti e cattivi” e basta. Quanto a me, la passione per l’arte nasce molto presto, da bambina, ero convinta che fare arte, essere un pittore, fosse un lavoro. Era l’idea di società di una bambina… Però la passione è nata anni dopo in Accademia, nel senso che dopo aver fatto tutto il percorso funzionale, in teoria, per poter entrare nel mondo dell’arte, in un contesto molto più “antico” di quanto non sia adesso, la reazione al mio professore che mi diceva tutti i giorni: “l’arte è morta con Duchamp, finirete tutti a via Margutta, non troverete lavoro” mi ha portato a entrare in contatto con un’arte che per me era più vera. Quella che avevo conosciuto negli anni del liceo, quando la cultura hip-hop è arrivata in Italia, in ritardo rispetto all’America, ma che ha cambiato per noi, forse per una generazione, anche il modo di vivere la città.
In che senso?
Voleva dire, per esempio, che passavamo i nostri pomeriggi in strada, in piazza, mentre c’era chi faceva la break-dance su un pezzo di cartone con un altro che sapeva fare il suono della batteria con la voce; non c’era bisogno di andare nella migliore scuola di musica, o di danza, anzi, più eri originale, più inventavi una cosa tua, più eri tu a fare scuola per gli altri. In strada ho imparato a usare gli spray, uno strumento che nessuno mi avrebbe mai insegnato; così ho scoperto un nuovo modo di imparare l’arte, attraverso il contatto con la realtà, con il mondo. Un’arte comunque effimera, che quindi non pretendeva neanche di rimanere, ma allora per me era qualcosa di più entusiasmante, da un punto di vista artistico e personale.
Nelle sue ultime manifestazioni e tendenze la street art si è probabilmente sganciata dalla subcultura giovanile urbana, appunto, hip hop, break dance, rap, diventando una forma d’arte indipendente, a sé stante. Credi che ciò abbia giovato alla street art?
Intanto va detto che non si sa quanto la street art fosse una espressione artistica di rottura agli inizi, quando si andava a dipingere in strada senza nessuna idea da parte dei cittadini di cosa si stesse facendo. Sostanzialmente dovevi avere fegato. Oppure nel mio caso, visto che ho deciso di fare arte figurativa – perché quello era il mio background – il gap era: faccio un’arte classica in un luogo dove le persone portano i cani a spasso? Era questo il gap: la scelta dei luoghi che la città lascia abbandonati. Oggi, per i bambini, gli adolescenti – me ne rendo conto con mio nipote – è normale che ci siano dei disegni sui muri. Perché? Cos’è successo?

Lo sguardo di Nora

Ho conosciuto l’artista visiva e architetta Nora Lefa nel 2017 nell’antica capitale reale del Montenegro. Eravamo entrambi tutors all’interno di un progetto europeo Erasmus Plus rivolto a giovani provenienti da fasce deboli e svantaggiate. Fra loro vi erano soprattutto ragazze minorenni con alle spalle storie drammatiche fatte di migrazioni forzate, prostituzione, violenze, rapine, carcere. I Paesi coinvolti erano l’Italia, la Germania e, appunto, il Montenegro.
Il progetto, che sarebbe durato un anno, consisteva nel condurre un viaggio in questi Paesi, dove insieme ai partecipanti avremmo tentato di immaginare un percorso e cercato perfino di rappresentarlo attraverso il racconto, il video, la danza e il teatro.
La tappa più bella di questo viaggio avvenne in Montenegro, dove per quindici giorni, insieme al direttore del dipartimento dell’Accademia di arte drammatica di Cetinjie Edin Jasarovic, i ragazzi provenienti dai tre Paesi si incontravano, provavano, scrivevano, sotto il nostro occhio elettronico.
Nora svolgeva con loro un lavoro seducente e appassionante fatto di movimento, danza e arti sceniche. La serietà e la profondità del suo lavoro la si poteva misurare nella risposta dei ragazzi, tutti pronti a seguirla nelle sue articolazioni che puntavano a cercare una connessione profonda e personale con gli studenti, nel tentativo di liberare il potenziale di ciascuno, aiutandoli a comprendere la vera essenza di ciò che costituisce il vissuto interiore e provare a rappresentarlo attraverso gli strumenti dell’arte.
Quella scintilla, quella urgenza, quella corsa contro la perdita per far vivere i sogni profondi e le memorie più autentiche, sono l’essenza del percorso artistico di Nora Lefa, che si lega strettamente a quello umano e personale.
Dopo Cetinjie le nostre vite si sono rincontrate a Sarajevo, città in cui Nora è cresciuta – e in cui io avevo da poco finito di girare Bosnia Express -, dove ha conosciuto e gridato il suo primo amore, e da cui è fuggita allo scoppio della guerra del 1992-95, esule per lunghissimi anni prima a Creta e poi ad Atene. Riuscirà a rivedere la città bosniaca solo nel 2013.
Sarajevo è restato e resterà il suo palcoscenico reale e immaginario. Lo si vede percorrendo le sue opere, che scandiscono come episodi di un poema o atti di un dramma, la sua avventura artistica. Sarajevo è diventata per Nora, nel tempo, il luogo della memoria, della fantasia, ma allo stesso tempo il luogo reale. L’arte di Nora non si esaurisce in una galleria o in uno spazio chiuso rivolto alla contemplazione dei cultori d’arte, ma invade le strade, i muri dei palazzi martoriati dalla guerra, le piazze, i marciapiedi e perfino gli storici tram di Sarajevo.

Azar Nafisi: Cosa hanno in comune Trump e l’ayatollah…

L’arte è la più potente arma contro l’oppressione. Non a caso è il principale nemico di dittature e teocrazie. Un filo forte del pensiero lega il nuovo libro di Azar Nafisi, Leggere pericolosamente (Adelphi), ai lavori precedenti della scrittrice iraniana che da tanti anni vive esule negli Stati Uniti. Questo appassionante saggio, di cui parlerà il 23 settembre al Festival delle idee a Mestre (dopo aver ricevuto un premio a Pordenonelegge), forma una tetralogia intellettualmente sovversiva con altre sue opere come Quell’altro mondo, Leggere Lolita a Teheran e La repubblica dell’immaginazione.
«I dittatori e i tiranni odiano le idee e l’immaginazione. Le idee e l’immaginazione si oppongono alle dittature e alla tirannia perché sono conoscenze che mettono in collegamento le cose e permettono il cambiamento della realtà», risponde Nafisi a Left. «I tiranni e i dittatori odiano i cambiamenti e la libertà. Non solo: dittature e tirannidi si basano su falsità e menzogne. Ogni vera narrazione si basa su una polifonia di voci in dialogo tra di loro. Niente di più lontano da quello che succede in dittature e regimi».

Con Leggere Lolita a Teheran lei piazzò una vitale bomba intellettuale nel cuore del regime di Khomeini e fu espulsa dall’università di Teheran dove insegnava, anche perché si rifiutava di indossare il velo. Cosa pensa oggi di quella esperienza?
Con il mio Leggere Lolita ho cercato di creare uno spazio di libertà in cui si potessero leggere i libri e usare gli insegnamenti di scrittori e intellettuali senza paure di censure, punizioni, gabbie e prigionie. La consapevolezza che ne ho ricavato è che la letteratura è esattamente questo: libertà. Così come mi è capitato di conoscere l’Italia prima di venirci per la prima volta attraverso Collodi, Calvino, e ancora attraverso Antonioni, Rossellini e De Sica, così i miei allievi imparavano il mondo senza essere mai usciti dall’Iran.

Kamala Harris, “Yes, she can”

CHICAGO – «She did good», ci dice una ragazza afroamericana sui trent’anni mentre si sistema la borsa sulla spalla e se ne va dalla curva del Soldier Field, lo stadio del football di Chicago, dove l’associazione GoChiLife ha allestito un megaschermo per seguire in diretta il discorso di Kamala Harris alla Convention democratica. «È stata brava», ed è realmente soddisfatta di quello che ha visto.
In pochissime settimane, Harris è riuscita a riportare entusiasmo e gioia tra gli elettori dem, tutto quello che era mancato finché il presidente Biden era il candidato del partito. Una situazione che avrebbe potuto compromettere seriamente l’esito del voto del 5 novembre. E pensare che fino al ritiro di Joe Biden, la vicepresidente Kamala Harris era considerata l’anello debole di questa amministrazione, con indici di gradimento inferiori ai già bassi consensi del presidente.
Se è vero che c’è stato tanto entusiasmo, dentro e fuori la Convention, c’è anche chi ha contestato sia la candidatura di Harris, sia l’amministrazione dell’attuale presidente Joe Biden. Ci sono state diverse manifestazioni in concomitanza dell’evento politico più importante del Partito democratico, la più grande organizzata il giorno dell’apertura. Il tema erano la Palestina libera e la fine della guerra a Gaza. C’erano anche alcuni ragazzi delle proteste nelle università, tra cui una ragazza di Chicago (Illinois) e una di Denver (Colorado), che ci hanno raccontato come nei loro atenei la repressione della protesta sia stata abbastanza leggera, a differenza di Stati repubblicani come la Florida, dove ci hanno detto essere stati molto più severi con gli studenti che occupavano i campus. I manifestanti di lunedì 19 agosto non solo non sono entusiasti, ma probabilmente si asterranno completamente dal voto. I loro slogan sono «genocide Joe» e «killer Kamala», ma sono critici anche nei confronti di Trump. A un certo punto qualcuno sfonda le prime transenne che circondano il perimetro dello United Center, il palazzetto del basket che ospita la Convention, e la polizia lo blocca senza arrivare alla violenza. Il giorno prima c’era stata un’altra manifestazione, stavolta a tema diritti riproduttivi e aborto, e lì il clima era leggermente più fiducioso. Eppure, anche tra loro c’è chi non fa conto più di tanto sulla politica. È il caso di Jessica, per esempio, una giovane attivista afro-americana dell’associazione Plan C che sull’accesso all’interruzione di gravidanza ci dice che secondo lei è qualcosa che deve essere gestito dalle persone, dalla comunità, perché sul governo non si può fare affidamento.