Home Blog Pagina 102

Rita Marcotulli: «La mia musica nasce dall’incontro con altre culture»

La compositrice e pianista romana Rita Marcotulli è tra gli ospiti del format live ideato da Fondazione Entroterre e ispirato alla trasmissione cult” di Radio3 Rai, condotta da Luca Damiani che approda in due location del Municipio XV di Roma fino al 22 settembre nelle frazioni di Cesano e di Riva di Polline. L’abbiamo incontrata

In che modo è sta coinvolta in questo progetto di Sei Gradi e cosa ha elaborato per questa occasione del concerto che terrà il 15 settembre?

Mi ha chiamato Luca Damiani che mi ha parlato di questo programma che io non avevo mai sentito, però lho trovato molto divertente e molto stimolante… quindi ci siamo parlati, ci siamo detti un podi cose, cosa potevamo fare e, poi, comunque non rivelo più niente perché è bello che rimanga una sorpresa.

Il progetto vuole essere unoccasione di legame tra il territorio e le genti che lo abitano, in alcuni casi anche provenienti da altri luoghi lontani. In che modo la musica si fa ulteriore spazio di possibili incontri?

Ma sicuramente la musica è veramente uno dei linguaggi più universali per riuscire a comunicare con con persone anche molto diverse, diciamo da un punto di vista geografico, etnico, però ecco la potenza che ha la musica è che essendo ovviamente un messaggio, un modo di esprimere delle emozioni non preclude nessun tipo di diversità, anzi, forse la cosa proprio bella è che la musica si arricchisce e si è sempre arricchita, parlo anche anche della mia musica tipo la musica jazz che comunque nasce da una contaminazione di ritmo africano in America ma comunque di ritmo africano con armonia per esempio europea, e quello già lascia pensare come sia importante comunque la diversità, lincontro con delle culture diverse con modi diversi di vedere, di concepire, perché è un arricchimento e anche la musica ne è testimone in questo senso perché dà veramente tanti input e tanti stimoli; ecco dal punto di vista musicale io non mi ritengo solo una musicista di genere, mi piace la musica e non mi piace neanche etichettarla proprio perché è talmente meravigliosa; sarebbe come pensare un mondo solo ad un colore, insomma sarebbe veramente noioso e invece è proprio la bellezza dei colori che fa un mondo bello e così vale per la musica, vale anche per tutto il resto; per noi come esseri umani è fondamentale riuscire a capire altre cose e rendersi conto che non esiste ununica realtà nella vita ma che tutto assolutamente relativo.

Perché a suo avviso, nonostante oggi si possa molto più facilmente viaggiare e avere contatti con altre culture rispetto al passato, è poi profondamente così difficile avvicinarsi e aprirsi alla diversità.

Questa è una bella domanda; è difficile avvicinarsi e aprirsi alle diversità semplicemente perché è diverso, è diverso da te, quindi tu hai paura di qualcosa che non riconosci, che non conosci. È lo stesso discorso che facevo prima;  conosciamo un’unica realtà e pensiamo che quella realtà sia quella giusta e basta; come le persone che vogliono fare i moralisti, che vogliono “fare leggi per te”, e invece… Bisognerebbe riuscire ad imparare, a rispettare le cose, a rispettare gli altri anche se non ti riconosci, anche se magari non concordi certi atteggiamenti, però la cosa importante è appunto la tolleranza e soprattutto la voglia di conoscere qualcosa che tu non conosci proprio perché ti arricchisce e poi, come diceva un vecchio saggio:pensiamo tutti di essere diversi ma anche in questo siamo uguali”.

La sua scelta di diventare pianista in quale momento è divenuta qualcosa di definito e consapevole?

Io sono nata col pianoforte perché di fatto ho cominciato a suonare quando avevo cinque anni e quindi per me è stato proprio il mio proseguimento; era come la mia mamma, il mio nido, quindi io ci giocavo proprio col pianoforte, facevo le storie, mi inventavo le cose, componevo già; quindi questa cosa sicuramente mi ha portato e mi ha avvicinato, oltre chiaramente all’aver fatto gli studi classici, mi ha avvicinato alla musica non scritta perché mi piaceva improvvisare e quindi poi è diventato un lavoro inconsapevolmente perché appunto, ripeto, siccome faceva parte di me è stata una cosa molto molto normale e ho cominciato a suonare con dei gruppi; il primo gruppo mi ricordo era brasiliano con Mandrake Som che era un percussionista che viveva in Italia che venne con Elza Suárez e Irio de Paola, io ero veramente una bambina, avevo 17 anni e quella fu la mia prima esperienza e dopodiché ho continuato a suonare, a fare ciò che mi piaceva ed è diventata la mia professione.

Quale è stato nella sua lunga storia di pianista un momento personale o artistico significativo che ha rappresentato qualcosa che ha in qualche modo aperto delle nuove strade e al tempo stesso messo in crisi?

Non ce n’è solo una, ce ne sono diverse… Tutte le collaborazioni che ho fatto, che sono state tantissime e anche con grandissimi musicisti leggendari, come con quelli con cui ho collaborato più a lungo come Billy Cobham con cui facevo una musica completamente diversa da quella che faccio adesso o Dewey Redman che era appartenente ad un mondo diverso perché lui veniva dal free, veniva da Ornette Coleman, Keith Jarrett; poi tutta la mia esperienza scandinava… tutto quello che ho vissuto ha portato qualcosa di significativo, che ha aperto delle nuove strade come ad esempio la collaborazione Pino Daniele che era musica pop e per la quale magari all’inizio i musicisti di jazz più puristi dicevano: Perché suonare musica pop che è una cosa semplice, invece io non l’ho mai trovata una cosa semplice, ho sempre pensato che tutte le musiche abbiano qualcosa in cui si deve entrare, come un altro mondo che è diverso. Ci stanno tanti mondi, ad esempio la musica pop è basata più sul groove e sulla sintesi… perché quello che io potevo dire suonando un solo anche per cinque minuti, in sole otto misure dovevo riuscire a dire quello che avrei voluto dire in cinque. Per esempio con Pino è stata una grandissima scuola. Ma anche per esempio il cinema che è sempre stata la mia seconda passione, proprio perché mio padre lavorava con compositori di musica da film e quindi ho avuto la fortuna di vedere sempre quando registravano e che mi ha sempre affascinato e quando ho fatto il primo lavoro di colonna sonora con Rocco Papaleo per Basilicata Coast to Coast che è stata una vittoria inaspettata per entrambi, quello è stato sicuramente per me un altro momento per me molto importante, vincendo il David di Donatello, il Ciak D’Oro, il Nastro D’Argento… Sai sono tanti tasselli nella vita come per tutti noi, io li chiamo “gli angeli”, che uno non sa bene di avere, che sono persone che anche inconsapevolmente ti indicano una strada a cui tu magari non hai mai pensato ma poi è così.

Invece la crisi viene sempre quando sai e quando conosci i tuoi limiti, quindi le crisi vengono nel senso che io so che più vado avanti e più conosco i miei limiti e mi piacerebbe migliorarli e certe volte mi rendo conto che alcune cose sicuramente sono più nella mia natura e altre no, anche se mi piacerebbe fare quello che non è più nella mia natura, però poi vedo che non lo è e questo a volte mi può portare in una crisi; ma io sono molto contenta di quello che faccio e della fortuna, perché ci vuole anche fortuna, che ho avuto nella vita a conoscere dei musicisti e delle persone straordinarie.

Per provare a raccontare la sua musica e specificamente il suo modo di suonare ciò che percepisco è una luminosità particolare, e parlando da fotografo, il suo suono ha una specifica risonanza con i livelli del bianco, come se non ci fossero zone di grigio o particolari ombre. Che rapporto ha con la luce e in generale con il guardare e come questo poi si traduce nella tua musica?

Ah che bella visione della luce, del bianco… mi piace molto questa cosa. Forse perché sono una persona abbastanza ottimista e quando suono soprattutto cerco di essere sempre me stessa che è la cosa che mi piace di più in un musicista, cioè riconoscere la personalità. Io oramai divido i musicisti in due categorie: Quelli che mi impressionano, i grandi tecnici, virtuosi che fanno delle cose straordinarie per cui tu dici: madonna non ci arriverò mai! Pero poi ci sono quelli che mi emozionano che sono diversi da quelli che mi impressionano.

Io sono più per raccontare qualcosa, una storia… la musica non deve essere solo autoreferenziale, a dire o dimostrare quanto sono brava, è ovvio che quando si comincia quello inevitabile, però poi c’è altro, cioè il virtuosismo dovrebbe essere un mezzo per riuscire a trasmettere qualcosa non il fine, e quindi quando suono anche con una nota o no sono abbastanza visionaria, mi piace riuscire a creare delle atmosfere, entrare dentro a certi mondi, certi colori; pensa che tu parli di colore… io da piccola vedevo tutto coi colori, ma anche i nomi, le persone. I nomi li vedo e continuo a vederli a colori, se penso un nome so già un colore. Quindi questa cosa del bianco mi piace molto.

In diversi suoi brani e progetti ci sono forti legami con il cinema, quali sono dei registi o dei film a cui si sente particolarmente legata e perché?

Registi direi tanti… mio padre lavorava come ingegnere del suono alla RCA dove aveva lavorato con musicisti di tutti i generi e da cui è uscita tutta la musica italiana da Gino Paoli, Rita Pavone, Morandi, De Gregori, però anche i compositori come Morricone, Trovajoli, Piccioni, Ortolani, ed è stato un maestro per gli ingegneri del suono specializzato in orchestra. Poi loro hanno aperto questo studio che si chiamava Ortofonica divenuto poi Forum, dove è stata registrata tutta la musica per cinema in Italia e non solo. Erano sette soci tra cui mio padre, Ennio Morricone, Trovajoli ed altri, ed io andavo a vedere ad esempio quando lavoravano a C’era una volta in America, ricordo Fellini con Prova D’Orchestra, La battaglia di Algeri ed ero sempre lì; ricordo Polanski quando lavorava a Frantic. E i grandi musicisti come Morricone e Trovajoli mi trattavano un po’ come la figlioccia. Quindi Sergio Leone è stato uno dei primi che mi ricordo quando ero piccola, poi ovviamente il cinema è la mia seconda passione e feci un omaggio per esempio al cinema francese, a Francois Truffaut che trovo un regista straordinario ma mi piacciono molto per esempio Wenders, Woody Allen, e poi tutti i film di Frank Capra, quelli che non si vedono più adesso perché adesso sono tutti molto cupi… invece lì cera sempre una speranza; e poi ovviamente gli italiani, Fellini, Pasolini, Rossellini, tutti i grandi insomma non ce n’è uno che preferisco, io cerco di riconoscere la meraviglia e la bravura del regista. Sicuramente Fellini è uno dei più visionari… mi sono rivista ultimamente delle cose sue, tipo Otto e Mezzo che io non mi ricordavo. È veramente una cosa pazzesca che è difficile riuscire a vedere. Non riconosco qualcuno simile anche tra gli attuali bravissimi come Sorrentino, con Fellini eravamo su un altro… un’altra onda, forse perché era proprio un momento storico diverso un altro modo di rapportarsi con la creatività, perché poi di fatto tutta larte non è altro che un mezzo per esprimere le emozioni che uno vive e quindi la storia dei nostri tempi; noi viviamo questa storia e pertanto i registri raccontano questa storia.

Sicuramente un film che io amo è Barry Lyndon di Kubrick, per i colori, per come è fatto e ritorniamo al discorso della luce; parliamo di un film girato con le candele… quello è sempre un film che quando ripenso mi emoziona.

Ogni fotografo ha una foto mancata, che molto spesso, proprio perché rimasta dentro di sé senza poter essere realizzata e condivisa diventa una sorta di stella cui tendere, come un tesoro interno o talvolta una Fata Morgana o una Chimera. Esiste anche nei musicisti qualcosa di simile che non si è potuto trovare il modo di esprimere e pertanto rimane una tensione o una memoria interna che non ha forma ma che si fa perenne ricerca?

La perenne ricerca nellarte secondo me è indispensabile, è come dire: Mi fermo qua e aspetto di morire… Nellarte è necessaria proprio questa farfalla nello stomaco, che pigia, che è sempre in continua ricerca, in continua emozione. Se è già tutto uguale in realtà non ti dà più emozione, e questo è un elemento importante della ricerca. In questo una tensione interna ti porta sempre a voler arrivare da qualche parte e sai che c’è sempre ancora da imparare; e questa è un pola tensione che uno ha e che porta a studiare ancora e ancora, e nello stesso tempo è anche la sua bellezza.

Sei gradi dal vivo

Insieme a Marcotulli gli altri protagonisti dei concerti jazz sono Carlo Negroni ( Enrico Pieranunzi, e il cantante e attore Peppe Servillo, accompagnato dal chitarrista Cristiano Califano (22.09). (Ingresso libero e gratuito, fino a esaurimento posti).

Con la sua formula originale di spettacolo, che combina narrazione e musica dal vivo, musiche e musicisti lontani nel tempo, nello spazio e nei generi dialogano tra loro sulla rotta delle 6 tappe che congiunge tra loro – secondo la celebre teoria elaborata negli anni Trenta del Novecento scrittore ungherese Frigyes Karinthy – ogni essere vivente sul pianeta.

Il progetto nasce dalla convinzione che la musica in contesti specifici può essere un potente strumento di resilienza, capace di trasformare il dolore in bellezza. Da qui lidea di chiamare artisti di rilievo nazionale e internazionale, noti per la loro sensibilità e capacità di sperimentazione musicale, per tradurre in un repertorio musicale, rappresentativo delle diverse esperienze culturali, migratorie, o semplicemente multiculturali le suggestioni raccolte dalla comunicatrice, attrice e regista Laura Antonini nel ciclo di incontri e laboratori rivolti ai cittadini stranieri residenti nei quartieri del Municipio XV di Roma, laboratori nati per generare stimoli musicali, esplorando i gusti personali, le esperienze di ascolto nei Paesi d’origine e le nuove connessioni sviluppate nel contesto italiano. Tra loro, cittadini provenienti dai quattro angoli della terra, muniti della ricchezza delle loro esperienze culturali, e in particolare provenienti da: Repubblica Democratica del Congo, Spagna, Ghana, Togo, Egitto, Camerun, Mali.

Durante gli eventi dal vivo, Luca Damiani esplora le connessioni musicali tra i brani eseguiti e i temi dell’identità, della migrazione e dei ricordi legati ai Paesi di origine dei partecipanti. La sua conduzione vuole arricchire l’esperienza del pubblico, tessendo un filo narrativo che unisce le diverse performance in un racconto sorprendente e coinvolgente.

Programma completo www.entroterre.org

 

L’autore: Filippo Trojano è fotografo e scrittore

La forma, la sostanza e Mussolini

Rachele Mussolini in Campidoglio

In un’intervista a Lorenzo De Cicco di Repubblica la nipote di Benito Mussolini, Rachele, annuncia di lasciare Fratelli d’Italia perché si ritiene più «moderata» del partito di Giorgia Meloni: «non sono così a destra», spiega.

Tra i motivi della distanza ci sarebbe lo ius scholae che Mussolini ritiene «naturale» per chi ha completato «un ciclo di studi di 10 anni», per «un ragazzo che magari è nato in Italia e parla il dialetto romano meglio di me!»  Spiega Mussolini che sarebbe «un modo per sedare i problemi di integrazione, che altrimenti si acuiscono. Ed è anche un arricchimento se le culture s’incontrano, nel rispetto delle tradizioni». 

Rachele Mussolini sottolinea anche l’ipocrisia a destra sulla cosiddetta famiglia tradizionale: «se due persone si vogliono bene, devono avere diritti». La consigliera comunale a Roma ha raccontato anche di avere ricevuto il “benvenuta” dalla più nota sorella Alessandra, anche lei traslocata in Forza Italia per divergenze con Giorgia Meloni per le sue posizioni considerate troppo estreme. 

Rachele Mussolini fino a poco tempo fa scaldava i cuori degli elettori meloniani esponendo cartelli contro l’anniversario della Liberazione nazifascista (celebre il suo “il 25 aprile festeggio solo San Marco”) e puntando sulla nostalgia nera. 

È significativo però che Meloni non abbia candidato alle elezioni europee Rachele Mussolini – così dicono – per il suo cognome che avrebbe appannato la sua percezione di “moderata” a Bruxelles. Sempre a proposito della forma e della sostanza. 

Buon venerdì. 

Dall’Algeria a Cuba. Riscopriamo Saverio Tutino, giornalista lungo le vie della rivoluzione

Giornalista di fama internazionale e “diarista” da sempre, totalmente immerso negli avvenimenti della sua epoca, Saverio Tutino (1923-2011) è stato uomo controcorrente, inquieto, forse l’unico giornalista europeo che con le sue corrispondenze e pubblicazioni abbia scandagliato dall’interno le specificità e i limiti sia della rivoluzione castrista sia delle guerriglie latinoamericane. Sono gli anni in cui la rivoluzione cubana pone il problema della conquista del potere per la costruzione del socialismo come compito irrinunciabile delle sinistre latinoamericane, ma sono anche gli anni della rivoluzione al potere. Non è un caso che Tutino si leghi così tanto prima alla lotta di liberazione algerina e poi alle vicende sudamericane di quel periodo, seguendo quella prospettiva rivoluzionaria che lo aveva segnato sin da giovane, convinto della necessità del cambiamento rivoluzionario, per dirla con le parole di Ernesto Che Guevara. Tutino guarda «all’aspetto enigmatico della rivoluzione al potere», a lui interessa «il presente e in esso il futuribile del socialismo», perché è convinto che il Socialismo sia «la sola speranza di un mondo migliore», ovvero l’«oro introvabile».

È sempre alla costante ricerca di un modus vivendi “altro”, di una condizione personale diversa, rispetto a quella raggiunta; contagiato da quella che l’antropologo e suo amico Pietro Clemente ha definito la “frenesia del vivere”, che Tutino incoraggia incessantemente laddove intravede orizzonti rivoluzionari. Attraversa gli anni della guerra fredda, un’epoca soggetta «a una specie di terremoto sempre latente», e che gli crea un «disequilibrio permanente». Il Tutino “latinoamericanista” è un’anima inquieta, un rivoluzionario alla ricerca della “propria” rivoluzione. Come ha efficacemente tratteggiato Oliviero Beha, Tutino intendeva la politica «sempre e comunque come il tentativo di ridisegnare meridiani e paralleli di un mondo da rifare».

Sin dal 1950, l’anno del viaggio nella Cina di Mao Tse-tung insieme a una delegazione giovanile del Pci, per Tutino diviene un compito morale iniziare a raccontare i popoli dei Paesi emarginati. Il suo raggio di azione spazia su quasi tutto il continente sudamericano. In quell’America Latina a cui si lega profondamente e che descrive come il villaggio di Macondo: «tutto è dieci volte più misero e più ricco; più disgraziato e più violento, più innamorato della libertà e più schiavista che in Europa».
“L’altrove” di Tutino è ad Algeri, a L’Avana, a Città del Messico, a Santiago del Cile, a Bogotà, a Managua, a Buenos Aires, a El Salvador, a Lisbona, a Mogadiscio.
È tra i primi giornalisti europei a raccontare l’orrore della repressione del regime di Augusto Pinochet e a svelare il volto repressivo della dittatura argentina parlando delle liste di condannati a morte predisposte dai militari. Segue le guerriglie latinoamericane, i movimenti di liberazione africani e la rivoluzione “dolce” dei portoghesi.

Figura eclettica, Tutino è personaggio – inconsapevole – da spy story. Commissario politico della 76ma Brigata Garibaldi durante la Resistenza, poi iscritto al Partito comunista italiano, legato alla rivoluzione cubana e interlocutore riconosciuto da Fidel Castro. Comunista inquieto, curioso, indisciplinato, antidogmatico. Mai ideologo pedante o teorico astratto.
Nei primi anni Sessanta trait d’union tra il Pci e il governo rivoluzionario cubano, frequenta gli intellettuali del suo tempo. Amico di noti guerriglieri rivoluzionari latinoamericani e di dissidenti, viene sorvegliato dai servizi cubani, così come da quelli italiani per i suoi legami con Giangiacomo Feltrinelli e con esponenti delle forze extraparlamentari di estrema sinistra.

Tutino fa parte di quella schiera di giornalisti – intellettuali – militanti che a partire dagli anni Sessanta e Settanta hanno fatto scoprire e raccontato al Vecchio continente le viscere profonde dell’America Latina. Mi riferisco, in particolar modo, a Sergio De Santis, Aldo Garzia, Gianni Minà, Italo Moretti, Alessandra Riccio, Livio Zanotti. Penne, cuori e teste che hanno attraversato in lungo e in largo il subcontinente, vivendolo intensamente e trasmettendo quella costruttiva curiosità per l’America Latina che generazioni di studiosi ancora coltivano. Spesso le loro vite si sono incrociate, come nel caso di Gianni Minà, che ha raccontato come nel 1986 Tutino lo aiutò «a mettere giù tutte le domande possibili che un giornalista onesto avrebbe voluto avere a disposizione il giorno che avesse potuto avere davanti Fidel Castro», che all’epoca riceveva duemila richieste di interviste all’anno. Castro poi accettò di essere intervistato da Minà e ne venne un’intervista fiume di sedici ore, raccolta nel volume Un encuentro con Fidel (La Habana, 1987). L’amicizia tra i due giornalisti è confermata nei ringraziamenti di Minà, dove si legge «a un collega e amico come Saverio Tutino che mi ha illustrato e chiarito alcuni aspetti dell’universo cubano, aiutandomi a preparare, per quanto possibile, un’intervista non superficiale».

D’altronde l’unico metodo che Tutino da giornalista e da uomo politico conosce per raccontare gli eventi è «stare dentro alle cose, scoprirle dall’interno, senza mai accettare le versioni ufficiali, quelle di comodo», come ha sottolineato la voce storica di Radio3, Guido Barbieri, nel podcast Il testimone, a lui dedicato in occasione del centenario della nascita. È proprio questa capacità “immersiva” che lo fa diventare il più popolare inviato del quotidiano La Repubblica, ricorderà il suo amico e collega Giorgio Frasca Polara. Sempre in eterno movimento, spinto da una insaziabile curiosità. Anche Aldo Garzia ha sottolineato che in Italia, citare Tutino significava parlare di Cuba. E quando si parlava di Cuba erano immancabili i riferimenti alle sue riflessioni e anche alle sue critiche: «Sì, lo ammetto, io sono stato forse il maggiore responsabile della creazione del mito cubano in Italia, il mito di una società giusta ed egualitaria. Mi sono sbagliato e ho pagato quello sbaglio. Il mito nasce quando un uomo politico lo crea intorno a sé. E tra tanti difetti, bisogna riconoscere a Castro di essere un politico di notevole calibro. Ha capito che la politica si fa con i miti e non con i decreti».

Sia chiaro che Tutino rimarrà sempre legato, specificherà «attaccato», alla Cuba che amava, quella che aveva dato la “scalata al cielo”. Il suo giudizio rappresenta sì una cesura, ma frutto di una bruciante delusione umana e politica per un socialismo «di vetrina» finanziato dall’Unione Sovietica che mai divenne Socialismo, che ai suoi occhi rappresentava «la sola speranza di un mondo migliore». L’analisi tutiniana eccettua dalla crisi mondiale del comunismo, ma si focalizza sulla peculiare esperienza cubana, che ha vissuto in prima persona sulla propria pelle, e che descriverà come «il ricordo più bello della mia vita».

Il libro di Andrea Mulas e il Premio Pieve Saverio Tutino

Andrea Mulas, storico e saggista, ha scritto L’oro introvabile. Saverio Tutino e le vie della rivoluzione (Il Mulino, in libreria dal 20 settembre). Il libro viene presentato nell’ambito della quarantesima edizione del Premio Pieve Saverio Tutino il 14 settembre alle ore 17 a Pieve Santo Stefano (Piazza Plinio Pellegrini).  Coordina l’incontro Guido Barbieri, letture di Donatella Allegro e Andrea Biagiotti. Il Premio nasce nell’ambito dell’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano che dal 1984 conserva i diari, le memorie e gli epistolari degli italiani e ha raccolto fino ad oggi circa 9mila storie di vita. Ideato e fondato da Saverio Tutino, l’Archivio è non solo un centro per la raccolta di testi della scrittura popolare, ma anche e soprattutto un luogo di riflessione sulla memoria e sulla storia del nostro Paese. Quarant’anni dopo è il titolo della rassegna del 2024 che vuole celebrare il patrimonio dell’Archivio tra presentazioni di libri, mostre, spettacoli, letture. Il Premio Pieve Saverio Tutino sarà assegnato il 15 settembre. Sono otto i finalisti: storie di guerra, di lavoro, di violenza e sopraffazione sulle donne, attraversano tre diari, tre memorie, due autobiografie tra i quali sarà nominato il vincitore, offrendo uno spaccato della società italiana del passato ma sempre attuale. Nell’ambito dell’Archivio diaristico è stato istituito anche il Premio Tutino giornalista che quest’anno è dedicato  a Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. La cerimonia di premiazione è il 13 settembre (ore 15) alla quale partecipano Hassan Ahamed, Francesco Cavalli,  Maurizio Mannoni, Alessandro Triulzi e Walter Verini (si può seguire in diretta streaming sui canali social dell’Archivio quiqui).

Nella foto: Saverio Tutino, frame di una intervista del 1987

 

Buio Fitto

La politica è un esercizio semplice nei suoi fondamentali. Nell’atto di composizione di un governo i voti marcano una linea tra chi accetta le regole di ingaggio e decide di appoggiarne la guida, evidentemente condividendo linee e contenuti. Dall’altra parte ci sono coloro che legittimamente ritengono che la proposta sia irricevibile e decidono quindi di stare all’opposizione in attesa di risultare più convincenti con la loro proposta.

Il governo italiano, rappresentato dalla sua presidente del Consiglio, ha deciso che il programma proposto dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen non meritasse l’appoggio. Il partito di riferimento di Fratelli d’Itala in Europa (Ecr) si è seduto dalla parte dell’opposizione. I Sovranisti europei a cui fa riferimento la Lega di Matteo Salvini (altro partito di governo italiano) ha iniziato la sua opera di mostrificazione dell’Unione europea e di von der Leyen un secondo dopo la chiusura delle urne. Il terzo partito della maggioranza italiana, Forza Italia, con il Ppe invece ha scelto di stare in maggioranza. 

L’esercizio semplice della politica ci dice che è piuttosto curioso che la premier che votò contro von der Leyen pretenda per l’Italia un posto di peso nella Commissione a cui si oppone, tanto più per un membro del suo stesso partito, il ministro Fitto. Rifugiarsi dietro la “rilevanza dell’Italia” è un patetico tentativo di deresponsabilizzare le proprie scelte politiche. Un paese è credibile per quanto è credibile il suo governo e per come votano i suoi leader.

Questo stanno facendo notare a Meloni. Solo questo. 

Buon giovedì.

Nella foto: Raffaele Fitto, Parlamento europeo, 3 luglio 2019

L’assedio fantasma: le ossessioni di Palazzo Chigi

«Occhio ai nani e alle ballerine», avrebbe detto ieri il capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia alla sua truppa parlamentare – lo scrive anche Repubblica – in una giornata che ha denudato il re.

Giorgia Meloni e i suoi in sole ventiquattro ore hanno fabbricato una sfilza di ossessioni di complotti che non sarebbe credibile nemmeno in un telefilm di quart’ordine. 

Sono nemici i poliziotti – di questo s’è detto – che rassicurano la premier solo con la loro assenza. Ma sono nemici anche i figli di Berlusconi, Marina e Pier Silvio, che secondo Palazzo Chigi starebbero tutto il giorno a brigare sugli affari mutandeschi dell’ex fidanzatino di Meloni e delle ipotetiche fidanzate dei suoi ministri.

Sono nemici i leader europei che non si sono bevuti la favola del ministro Fitto come autorevole commissario quando ne hanno visto la denominazione d’origine del governo più a destra tra i paesi che contano in Europa. Sono nemici , ça va sans dire, quelli dell’opposizione perché sono traditori e nemici della patria. 

Sono nemici gli alleati di Forza Italia perché si impuntano sui diritti civili e sono nemici gli alleati della Lega perché vogliono rosicchiare i voti a destra. Sono nemici perfino i commessi e gli uscieri di Palazzo Chigi, immaginari come gole profonde al servizio dei poteri forti. 

Sono nemici perfino i giornalisti amici come Sallusti che si arrogano il diritto di vedere complotti ovunque come una sorella Meloni qualsiasi. Sono nemici i giornalisti, quasi tutti nonostante i camerieri. 

Ha ragione Foti, mancano solo i nani e le ballerine. 

Buon mercoledì. 

In foto: La presidente del Consiglio Meloni con la pugile Angela Carini che gridò al complotto dopo essere stata sconfitta da Imane Khelif

In Cisgiordania viene ucciso un bambino palestinese ogni due giorni

Un recente rapporto di Defence for Children International (Dcip) dipinge un quadro cupo e drammatico della Cisgiordania occupata, dove l’infanzia è stata travolta dalla mano implacabile dell’occupazione, con oltre 140 bambini palestinesi uccisi dalle forze israeliane e dai coloni tra il 7 ottobre 2023 e il 31 luglio 2024. Il rapporto è il risultato di un lavoro meticoloso basato su testimonianze oculari, referti medici e filmati di sorveglianza raccolti nei territori sotto controllo militare. I dati illustrano una realtà agghiacciante: in media, un bambino palestinese è stato ucciso ogni due giorni durante questo periodo, un ritmo spaventoso che mette in luce la vulnerabilità estrema a cui sono esposti i minori palestinesi nelle zone di conflitto e dominio forzato.

Le forze israeliane, secondo quanto documentato nel rapporto, hanno spesso utilizzato munizioni vere per colpire i bambini, mirandoli in particolar modo alla testa e al torace. Il ricorso alla forza letale contro bambini innocenti, incapaci di incarnare una minaccia, ha generato interrogativi profondi sull’operato dell’esercito israeliano, accusato di perpetrare violazioni sistematiche contro i principi universali di giustizia e dignità umana. Ogni vita interrotta diventa uno squarcio sulla coscienza collettiva, purtroppo inutile a ricordare il diritto di ogni bambino a crescere e sognare in pace.

In particolare, il rapporto sottolinea che 18 dei bambini uccisi sono stati colpiti alle spalle, suggerendo chiaramente che non erano rivolti verso i loro aggressori e che, quindi, non stavano cercando di “attaccare” o opporre resistenza. Un dettaglio che amplifica la crudeltà e l’inaccettabilità di questi atti criminali.

Uno degli aspetti più inquietanti rivelati dal rapporto è il fatto che, in molte occasioni, i bambini palestinesi siano stati presi di mira dai cecchini israeliani, impiegati regolarmente durante le incursioni militari nelle comunità palestinesi della Cisgiordania. Tiratori scelti che sembrano specialisti nello scivolare in una crudeltà tanto distaccata quanto spietata. I minori, in questa perversa sceneggiatura di violenza, diventano bersagli di un gioco macabro, un esercizio di disumanità che non conosce pietà, esibito come una manifestazione di potere su esseri fragili e soprattutto innocenti. In molti casi, le vittime non si trovavano in situazioni di scontro diretto o di conflitto armato, ma semplicemente svolgevano le loro normali attività quotidiane. Questo rende la situazione ancora più grave, poiché dimostra una sistematica disumanizzazione delle vittime.

Un esempio emblematico citato nel rapporto è quello di Mahmoud Amjad Ismail Hamadneh, un ragazzino di 15 anni che è stato colpito alla testa, al torace e agli arti mentre tornava a casa in bicicletta da scuola nella città di Jenin. Ciò mostra come anche semplici azioni quotidiane come andare e tornare da scuola siano pericolose e potenzialmente letali per i bambini palestinesi.

Oltre agli attacchi diretti contro i bambini e adolescenti, il rapporto denuncia un’altra dimensione profondamente inaccettabile delle azioni delle forze israeliane. In ben il 60% dei casi documentati, è stato impedito l’accesso ai soccorsi per i minori feriti. La negazione dei soccorsi rappresenta una violazione flagrante delle norme internazionali umanitarie e acuisce il dramma umano che colpisce la popolazione palestinese. In particolare, le giovani vite, già messe a dura prova dalla violenza dell’occupazione illegale, vengono ulteriormente sacrificate in un quadro di indifferenza e disumanità, come se fossero offerte in un rituale di crudeltà che ignora la sacralità e la dignità intrinseca di ogni esistenza.

L’uccisione deliberata di bambini e l’impedimento dei soccorsi oltre a violare i diritti umani fondamentali, sono anche una palese infrazione dei principi fondamentali delle Nazioni Unite sull’uso della forza e delle armi da fuoco da parte delle forze dell’ordine. Secondo questi principi, l’uso di munizioni vere dovrebbe essere limitato a situazioni di estrema necessità, quando tutte le altre misure si sono rivelate inefficaci. Tuttavia, il rapporto del Dcip sostiene che le forze israeliane hanno dimostrato un costante disprezzo per tali linee guida, impiegando armi letali contro bambini in situazioni non giustificate e senza che vi fossero minacce concrete o immediate alla loro sicurezza.

Nonostante le prove evidenti accumulate nel corso degli anni, nessun soldato israeliano è stato ritenuto responsabile di queste uccisioni. Questo senso di impunità non è solo una lacuna volontaria nella giustizia israeliana, ma un seme che accresce la violenza, contribuisce alla diffusione di una cultura che disprezza il diritto internazionale e la preziosità dei diritti umani, promuovendo un ciclo di indifferenza verso la sofferenza palestinese. In questo modo, l’assenza di responsabilità diventa un atto di disprezzo verso la dignità umana, un perpetuo tradimento dei principi di giustizia e rispetto che dovrebbero guidare l’intera umanità. È per questo motivo che, le azioni descritte nel rapporto sono configurate come crimini di guerra secondo la Corte penale internazionale (Cpi), in quanto si tratterebbe di omicidi volontari di civili, in violazione del diritto umanitario internazionale.

A tal proposito, l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Volker Türk, ha recentemente richiamato l’attenzione sul parere della Corte internazionale di giustizia (Icj), che ha definito l’occupazione israeliana una forma illegale di apartheid, sottolineando l’urgenza di porre fine all’occupazione e di far rispettare le norme internazionali. La mancanza di responsabilità da parte delle autorità israeliane nel trattare queste violazioni, in particolare quelle che coinvolgono bambini, rappresenta un nodo cruciale nel dibattito internazionale sui diritti umani in Palestina. Una carenza di giustizia così grave non è solo una questione di responsabilità legale, ma un riflesso di una più ampia crisi etica. Essa solleva interrogativi fondamentali sulla nostra capacità di proteggere i più indifesi e di mantenere la nostra integrità morale come comunità globale.

La situazione si complica ulteriormente alla luce delle accuse di genocidio che incombono su Israele presso la Corte internazionale di giustizia, in relazione alle sue azioni durante la guerra nella Striscia di Gaza. Secondo il ministero della Salute di Gaza e le agenzie delle Nazioni Unite, l’offensiva israeliana ha causato la morte, la mutilazione o la scomparsa di almeno 145.000 palestinesi, con oltre 17.000 bambini tra le vittime. La devastazione ha lasciato una cicatrice profonda nella vita della popolazione di Gaza, con conseguenze che trascendono la dimensione immediata per radicarsi profondamente nella trama della società. Le ferite fisiche e psicologiche non colpiscono solo i singoli individui, ma travolgono intere famiglie e collettività, segnando il benessere e la speranza delle generazioni a venire. Questo dolore e queste perdite sollecitano una riflessione profonda sulla nostra capacità di rispondere con umanità e compassione. Ogni vita danneggiata, ogni sogno infranto, rappresenta un appello urgente a garantire che la nostra risposta sia guidata dal desiderio di guarire e di restituire dignità, affinché il futuro dei giovani palestinesi possa essere costruito su basi di giustizia e speranza per tutti.

L’autore: Andrea Umbrello è direttore editoriale & Founder di Ultimavoce

A boy looking at an Israeli soldier in front of the West Bank barrierBy Picture taken by Justin McIntosh – Originally uploaded at a different location, CC BY 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=1157033

Emergency a Gaza, mentre l’Onu arretra

illustrazione di Fabio Magnasciutti

Il Festival di Emergency è una possibile risposta all’inerzia delle coscienze. l’Ong, fondata nel 1994 da Gino Strada, che tanto ci manca, offre cure medico-chirurgiche alle vittime delle guerre, delle mine antiuomo e della povertà e, allo stesso tempo, promuove una cultura di pace, solidarietà e rispetto dei diritti umani.

L’appuntamento, che dal 2021 ha esordito e rinnova le sue edizioni a Reggio Emilia, si propone proprio come contro canto alla rassegnazione, mostrando, attraverso gli interventi di tantissimi ospiti, che la prassi di ciascuno di noi fa davvero la differenza, se non per cambiare il mondo, almeno come disse Italo Calvino, per sottrarre all’inferno ciò che inferno non è.

Nel programma del festival largo spazio è stato dedicato all’inaccettabile tragedia in corso in Palestina. Di particolare rilevanza è che, da pochi giorni, dopo alcuni mesi di attesa per ottenere il permesso umanitario, Emergency è entrata a Gaza per offrire assistenza sanitaria di base alla popolazione martoriata dalla guerra (E questo mentre L’Onu si ritirava).

Stefano Sozza, capo missione dell’organizzazione nella Striscia, che è intervenuto al festival con un videomessaggio, ha detto che l’entrata di aiuti umanitari è stata oltremodo difficoltosa. Negli scorsi mesi, in attesa dell’autorizzazione definitiva all’ingresso nella Striscia, Emergency ha lavorato per definire il progetto e attivare un coordinamento con le agenzie delle Nazioni Unite e altri partner presenti sul territorio. 

«La possibilità di portare aiuti nella Striscia – ha esordito Sozza – deve fare i conti con grandi limitazioni nell’accesso delle organizzazioni umanitarie, con le difficili condizioni di sicurezza e con uno spazio umanitario garantito che è andato restringendosi sempre di più da novembre ad oggi. Oggi circa 305 chilometri quadrati, ovvero quasi l’84% della Striscia di Gaza, sono stati posti sotto ordine di evacuazione».

A partire dal 12 agosto, l’area umanitaria dichiarata da Israele ad al-Mawasi si è ridotta dai 58,9 chilometri quadrati di inizio 2024 ai circa 46 chilometri quadrati attuali. Secondo l’aggiornamento di OCHA della scorsa settimana, nella prima metà di agosto sono state negate dalle autorità israeliane sessantotto missioni umanitarie, circa un terzo delle missioni programmate a inizio mese. Nel video il suo volto appare stanco, ma deciso. «Ora che siamo riusciti a entrare a Gaza, stiamo cercando un’area dove costruire e aprire una clinica per fornire assistenza di base alla popolazione. I bisogni sanitari sono enormi e gli ospedali locali che ancora sono operativi non riescono a gestirli tutti: oltre a non avere lo staff e i farmaci necessari, spesso sono sovraffollati perché, in mancanza di altre strutture, i malati si rivolgono agli ospedali anche per necessità che potrebbero essere trattate ambulatorialmente. La situazione nella Striscia è critica e la popolazione è allo stremo: oltre alla mancanza di servizi sanitari, pesano soprattutto la scarsità di acqua, di cibo e di abitazioni. Le persone sono sottoposte a continui ordini di evacuazione».

La clinica offrirà primo soccorso, stabilizzazione di emergenze medico-chirurgiche e trasferimento presso strutture ospedaliere, assistenza medico-chirurgica di base per adulti e bambini, attività ambulatoriali di salute riproduttiva e follow up infermieristico post-operatorio. Al contempo Emergency avrà una base logistica in Giordania, a supporto del team operativo sul territorio palestinese.

«Le condizioni della popolazione sono insostenibili – denuncia Sozza -. Serve un cessate il fuoco immediato, anche per permettere l’ingresso di aiuti umanitari. La popolazione di Gaza non può continuare a vivere in queste condizioni disumane». Ci saluta il capomissione e ci ringrazia, dallo schermo del sontuoso Teatro Valli, lasciando trasparire un impegno urgente, che tuttavia deve ancora poter esser dispiegato in tutto il suo potenziale e che ha bisogno del sostegno costante di un’opinione pubblica pienamente coinvolta.

Il suo intervento fa venire in mente quell’immagine evocata dal grande intellettuale palestinese Edward Said quando descrive il palestinese come colui che deve scolpirsi un cammino nell’esistenza, che non è mai una realtà stabile, poiché il suo passato si è spezzato proprio un attimo prima di generare frutti. Ecco, l’intervento umanitario cerca di mantenere un filo concreto, seppur esile, con un diritto alla permanenza sulla propria terra, garantendo quelle cure urgenti, senza le quali resta solo la barbarie del massacro o, come ha raccontato Stefano, il silenzio dei cumuli di macerie e tutti gli esseri umani sopravvissuti, schiacciati nel 15%del territorio. Il Silenzio…

Il Festival si è arricchito anche del contributo di due testimoni importanti, due giornalisti gazawi, scappati dai bombardamenti: Youmna el Sayed, pluripremiata corrispondente di Al Jazeera English dalla striscia di Gaza e Sami Alajrami, collaboratore dell’Ansa e corrispondente della Repubblica.

«Ho perso la mia “anima”», cosi esordisce la giovane professionista. «Non sono più sotto la minaccia delle bombe, ho messo in salvo i miei figli, ma ho perso me stessa, venendo via da Gaza e lasciando la mia terra e i miei affetti» .

Sayed mette in rilievo come tutti i diritti di base fossero già stati negati alla popolazione da un assedio pluridecennale. Non ci si può curare dal cancro; non vi è un presidio medico oncologico per i bambini; le famiglie non possono più incontrarsi con i parenti della Cisgiordania; i genitori con meno di 60anni non possono accompagnare i figli negli ospedali della Cisgiordania. Questi elencati sono solo alcuni aspetti di un regime di odio e discriminazione, che opprime quella che lo storico israeliano Ilan Pappè definisce appunto una prigione a cielo aperto. «Ad una cosa è servita la guerra di Israele nella striscia» prosegue Youmna «a squarciare la maschera di ipocrisia e menzogna dell’Occidente, con quel doppio standard morale che nega in maniera ormai esplicita l’universalità della condizione umana a chi non è bianco e cristiano. Gli obiettivi dell’esercito israeliano sono a tutti gli effetti le persone comuni e in particolare i soli giornalisti presenti che sono tutti locali. Ciò è evidente a tutti, ma non interessa a nessuno». Ho chiesto alla giornalista di rispondere a due domande. In primis: Ci può essere una possibile evoluzione risolutiva del conflitto? «È molto complicato ma penso che il primo passo dovrebbe essere la fine della guerra, Non basta un cessate il fuoco temporaneo come propongono gli Usa», mi ha risposto. «Perché non è immaginabile che dopo undici mesi di genocidio, di massacri, di uccisione di civili, di pulizia etnica, si abbia solo qualche settimana di cessate il fuoco, fintanto che gli ostaggi israeliani vengano rilasciati, per poi tornare a combattere. La guerra deve finire e, come gli ostaggi israeliani devono essere liberati da Gaza, i prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane, anche loro devono essere liberati, perché sono civili, sia quelli nella West Bank, che quelli della striscia di Gaza». «E poi – aggiunge con vigore – una soluzione definitiva dovrebbe essere, dopo la fine della guerra, una soluzione che non offra ad Israele la possibilità di rioccupare la striscia di Gaza».In che modo le mobilitazioni contro la guerra possono contribuire ad una soluzione? le chiedo ancora. Youmna non ha nemmeno un istante di esitazione: «La gente in tutto il mondo, che siano in Europa, America o altrove, è la maggioranza e nel momento in cui capirà che si può davvero contribuire a un cambiamento, sarà allora che il cambiamento ci sarà davvero».

L’analisi contro fattuale è spesso un metodo accattivante per ridefinire il senso di un processo temporale. Secondo Gavriel Rosenfeld sono due gli argomenti peculiari che determinano ipotesi ed alternative storiche: il giudizio morale nell’interpretazione dell’evento e la scelta sempre aperta di fronte all’inevitabilità. Alla base di tali meccanismi permane la curiosità umana su come le nostre vite sarebbero potute mutare in base alla differente evoluzione degli eventi e ciò incide sull’esigenza di riflettere criticamente sul modo in cui rielaboriamo il passato e ne codifichiamo il ricordo.

Un approccio simile può condurci al raffronto tra Nakba e Shoah, senza voler per forza ridurre ad un minimo comun denominatore fenomeni complessi e diversi, ma solo per suggerire dei raccordi necessari a superare arroccamenti identitari, nella comune convinzione della tragedia che il dolore è sempre egualmente umano.

A tal proposito, un’analogia che emerge dal racconto di Sayed, così come anche da quello di Alarajami, è quella di una vera e propria sindrome del sopravvissuto; un’ossessione di colpa per il privilegio di essere scampati ad una violenza che ha spazzato via migliaia di altre vite. La condizione umana descritta ne I sommersi e i salvati e che perseguiterà Primo Levi.

«I morti censiti sono molti di più dei 40mila», ci ricorda il corrispondente della Repubblica. «E cii sono migliaia di persone sotto le macerie, di cui non abbiamo la carta d’identità. Ma tanto, di tutte le vittime palestinesi gli organi d’informazione non ci restituiscono mai i nomi o i volti. La disumanizzazione dei morti è la disumanizzazione dei vivi. Bisogna uccidere il numero di palestinesi più alto possibile. È questo l’obiettivo del governo israeliano. Non c’è bisogno di un grande dispiegamento di forze per controllare Gaza. Gli Usa e Israele vogliono l’espulsione della popolazione. Si sopravvive senza luce, senza comunicazioni, né acqua né cibo, intrappolati, schiacciati. Ed io ho tradito la mia gente quando li ho abbandonati in quelle condizioni per mettermi in salvo. Ma io sono morto e so che non c’è più speranza, se chi è rimasto è costretto a lottare col fratello per un goccio d’acqua».

Prende una breve pausa dal dolore, riferendosi alla bellezza dei luoghi che ospitano il Festival, ma poi subito il pensiero torna a Gaza:«Stanno abituando le persone a vivere nell’orrore. Vorrei poter dire al mio popolo che vi sono tanti luoghi belli nel mondo».

Poi il suo intervento diventa una vera e propria requisitoria contro l’Occidente «Gli aiuti umanitari sono bloccati all’esterno e nessuno fa pressione per poterli distribuire. Come diceva Tagore, l’unico valore occidentale è il denaro. Quanto accade a Gaza è la negazione di ogni valore universale e l’Europa e gli Usa non sono attori credibili di una possibile mediazione se si ostinano a negare i propri stessi valori enunciati, in nome di interessi nascosti. Come fanno a costruire una pace se il presupposto è che ogni vita non è più uguale alle altre?». Una domanda che ci lascia tutti inermi, in attesa di trovare nella nostra stessa carne se non una risposta, almeno una decisa obiezione.

Post scritptum

Emanuel Carrère nel suo ultimo libro (Ucronia, Adelphi, ndr) definisce come un intento scandaloso, affidare il cambiamento alla narrazione ucronica, rispetto a ciò che è avvenuto nel corso storico. Nell’epoca del tracollo delle utopie, come spazi a cui affidare un progetto radicalmente divergente dall’ordine disciplinante, essa appare come l’unico esercizio praticabile per quell’immaginazione politica che si voglia sottrarre all’attitudine conformista della rassegnazione, perché apre a una distanza, in cui il contrappunto si oppone alla normalizzazione del regolare flusso temporale, all’assenza di futuro.

In apertura una illustrazione realizzata da Fabio Magnasciutti per il festival di Emergency 2024 di cui è stato uno dei protagonisti

L’autore: Marco Cosentina è un insegnante

  

Bugie, bugie, sempre bugie

Il palcoscenico di Cernobbio con la solita esibizione, con Giorgia Meloni nel ruolo di Pinocchio in tailleur, jongleur di numeri e mezze verità. Un’esibizione degna del miglior illusionista, ma che non regge alla prova dei fatti.

La premier ci racconta che “l’Italia è la prima nazione per realizzazione del suo Pnrr”. Falso: abbiamo raggiunto solo il 37% dei nostri obiettivi, con cinque Paesi davanti a noi. La Francia ha ricevuto il 60% delle sue rate, noi il 50%. Ci narra la “vergogna tutta italiana” di musei chiusi nei festivi, dimenticando che Louvre, Prado e Tate Modern fanno lo stesso. Una svista geografica o un’amnesia selettiva?

Meloni millanta un “Pil che cresce più della media europea”. Bugia: come spiega Pagella politica cresciamo dello 0,2%, esattamente come la media Ue e la Francia. La Spagna ci surclassa con lo 0,8%. Si vanta che siamo “la quarta nazione esportatrice al mondo”, quando in realtà siamo sesti con una quota del 2,8% sul totale mondiale, percentuale già raggiunta in passato.

La perla? “Abbiamo messo altri 3 miliardi sull’assegno unico”. Falso: sono 2,9 miliardi spalmati su tre anni. E quando dice che l’occupazione femminile è al massimo storico con il 53,6%, dimentica di dire che il trend è iniziato prima del suo governo ( e che sono per lo più lavori precari e part time ndr).

Meloni si vanta del “tasso di disoccupazione più basso dal 2008”, con il 6,5% a luglio. Vero, ma omette che il calo è iniziato ben prima del suo insediamento. Stessa storia per i contratti stabili: in aumento, ma la tendenza era già in atto.

Insomma, la presidente del Consiglio sembra aver scambiato Cernobbio per un’agenzia di propaganda nordcoreana, dove i numeri si inventano e la realtà si piega a piacimento.

Buon martedì.

La crisi dell’industria dell’auto europea. E i rischi che corriamo

L’industria dell’auto europea non è messa esattamente bene. Lo testimoniano due annunci arrivati alla fine della scorsa settimana, rispettivamente, da Volkswagen e Volvo Cars.
Cominciamo da quest’ultima. Il 4 settembre il gruppo svedese ha rilasciato un comunicato stampa dal titolo “Volvo Cars modifica le proprie ambizioni di elettrificazione, rimanendo impegnata in un futuro completamente elettrico”. Il testo spiega che «con cinque auto elettriche (EV) già sul mercato e altri cinque modelli in fase di sviluppo, l’elettrificazione completa rimane un pilastro chiave della strategia di prodotto di Volvo Cars.

Il suo obiettivo a lungo termine rimane quello di diventare un’azienda automobilistica completamente elettrica e mira anche a raggiungere emissioni zero di gas serra entro il 2040». Ma: «sebbene Volvo Cars manterrà la sua posizione di leader del settore nell’elettrificazione, ha ora deciso di adeguare le sue ambizioni di elettrificazione a causa delle mutevoli condizioni di mercato e delle esigenze dei clienti».
Spiega poi, Volvo, che una percentuale che potrà raggiungere il 10% dei modelli in vendita potrà essere composta di modelli «mild hybrid», quelli cioè dotati di un motore elettrico e una batteria di dimensioni contenute, sistema nel quale il motore elettrico funge da starter, avviando il motore principale e fornisce assistenza a partenze e accelerazioni.
«Questo – spiega il comunicato – sostituisce la precedente ambizione dell’azienda di avere una gamma completamente elettrica entro il 2030».
Infine, Volvo «entro il 2025, si aspetta che la percentuale di prodotti elettrificati si attesti tra il 50 e il 60%. Ben prima della fine di questo decennio, Volvo Cars avrà a disposizione una gamma completa di auto completamente elettriche. Ciò consentirà a Volvo Cars di passare all’elettrificazione completa quando le condizioni di mercato saranno adatte». Sottolineiamolo: «quando le condizioni di mercato saranno adatte».

Il mercato dell’auto elettrica non è precisamente fiorente. Ciò, nonostante, o in contrasto, con il divieto previsto per il 2035 dall’Unione europea della vendita di auto e furgoni con motori a combustione interna. Infatti, il mercato delle auto elettriche è in una critica fase di rallentamento. C’è, sì, una crescita globale delle vendite. Ma al momento inferiore in modo significativo rispetto agli anni precedenti. I consumatori non aderiscono al processo di elettrificazione nel modo auspicato da istituzioni e produttori. In parole povere, le auto elettriche costano troppo per molti consumatori e restano accessibili a chi ha disponibilità economiche superiori alla media.
Le difficoltà non riguardano solo Volvo. Così il 5 settembre anche Volkswagen ha fatto un annuncio ancor più inusitato di quello della casa svedese: l’ipotesi, in via di valutazione, di chiudere due impianti in Germania. Una cosa mai vista negli ottantasette anni di vita della casa di Wolksburg, oggi parte del Gruppo Porsche Automobil Holding SE.

Siamo in Germania. La “locomotiva d’Europa”. Il Paese dell’economia sociale di mercato. Nel quale i rappresentanti dei lavoratori ricoprono metà dei posti nel Consiglio di Sorveglianza e il Land della Bassa Sassonia detiene il 20 per cento delle azioni. Insomma: un annuncio, l’ipotesi di chiusura di stabilimenti, pesantissimo per quel Paese e gravido di conflitti. Ma VW ha grossi guai per i costi di processo e del lavoro e i suoi margini operativi sono calati pericolosamente nell’ultimo anno.

Nel frattempo, per eludere i dazi imposti dall’Unione, i produttori cinesi, dominatori del mercato dell’elettrico, cominciano ad aprire stabilimenti in Europa.
In Italia, le strategie di Stellantis sono avvolte da una impalpabile nebbia, mentre dal governo non arriva alcun segnale preciso relativo a una qualche forma di politica industriale nel settore. E della Gigafactory di batterie prevista a Termoli non si hanno notizie da un po’.
Insomma, la famosa transizione energetica rischia semplicemente di essere brutalmente ridimensionata se non di fallire. Trascinando con sé imprese e lavoratori. È quanto mai urgente che la politica in Italia come in Europa metta mano a una seria valutazione della realtà, delle scelte e delle misure da adottare per far fronte al rischio di un tracollo dell’auto, cuore del tessuto produttivo industriale.

L’autore:  Sindacalista e già ministro del lavoro Cesare Damiano è presidente di Lavoro & Welfare

Vangelo secondo Mussolini: quando la parrocchia “dimentica” l’antifascismo

“Purtroppo si è venuti a sapere troppo tardi chi fossero i richiedenti, i quali avevano inizialmente chiesto gli spazi, parlando di una semplice festa”, spazi che per “prassi consolidata” sono concessi “per feste di compleanno o per iniziative di natura benefica e, comunque, mai per iniziative politiche di qualsiasi orientamento”. Ha risposto così la parrocchia di San Giuseppe Lavoratore, a Pontenuovo di Magenta quando si è saputo che nel fine settimana i neo fascisti del gruppo Lealtà e azione hanno organizzato una bella adunata all’interno delle stanze di un oratorio. 

C’è voluta l’Anpi per ricordare che il gruppo “è una formazione politica che si ispira ad un passato che la storia, la lotta partigiana e antifascista ha sconfitto e condannato con la Liberazione avvenuta il 25 aprile 1945. A questo giudizio politico – ha aggiunto l’Anpi milanese – si aggiunge il fatto che sono guidati da pluricondannati per pestaggi e violenze di vario genere avvenute nel mondo degli ultras di calcio”. 

Quando il caso ha cominciato a fare rumore il parroco e l’ex parroco si sono affrettati a dire che “non erano a conoscenza della reale natura dell’evento”. Non male come scusa per chi  si propone come “guida spirituale” di una comunità. Non hanno avuto sospetti nemmeno quando hanno letto che il programma prevedeva un incontro su “arte e fascismo” con Vittorio Sgarbi e il vicedirettore de La Verità Francesco Borgonovo.

La Comunità pastorale con molto imbarazzo ha dovuto vergare un comunicato con cui si dissocia dagli eventi. Quindi si dissociano da sé stessi. “Abbiamo la consapevolezza che sia stata una leggerezza imperdonabile”, dicono. C’è da sperare che sia solo una leggerezza. 

Buon lunedì. 

Nella foto: frame del video della conferenza di Vittorio Sgarbi su arte e fascismo all’incontro di Lealtà e azione