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Perché basta una firma per rendere l’Italia più giusta

Il 3 settembre scorso è stata depositato in Corte di Cassazione un quesito referendario volto a proporre una profonda revisione della Legge 91 del 1992 con cui si disciplina la richiesta per l’ottenimento (concessione) della cittadinanza italiana. Una legge profondamente sbagliata, fondata sullo ius sanguinis – è italiana/o chi è figlio di almeno un genitore italiana/o – che già allora non coglieva i mutamenti in atto nel Paese. Dopo 32 anni, con la presenza stabile di circa 5 milioni di persone – una media regione italiana – che qui vivono, lavorano, pagano le tasse, vedono crescere i nostri figli, ma devono superare un’assurda corsa ad ostacoli per veder riconosciuto il diritto di essere equiparato anche a chi è di origine italiana, la legge deve cambiare. Timidamente negli anni trascorsi, ci sono stati tentativi parziali, anche in Parlamento, di intervenire su un vero e proprio vulnus democratico, ma nulla ad oggi è cambiato. I recenti successi sportivi, compiuti da atleti che con fatica hanno ottenuto tale diritto, hanno fatto da volano per riportare l’attenzione almeno sulle tante e i tanti che in Italia sono nati o cresciuti, ma che al diciottesimo anno di età rischiano di divenire, e spesso diventano, “stranieri”, riproponendo lo ius scholae che aprirebbe spazio per poche centinaia di migliaia di ragazze e ragazzi
Hanno scelto la strada forse più ostica, in un periodo così buio non solo per l’Italia, quella di lanciare un referendum, coloro che firmano l’appello che segue, supportate da alcune associazioni (Arci, Libera, Gruppo Abele, Società della Ragione, A Buon Diritto, ActionAid, Oxfam Italia, Cittadinanza Attiva, Open Arms, Forum Disuguaglianze e Diversità, Recosol, MAEC, InMenteItaca, Le Contemporanee, InOltre Alternativa Progressista, Forum Disuguaglianze Diversità, ASGI e finora poche forze politiche: +Europa, Possibile, Partito Socialista Italiano, Radicali Italiani, Rifondazione Comunista, si sono uniti a questa proposta. Altre realtà come Transform Italia, Progetto Melting Pot, la segretaria del Pd Elly Schlein, il giornalista Roberto Saviano, alcuni sindaci, per fare esempi, ma non basta.

Nell’appello che segue rivolto e consegnato a chi guida le forze politiche progressiste che ancora non si sono espresse, c’è la richiesta di aderire e di mobilitarsi. Il testo, che spiega anche come e su cosa firmare ed è redatto da coloro che per primi, depositato il quesito. Ma di tempo ce ne è poco, fino al 30 settembre. Chi crede in questa proposta risponda subito

“ADERITE AL REFERENDUM CITTADINANZA
Appello delle associazioni di nuovi italiani alla società civile e al mondo politico Questa è la volta di un “SÌ” per l’Italia: il Referendum sulla Cittadinanza.
Rivolgiamo questo nostro appello a tutte quelle persone, reti, associazioni, e partiti politici che, come noi, credono che non si possa più aspettare per cambiare la legge sulla cittadinanza. La legge attuale, scritta nel 1992, è stata pensata per un’Italia cambiata, oggi cresciuta. Perché nel frattempo, il nostro Paese si è arricchito di persone, famiglie e storie che hanno reso l’idea di Italia ancora più eccezionale. Siamo italiane e italiani, ancora oggi, privi di un diritto che spetta anche a noi: quello di vederci riconosciuta la cittadinanza italiana. Quella che ci siamo cuciti addosso frequentando la scuola, quella che fa affiorare una gelosia paziente se qualcuno critica il nostro Paese, quella che ci rende accaniti tifosi quando a stare in campo è uno di noi con indosso la scritta “Italia”. Perché fondamentalmente, l’Italia è casa nostra e nessuno può additarci di esser ospiti abusivi. Nessuno può guardare sotto la nostra pelle per dichiarare quanto siamo “diversi” da un’idea di italianità che guarda solo ed esclusivamente al passato. Noi siamo le figlie e i figli di una storia iniziata anni fa, ma che oggi non può continuare a ignorare la nostra presenza. Quanti “no” si possono sopportare in una vita? Noi di certo, nati e/o cresciuti qui, ne sentiamo continuamente quando chiediamo di essere riconosciuti come italiane e italiani. E quanti “silenzi” di fronte ad una possibile azione comune si possono presentare? Anche di quelli ne abbiamo vissuti in attesa che il miracolo si compiesse. Ma siamo ancora qui in attesa che in Parlamento si decida di prendere in mano la nostra vita, senza addossarci la responsabilità di passare davanti a qualche altra questione definita “priorità”. Sono sempre risposte di comodo quelle a cui ci siamo abituati. Sono sempre alibi quelli che tengono ingiustamente ancorata un’intera generazione ad una parola: stranieri. Ma noi non lo siamo, non si può essere stranieri per sempre. Italiani si nasce. Certo! Italiani si diventa. Chiaro! Italiani si cresce. Evidente! A questo punto, che fare? Tutto il possibile che possa essere di sostegno a quel che si fa già! Con la vostra firma potete dire Sì all’Italia che riconosce tutti i suoi figli e tutte le sue figlie. Entro il 30 settembre, dobbiamo raccogliere 500.000 firme online per indire il #ReferendumCittadinanza. Vi chiediamo di sostenere con convinzione e senza titubanze questa raccolta firme su www.referendumcittadinanza.it. Il quesito referendario propone di ridurre da 10 a 5 gli anni di legale e continuativa permanenza in Italia per poter chiedere la cittadinanza per se stessi e per i propri figli minorenni, allineandosi con quanto già avviene nei grandi paesi europei e come avveniva in Italia prima del 1992. Questo cambiamento non solo ridurrebbe i tempi d’attesa per chi vive, studia e lavora legalmente in Italia, ma permetterebbe loro di essere finalmente riconosciuti come cittadine e cittadini italiani a tutti gli effetti. Come ci ha ricordato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, a casa propria nessuno è straniero. Infatti, cittadinanza significa diritti, libera scelta, opportunità e anche doveri. Permette di partecipare agevolmente a percorsi di studio all’estero, rappresentare l’Italia nelle competizioni sportive senza restrizioni, votare, e partecipare a concorsi pubblici come tutti gli altri cittadini italiani. La proposta referendaria non sostituisce l’importanza del dibattito parlamentare, ma è un punto di partenza necessario per una nuova legge sulla cittadinanza, più attuale e inclusiva, in una sola parola: giusta. Siamo consapevoli che, troppe volte, alla politica è mancato il coraggio di andare fino in fondo e che i tentativi di iniziativa parlamentare si sono spesso esauriti senza risultati concreti. Ma ora abbiamo, insieme, l’opportunità di dimostrare che un’Italia più unita, più libera e giusta è possibile. L’Italia è già cambiata, ora cambiamo la legge.
Possiamo contare sulla vostra firma per un’Italia più giusta?
Vi aspettiamo.
Noura Ghazoui – CoNNGI – Coordinamento Nazionale Nuove Generazioni Italiane
Daniela Ionita – Movimento Italiani Senza Cittadinanza
SiMohamed Kaabour – IDEM Network
Deepika Salhan – DallaParteGiustadellaStoria

Foto dalla pagina fb di Italiani senza cittadinanza 

Quando Salvini sembra la voce della ragione, capisci che è davvero un disastro

Con i cittadini rinchiusi ai piani superiori di case mezze sott’acqua il ministro il ministro della Protezione civile Nello Musumeci ha pensato che potesse essere utile imbracciare il microfono per accusare la Regione Emilia Romagna che secondo lui «ha avuto assegnati 595 milioni dai governi. Se la Regione potesse fare lo sforzo – ha detto Musumeci – di farci sapere quanto è stato speso e ci facesse la cortesia di dirci quali sono ancora i territori più vulnerabili potremmo programmare ulteriori interventi». 

Qualche minuto prima era intervenuto anche il viceministro alle Infrastrutture Galeazzo Bignami (sì, quello apparso in foto travestito da nazista) per dire che «la situazione in Romagna è ancora una volta determinata da amministratori incapaci. E invece che stare zitti attaccano il governo e il commissario Figliuolo. Se avessero dignità se ne andrebbero». 

Mentre gli abitanti di quelle zone fanno i conti dei danni che non hanno nemmeno avuto il tempo di ripristinare dall’ultima alluvione da Fratelli d’Italia quindi partono accuse all’opposizione ma anche ai compagni di governo, come quando Musumeci accusa il suo collega ministro all’Ambiente Pichetto Fratin di tenere «fermo da cinque mesi nelle strutture del ministero il piano nazionale sul dissesto idrogeologico». 

Nella furia della speculazione politica e del vittimismo ex ante a cui ormai il partito di Giorgia Meloni ci ha abituati risulta quasi commestibile il ministro Salvini che dice «non c’è neanche mezzo minuto da dedicare alla conta dei danni, si sta lavorando per evacuare, salvare e mettere in sicurezza». E questo è tutto dire.

Buon venerdì. 

Mare Jonio, l’ispezione-farsa: 10 ore per trovare un megafono in meno

La nave Mare Jonio della Ing Mediterranea Saving Humans era ormeggiata nel porto di Trapani. L’ispezione della Guardia costiera è stata sollecitata – questo lo sappiamo per certo direttamente da Roma, dagli uffici del ministro ai Trasporti Matteo Salvini in pieno delirio vittimistico per un processo che lo spaventa molto di più di quanto vorrebbe lasciar vedere. 

Dieci ore di ispezione che hanno ottenuto lo straordinario successo di avere rivenuto un megafono in meno del previsto. “L’ispezione – ha spiegato il capo missione della Mare Jonio Luca Casarini – è stata eseguita con una squadra speciale, anti Ong. Il sesto reparto della Guardia costiera, capitanata dal capitano Andrea Zaffagnini, che dirige tutte le ispezioni nelle navi della Ong per cercare di bloccarle. Noi però siamo una nave che opera da sei anni, una nave che il registro navale indica come nave di soccorso”.

La grave mancanza del megafono ha spinto la Guardia costiera a un provvedimento di fermo dai contorni della tragica barzelletta: scaricate i salvagente e le attrezzature di soccorso se volete continuare a navigare. A una nave di soccorso che salva vite da sei anni viene concesso di stare in acqua senza giubbotti, gonfiabili, persino le lance di soccorso e i kit di primo intervento. A una nave di soccorso viene ordinato di mettersi in condizione di non poter soccorrere. 

Quei gommoni hanno salvato più di duemila persone. L’ordine è di smettere di salpare. La ritorsione di Salvini e il suo compare, il ministro Piantedosi, è scritta nero su bianco. Mancano perfino le parole per dirlo.

Buon giovedì. 

Con la nuova squadra di Von der Leyen l’Europa s’è destra

Sta succedendo ancora. Politici e media si stanno accapigliando su un pezzettino assolutamente secondario della vicenda relativa alla nomina della Commissione europea Ursula 2.0. Si ciancia di Fitto qua, Fitto là, quanto è stato bravo o pessimo come ministro, della sua storia di vecchia volpe Democrazia cristiana, dei suoi trascorsi in Puglia.
Dall’ultradestra stappano bottiglie di champagne, esultando per il grande successo di uno dei volti pubblici dell’ultradestra assurto alla vice-presidenza della commissione Ue.
Dall’opposizione del centro-sinistra liberista si dice, a dir la verità a voce non troppo alta, che altro che successo, è una sconfitta di Meloni, non vedete che i capitoli “coesione e riforme” sono ben meno importanti di quelli che aveva Gentiloni fino all’altro ieri.

Come spesso accade, ciò che di realmente interessante c’è in questa vicenda è ciò che rimane fuori. Se proprio vogliamo parlare di Fitto, l’elemento di interesse è in realtà una conferma: la destra tradizionale si sposta sempre più a destra, arrivando a cooptare in ruoli di governo l’ultradestra, che in sempre più capitoli detta l’agenda, pur non avendo formalmente posti di potere.
È una conferma, visto che già in tanti Paesi europei destra e ultradestra vanno a braccetto: in Italia, Olanda, in alcune Regioni della Spagna, per non parlare dei casi nell’Europa dell’Est.
L’altro elemento: se qualcuno aveva pensato che la pink-socialdemocrazia e i Verdi militari europei potessero essere argine all’avanzata dell’ultradestra, è stato smentito.
A livello nazionale continueranno a gridare al “fascismo” un giorno sì e l’altro pure, ma in Ue sono nella maggioranza che sostiene l’esecutivo Ursula 2.0.

Se per un attimo osassimo alzare lo sguardo dai simulati scontri nazionali, salterebbe agli occhi un fatto talmente significativo che non si capisce come il potere mediatico di casa nostra possa puntualmente tacerlo: la Commissione Ursula 2.0 non solo si sposta a destra per l’inclusione diretta di esponenti del gruppo Ecr (quello di Fratelli d’Italia), non solo per aver ormai abbracciato su diverse materie la cornice ideologica dell’ultradestra, ma anche per la preoccupante spinta alla guerra preconizzata da alcune nomine di peso.

Ursula von der Leyen ha deciso che anche simbolicamente il mito dell’Europa sociale possa finalmente cadere. E così ha eliminato il commissario agli Affari sociali.
Per contro nasce il nuovo commissario alla Difesa e allo spazio, eufemismo utilizzato da decenni per camuffare quello che una volta con meno ipocrisia si sarebbe chiamato ministero/commissario alla guerra. A chi viene affidato? Al lituano Andrius Kubilius, membro del partito di maggioranza relativo dei Popolari europei (Ppe). Un uomo politico che alla stampa si è presentato così nel suo nuovo ruolo: “L’Ue deve essere pronta a qualsiasi evenienza, preparando i nostri depositi con abbastanza equipaggiamento militare e sufficiente personale militare pronto per una mobilitazione rapida”. I bellicisti esultano, chi vuole la pace certamente no. Kubilius dovrà lavorare a stretto contatto con la finlandese Henna Virkunnen (per gli amanti di Dune: non è Harkonnen, ma stiamo lì), commissaria alla Sovranità tecnologica, sicurezza e democrazia e vice-presidentessa esecutiva della commissione. Anche Virkunnen, come Kubilius, fa parte del Partito popolare europeo ed è tra i falchi. I due dovranno implementare i piani che inietteranno miliardi su miliardi al complesso militare-industriale europeo: Von der Leyen ha parlato di 500 miliardi di euro necessari al comparto Guerra/Difesa nei prossimi 10 anni e Draghi nel suo rapporto sulla competitività dell’Unione non è stato da meno. Nelle mani di Kubilius, dunque, c’è almeno un pezzo della strategia di riarmo europeo, con soldi pubblici che andranno a innaffiare i grandi gruppi dell’industria bellica, da Rheinmetall a Leonardo.

Alta rappresentante per la Politica estera sarà invece la liberale Kaja Kallas, che rientra anche nella rosa dei cinque vice-presidenti esecutivi. L’ex prima ministra dell’Estonia a febbraio scorso, dopo le dichiarazioni del presidente francese Macron che apriva a truppe europee sul suolo ucraino, affermava che “ogni opzione che aiuti l’Ucraina a sconfiggere Putin è sul tavolo”. In precedenza, a gennaio, aveva già affermato che il “gruppo Ramstein” – i 31 Paesi Nato più gli altri che stanno sostenendo l’Ucraina – avrebbe dovuto stanziare ogni anno lo 0,25% del proprio Pil in aiuti a Kiev, così da garantire a Zelensky 120 miliardi di euro l’anno per sconfiggere Putin.

Il riassetto degli equilibri della nuova Commissione non finisce qui.Commissario all’Economia e alla semplificazione sarà il lettone Valdis Dombrovskis, che farà coppia col commissario al Budget e alla pubblica amministrazione, il polacco Piotr Serafin (che risponderà direttamente a Von der Leyen).
Così l’austerità contro lavoratori e lavoratrici è messa in mani sicure.
In molti casi, oltre a essere politici chiaramente bellicisti, si tratta di personaggi legati a doppio filo a Washington prima e più che a Bruxelles. Lo si è visto in questi ultimi anni, quando sono sempre stati disponibili a mettersi sugli attenti dinanzi alle richieste Usa, minando quella pretesa “autonomia strategica” dell’Ue che pure qualcuno ogni tanto continua a tirare in ballo.
Anziché sprecare inchiostro su Fitto, sarebbe più utile concentrarsi su ciò che davvero ci dice la commissione Ursula 2.0: un quadro politico sempre più a destra, dove socialdemocrazia e Verdi non hanno alcuna funzione di argine; soldi negati ai lavoratori e messi a disposizione dell’industria bellica; un’ulteriore spinta alla guerra e alla subordinazione ai desiderata di Washington e Nato.
Ecco la nuova-vecchia Ue.

L’autore: Giuliano Granato è portavoce di Potere al popolo

Von der Leyen 2.0: stesso copione, nuovi figuranti

Il ministro Raffaele Fitto è ora vicepresidente esecutivo nella pasticciata commissione che Ursula von der Leyen ha servito ieri agli elettori europei. La presidente del consiglio Giorgia Meloni rivendica il ruolo fondamentale dell’Italia nel prossimo quinquennio, i vincitori delle elezioni europee scoprono che si può governare anche perdendo, i funzionari di Bruxelles sottolineano come la sinistra che rincorre la destra sia un virus approdato anche in sede europea.

Raffaele Fitto è commissario alla coesione europea e uno dei sei vice presidenti esecutivi. Nominare alla coesione uno che da ministro ha spinto fino all’altro ieri sull’autonomia differenziata nel suo Paese è un capolavoro di incoerenza politica ma di politica nella nuova Commissione Von der Leyen ce n’è poca, pochissima. 

Mesi di campagna elettorale, di promesse e di programmi si sono sciolti di fronte alle parole di Mario Draghi, l’uomo della provvidenza che ha la grande qualità di fare sentire molto intelligenti i suoi sostenitori. Mesi di campagna elettorale e di esultanza per avere “arginato la destra” e poi i Conservatori delll’Ecr si ritrovano a governare con i socialisti che avrebbero dovuto essere i nuovi partigiani. 

Von der Leyen ricomincia da dove aveva terminato. Destra e sinistra per la guida di Bruxelles pari sono. L’importante è trovare la sponda giusta ogni volta su un tema, con buona pace di chi ciancia di identità europea e di sfide cruciali. Per fare il contrario di ciò che si è detto ci sarà ogni volta un Draghi, un conservatore “o un Bertoncelli o un prete a sparare cazzate”, come cantava Guccini. 

Buon mercoledì. 

Reprimere, reprimere, reprimere. Ecco il Ddl sicurezza del governo Meloni

Il disegno di legge governativo 1660 presenta disposizioni repressive di stampo che non esistiamo a definire caratteristico dei periodi più bui della nostra storia. Lo abbiamo segnalato già a luglio, come Osservatorio Repressione. Ne avevamo scritto su Left. Ora il provvedimento sta giungendo, a tappe forzate, all’approvazione della Camera dei Deputati. Il governo, come un rullo compressore, abbatte le critiche dei movimenti di lotta, delle associazioni, del sindacalismo, della ampia galassia garantista. Sono già in corso mobilitazioni sui territori. Perfino l’Osce, l’organizzazione per la sicurezza in Europa, ha scritto, manifestando grande preoccupazione: «La maggior parte di queste disposizioni ha il potenziale di minare i principi fondamentali della giustizia penale e dello Stato di diritto». Questo disegno di legge da “Stato di polizia” trova, infatti, le sue radici nella volontà verso la corsa al riarmo. È una corazza ordoliberista dell’economia di guerra. Lo Stato sociale muore, abbattuto dallo Stato penale. Una tendenza che non nasce certo oggi, ma è sulla scia di normative pessime (basti citare, tra le tante, il decreto Renzi/Lupi, il decreto Minniti, i decreti Salvini, fino all’ultimo decreto Caivano).

L’accezione della cosiddetta “sicurezza” diventa ipertrofia penalista, con misure repressive e sanzioni abnormi (vedi il documento di Antigone e Asgi in occasione dell’audizione alla Camera ndr), per prevenire e eliminare conflitti. Vi è un vero e proprio salto di paradigma; non siamo solo di fronte ad una dose maggiore di repressione ma a vere e proprie tecniche e forme di governo. Come ha ben illustrato il giurista Livio Pepino vi è, inoltre, una saldatura tra poteri politici e militari e informazione: tutte e tutti hanno calzato l’elmetto della guerra. Questa normativa è sottovalutata (o, in parte, accettata) dai partiti della opposizione parlamentare, che non comprendono che si tratta di un vero e proprio salto di fase. Perché si sta configurando una simbiosi tra tutela della formazione sociale e immaginario della sicurezza, che genera sia uno “Stato del controllo” che una “società del controllo”, cioè lo stravolgimento del rapporto tra statualità e cittadinanza.

Il neoliberismo autoritario alimenta il populismo penale, anche sul piano delle strutture istituzionali. Il capitale privato, come la pubblica amministrazione, sono pervasi da una vera e propria architettura di sorveglianza. Non a caso cresce una miriade di imprese specializzate nel mercato del controllo sicuritario: riconoscimento facciale, sorveglianza biometrica, ecc. Ha scritto giustamente Shoshana Zuboff, (la sociologa autrice de Il capitalismo della sorveglianza ndr) : «Stiamo pagando per farci dominare ; basta» Dobbiamo seguire il suo invito. Potremmo pagare amaramente le rimozioni dell’oggi: la democrazia, come la libertà, è indivisibile.Italo Di Sabato e Giovanni Russo Spena

Nella foto: frame di un video di una manifestazione degli attivisti climatici di Extinction Rebellion a Roma

Un referendum che conta e il tempo che stringe

C’è un referendum importante e c’è il tempo che stringe. Lo scorso 4 settembre Riccardo Magi di +Europa ha depositato alla Corte di Cassazione un nuovo referendum abrogativo che propone di modificare la legge che regola la concessione della cittadinanza italiana ai cittadini stranieri.

Mentre nel Parlamento si scioglievano i propositi estivi di Antonio Tajani e di Forza Italia il referendum propone di intervenire su due lettere del primo comma dell’articolo 9 della legge sulla cittadinanza, quello che stabilisce le modalità di concessione della cittadinanza italiana agli stranieri.

Si vuole portare per tutti gli stranieri maggiorenni a cinque anni il periodo di residenza legale nel nostro Paese necessario a chiedere la cittadinanza italiana. Come spiega Paolo Bonetti, professore di Diritto Costituzionale e pubblico dell’Università degli Studi di Milano Bicocca, «la legge del 1992 ha deciso, invece, uno spezzettamento di questi termini, riducendoli a quattro anni per i cittadini dell’Unione europea e portandoli da cinque a dieci anni per i cittadini degli Stati extra-Ue». 

Portare a cinque anni il tempo per richiedere la cittadinanza – sempre rispettando gli altri requisiti come conoscere la lingua, pagare le tasse e avere stabilità economica – allineerebbe l’Italia alle altre legislazioni dei paesi europei, come ad esempio la Germania che è intervenuta sullo stesso punto a fine giugno. 

Il quesito referendario deve essere depositato come le 500 mila firme richieste entro fine settembre. Si firma qui https://pnri.firmereferendum.giustizia.it/referendum/open/dettaglio-open/1100000

Buon martedì. 

Difesa respinta

Il responsabile editoriale di Pagella politica Carlo Canepa in poche righe ha demolito la retorica di Matteo Salvini sul caso Open Arms mettendo in fila i fatti.

Salvini afferma di essere a processo per aver “difeso i confini”, ma la realtà è più complessa. Il Tribunale dei Ministri lo ha indagato per possibile sequestro di persona e rifiuto di atti d’ufficio, in relazione al blocco della nave Open Arms nell’agosto 2019.

La cronologia presentata da Salvini non corrisponde a quella ricostruita dalle autorità. La Open Arms non stava “vagando” per raccogliere migranti, ma effettuava salvataggi e chiedeva ripetutamente l’assegnazione di un porto sicuro. Le offerte di aiuto da parte di Malta e Spagna, citate da Salvini, erano in realtà limitate o impraticabili date le condizioni a bordo.

Contrariamente a quanto affermato, lo sbarco di minorenni e persone vulnerabili non fu immediato, ma avvenne dopo giorni e diverse opposizioni. Inoltre, il secondo decreto di divieto d’ingresso nelle acque italiane fu firmato solo da Salvini, non da altri ministri come lui sostiene.

I dati sugli sbarchi citati dall’ex ministro sono parziali e non tengono conto che il calo era iniziato prima del suo mandato. Inoltre, sebbene il numero assoluto di morti in mare sia diminuito, la percentuale rispetto alle partenze è aumentata durante la sua gestione.

Infine, l’interpretazione di Salvini dell’articolo 52 della Costituzione sulla “difesa della patria” in relazione ai migranti appare forzata e discutibile.

Difesa repinta.

Buon lunedì.

Nella foto: la Open Arms attracca al porto di Crotone, gennaio 2024 (Francesco Placco)

Open Arms. Il pm chiede sei anni di carcere per Salvini, ma le responsabilità politiche sue e del governo sono ancora più gravi

Matteo Salvini sia condannato a sei anni di carcere per aver sequestrato a bordo della nave Open Arms 147 persone. È quanto hanno chiesto dopo una requisitoria di 7 ore, i Pm di Palermo per il leader della Lega che nell’estate di cinque anni fa, quando era ministro degli Interni del governo Conte, impedì lo sbarco a Lampedusa dei 147 migranti salvati da un naufragio dalla imbarcazione della Ong spagnola.
L’accusa è di aver messo a rischio la vita di persone, in gran parte vulnerabili, sopravvissute alle violenze fisiche e psichiche dei lager libici. Le responsabilità del ministro Salvini sono ora esposte sul piano giuridico.

Ma non possiamo trascurare quelle politiche sue, del governo Meloni, ma anche quelle che riguardano il ministro Marco Minniti esponente del governo Gentiloni che per primo stilò accordi con la Libia, foraggiando la cosiddetta guardia costiera, addetta a feroci respingimenti.

Tornando all’oggi, Salvini si difende dicendo di aver protetto i nostri confini e che lo rifarebbe ancora. Da cosa ci ha difeso dal momento che ha violato diritti umani? Da cosa ci ha difeso dal momento che l’Italia, ormai senescente, ha disperato bisogno di una iniezione di vitalità da parte dei migranti? I danni per l’Italia della sua visione e di quella del governo Meloni si vedono chiaramente nel decreto Cutro che restringe la protezione umanitaria, dei migranti e richiedenti asilo (violando la Costituzione), si vede nei sequestri di navi umanitarie, diffidate da fare salvataggi plurimi, costrette a raggiungere porti sempre più lontani da quelli vicini di approdo, producendo inutili sofferenze a richiedenti asilo e agli equipaggi.
La questione è più che mai urgente e a che vedere con l’accesso di canali legali di arrivo dei migranti in Italia per questo il numero di left in edicola lancia la proposta dell’abolizione della legge Bossi Fini, che sulla scia della legge Turco Napolitano, ha creato il reato di clandestinità e impedisce perfino l’incontro fra domanda e offerta nel mercato del lavoro.

Stefano De Matteis: Il pensiero dei nativi, un contributo per salvare il pianeta

«Gli sciamani oggi sono all’ordine del giorno» osserva l’antropologo Stefano De Matteis nel suo nuovo libro in cui analizza la diffusione del fenomeno, Gli sciamani non ci salveranno (Eléuthera) che il 14 settembre viene presentato al festival della filosofia a Modena (ore 10, tenda di piazza XX settembre).
Docente di Antropologia culturale all’università di RomaTre, De Matteis si è a lungo occupato di rappresentazioni simboliche, pratiche performative, processi rituali ed ha pubblicato numerosi libri. È anche uno dei più profondi conoscitori dell’opera di Ernesto de Martino, di cui ha curato la pubblicazione di alcune opere.

L’antropologia è una scienza tutto sommato giovane che risale alla metà dell’Ottocento per lo studio delle diversità tra società, purtroppo non del tutto immune dagli obiettivi degli Stati coloniali di consolidare i loro poteri sui territori di altri continenti. È comunque grazie ai primi antropologi che sono state raccolte e sono arrivate sino a noi le memorie di società diverse da quelle del mondo occidentale.
Gli sciamani, definiti anche “uomini medicina” o “guaritori” sono stati studiati per la loro capacità di assumere il ruolo di tramite con entità soprannaturali, attraverso pratiche di meditazione o raggiungendo stati di estasi, sviluppando tecniche taumaturgiche e divinatorie.
Se la scienza medica (la scoperta dei batteri, delle origini delle infezioni, etc.) ha soppiantato tali tecniche, in un mondo postcoloniale flagellato dalle crisi del capitalismo, dalla globalizzazione, dalla pandemia, gli sciamani sembrano rappresentare percorsi alternativi ai quali aggrapparsi.
L’autore, durante l’intervista che gentilmente ci ha rilasciato, ha sottolineato la linea portante del libro e cioè come l’Occidente ha utilizzato, negato o cancellato il pensiero nativo. A tal fine, ha ricostruito le biografie di sciamani del passato come Alce Nero, uno dei superstiti del genocidio delle tribù indiane del Nord America e quella di Tamati Ranapiri, dei Maori australiani, le cui memorie sono state riepilogate nel libro dell’antropologo francese Marcel Mauss Saggio sul dono.

Oggi si definiscono sciamani personaggi come Jake Angeli, il cui nome forse è sconosciuto ai più ma non la sua immagine che divenne virale il 5 gennaio 2021, quando vestito di pelli, il viso dipinto e con un copricapo di corna animali, partecipò all’assalto di Capitol Hill, il tempio della democrazia americana e Davi Kopenawa, della tribù Yanomani del Brasile, che dopo aver lavorato come traduttore nelle istituzioni governative si è riappropriato delle tradizioni della sua tribù trasmessegli da un vecchio sciamano, diventando portavoce dei nativi per la denuncia dei disboscamenti e dello sfruttamento delle terre.
Il libro di Stefano De Matteis offre tanti spunti di riflessioni, dall’antropologia alla politica, e per approfondirli gli abbiamo sottoposto alcune domande.

Professor De Matteis quali sono le differenze tra Jake Angeli, attualmente nelle carceri statunitensi e Davi Kopenawa che dà voce alla propria tribù per denunciare lo sfruttamento delle risorse dell’Amazzonia?

Enormi. Jake Angeli sarà ricordato come lo sciamano di un movimento politico che invade e occupa Capitol Hill, mentre Davi Kopenawa è uno sciamano riconosciuto che nella sua autobiografia racconta la sua iniziazione, ma anche lui diventa altro, perché a partire proprio dal libro La caduta del cielo. Parole di uno sciamano yanomami, considerato una nuova bibbia per gli emergenti movimenti ecologici, assume il ruolo del difensore della sua terra e simbolo per tutti coloro che cercano di porre rimedio ai danni realizzati dall’uomo bianco nell’intero pianeta. Sì, è vero, entrambi sono accomunati dal termine sciamano, ma con declinazioni completamente diverse: il primo incarna una tendenza, non solo americana, a ibridare, mettere assieme esperienze e pratiche molto diverse tra loro, per costruire una spiritualità fai da te, molto interessante da studiare e che coinvolge derive “politiche” importanti che in America sposano il movimento QAnon. Kopenawa invece mostra un sapere tradizionale che si inscrive in una precisa costellazione culturale, che lo porta a difendere la sua terra e lo fa non per finalità individuali o campanilistiche, ma per la salvezza dell’intero pianeta, producendo, nello stesso tempo, una fondamentale critica dell’uomo bianco e, soprattutto, alla sua avidità incarnata e inculcata dal capitalismo. Si tratta di una posizione che si traduce in una critica di carattere fortemente politico, in quanto Kopenawa, come Tamati Ranapiri, mettono in campo ipotesi alternative al sistema attuale.

Dopo quasi ottanta anni dalla fine della seconda guerra mondiale, sembriamo alle prese con una nuova catastrofe culturale, di cui si è occupato Ernesto de Martino. Lei pensa che l’antropologia, dopo di lui, possa essere in grado di dare risposte alle attuali crisi più di altre discipline alle prese con problemi come la cancel cultur, revisionismi, o il tentativo di riportare la violenza come tratto identificativo della natura umana?

Le parole di Ernesto de Martino ci indicano una strada che, con i necessari adattamenti e aggiornamenti, può essere ancora perseguita. Uno sguardo distaccato, l’analisi accurata dei processi sociali con la loro ricaduta storica, i nodi irrisolti, le invenzioni e le strategie degli attori. L’antropologia dovrebbe essere applicata fin dalle piccole cose, si dovrebbe insegnare ad accogliere la differenza e spiegare che la diversità è una grande risorsa. E questo anche rispetto al passato: non ha senso abbattere una statua, è molto più importante narrarla, spiegarla e discuterla e conoscerne il perché c’è e cosa ha rappresentato. L’antropologia insegna che non si nasce avidi, sfruttatori e violenti. Si nasce semplicemente uomini e donne in sistemi sociali che ci indicano come diventare e cosa essere. Ma abbiamo la possibilità di scegliere e di opporci a quei sistemi, e in molti casi di ribellarsi. Altrimenti ne diventiamo complici. E l’angelo della storia evocato da Benjamin ha sempre più orrore da quanto vede nel mondo.

Ernesto de Martino nel suo testo Furore, simbolo, valore usa le parole “sciamano” e “sciamanizzare” per definire Adolf Hitler e la sua attività nel suo delirio nazista di violenza. Qual era il suo pensiero verso la figura simbolico-religiosa dello sciamano?

Nella sua opera c’è una doppia interpretazione dello sciamanesimo: all’inizio, nel Mondo magico, De Martino si rifà allo sciamanesimo tradizionale elaborando una comparazione tra etnografie molto diverse tra loro che gli permette di declinare in modi diversi le tecniche incarnate dai singoli operatori. Questo gli favorisce anche riferimenti alla parapsicologia, alla telepatia e a pratiche anche occidentali di cui si è occupato e di cui si parla troppo poco. Per arrivare poi al secondo capitolo, “Il dramma storico del mondo magico”, in cui pone la questione dell’affermazione del Sé nella realtà storica, dando così forma a quella straordinaria formulazione della «presenza» dell’uomo nel mondo. Una prospettiva completamente diversa è quella del saggio raccolto in Furore simbolo valore, tra l’altro un testo di dieci anni precedente che rielabora e riscrive quasi completamente, in cui intreccia il bilancio della sua vita di studioso con i cambiamenti in atto. Dichiarando che lo stimolo agli studi etnologici non fu «la bramosia di lontane esperienze ataviche», ma l’esigenza di veder chiaro, di far luce sul rigurgito proprio di quelle esperienze nel costume della sua epoca. E da qui la necessità di capire l’uso strumentale del passato, dei simboli e, soprattutto, della forza che questi possono avere, anche irrazionalmente, su intere popolazioni. Da questa prospettiva basta pensare ai simboli e alla rifunzionalizzazione nefasta di concetti come quelli di razza, così come sono stati utilizzati non solo dal nazismo, ma anche dal fascismo che li ha fatti propri. Ma basta guardarsi intorno oggi, per vedere quanti altri dittatori sono ancora lì a «sciamanizzare» dentro e fuori l’Europa. E qui l’etnologia ha un ruolo fondamentale perché, come suggerisce de Martino alla fine del saggio citato, è solo l’incontro e il dialogo con l’ethnos che «saprà aiutare l’Occidente a ritornare su se stesso e a trasformare i suoi feticci in problemi».
Parole quanto mai necessarie anche per l’oggi.

L’autrice: Sonia Marzetti è storica e animatrice del Gruppo Storia

Nella foto: lo sciamano Davi Kopenawa (Fernando Frazão/Agência Brasil)