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No peace no panel

No peace no panel

Video della tavola rotonda

Una proposta per il Servizio Pubblico su media e racconto della guerra
Su iniziativa della Presidente della commissione di vigilanza Rai, Barbara Floridia

martedì 25 giugno alla Sala CAPITOLARE
Senato della Repubblica – Piazza della Minerva 38, Roma

Ha introdotto
Barbara Floridia
Presidente della commissione di vigilanza RAI

Sono intervenuti
Carlo Bartoli, presidente Ordine dei giornalisti
⁠Vittorio Di Trapani, presidente Federazione nazionale stampa italiana
⁠Monica Pietrangeli, esecutivo Usigrai
⁠Enzo Nucci, Articolo 21
⁠Manuele Bonaccorsi, cdr Approfondimento Rai
⁠Max Brod, giornalista Approfondimento Rai
Roberto Zuccolini, Comunità di Sant’Egidio
⁠Francesco Vignarca, Coordinatore campagne Rete italiana pace disarmo
Simona Maggiorelli, direttrice di Left

 

A oltre due anni dall’inizio del conflitto in Ucraina e con l’aggravarsi di altre crisi, come quella a Gaza, la voce di chi chiede con forza la pace e il dialogo latita negli studi televisivi, dove si costruiscono troppo spesso parterre senza la voce dei pacifisti.
Ovunque il dibattito pubblico è animato quotidianamente dal tema della guerra. Eppure, i rappresentanti dei movimenti nonviolenti non sono quasi mai interpellati, le associazioni pacifiste non compaiono tra gli ospiti dei talk televisivi, l’analisi degli scenari è affidata quasi sempre alla voce unica degli analisti geopolitici se non direttamente a militari ed ex militari. Diventa così difficilissimo immaginare percorsi di pace, sviluppare un dibattito che informi i cittadini sulle alternative al bellicismo, stimolare la politica e la diplomazia a costruire quei tavoli e quei confronti necessari a far cessare i conflitti senza ulteriore spargimento di sangue.
La proposta nasce nell’ambito del panel organizzato dai sottoscrittori dell’appello “Diamo voce alla pace” dopo due anni dalla sua prima pubblicazione. “Da sempre l’informazione italiana è votata al pluralismo e all’equilibrio informativo, ma se in tempo di pace l’equilibrio si svolge nelle dinamiche tra maggioranza e opposizione, sindacati e imprenditori, procura e avvocati difensori e così via, in tempo di conflitto dobbiamo urgentemente rivedere i nostri schemi. In tempo di conflitto l’unico contraddittorio all’altezza della guerra: è la pace” recita l’appello.
Nel solco della mission Rai, si individua quindi un necessario adeguamento del concetto di pluralità delle voci e garanzia di contraddittorio, in un nuovo scenario mondiale nel quale i mezzi d’informazione si occupano per ore del tema della guerra. Uno standard necessario per una comunicazione pubblica all’altezza dei tempi che stiamo vivendo. Così al pari dell’iniziativa “No Women No Panel” – che su impulso dalla Commissione europea per una rappresentazione paritaria ed equilibrata nelle attività di comunicazione, è stata sottoscritta dalla Rai – si inaugura la campagna “No Peace No Panel” per una rappresentazione paritaria ed equilibrata delle opinioni sulla guerra nei dibattiti tv e non solo. Un nuovo decalogo che nasce nel tentativo di colmare le attuali carenze nel sistema informativo italiano.

Genocidio dei Rom e Sinti, 2 agosto 1944. Ma l’Italia ancora non lo riconosce

Il 2 agosto 1944, 80 anni fa, vennero sterminati 2.897 uomini donne e bambini Rom e Sinti nei campi di concentramento e sterminio di Auschwitz-Birkenau. Quella sera venne imposto loro il divieto di lasciare le abitazioni di legno e, nonostante la rivolta, vennero condotti nelle camere a gas e i loro corpi bruciati nei forni crematori. Per questo è stata scelta la data del 2 agosto per commemorare il “Samudaripen”. Ad Auschwitz-Birkenau furono uccisi almeno 23mila Rom e sinti, mentre secondo le stime più accreditate in tutta l’epoca nazista furono circa 500mila i Rom e sinti sterminati nei lager, nei ghetti o alla cattura. In alcuni Paesi oltre l’80 % della popolazione rom e sinti venne sterminata. In Italia sotto il regime fascista di Benito Mussolini, le circolari dell’11 giugno 1940 e dell’11 settembre 1940, n. 44509 e n. 63462 permisero il rastrellamento e l’internamento nei campi di concentramento dei rom e sinti italiani e non. In Italia furono attivi tre campi di concentramento fascisti per rom e sinti: quello di Boiano e di Agnone, in provincia di Campobasso, e quello di Tossicia, in provincia di Teramo. Membri della popolazione rom e sinti furono poi catturati dall’Italia dopo l’8 settembre 1943.

Dopo la guerra, la negazione dell’Olocausto dei Rom e Sinti fu immediata così come la specificità del loro dramma. Nessun sopravvissuto fu ascoltato al processo di Norimberga, benché molte furono le testimonianze di altri sulle torture da essi patite. Nessuna conseguenza subirono due tra i loro maggiori persecutori: lo psichiatra Robert Ritter e la sua assistente Eva Justin, che avevano teorizzato le fondamenta pseudoscientifiche della loro persecuzione. Nel 1980, il Parlamento della Germania Occidentale riconobbe ufficialmente che la persecuzione dei Rom ad opera dei nazisti era stata motivata dal pregiudizio razziale, aprendo così la possibilità, per la maggior parte dei rom e sinti, di fare domanda di risarcimento per le sofferenze e le perdite subite sotto il regime nazista. Nel 2012 in Germania la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente Joachim Gauck hanno inaugurato a Berlino il monumento dedicato ai 500mila Rom e Sinti uccisi dal nazifascismo nei giardini del Tiergarten, non lontano dal monumento dedicato alle vittime della Shoah del 2005.

Il Parlamento europeo lo aveva già riconosciuto nel 2015, invitando tutti i Paesi membri dell’Unione europea a fare altrettanto. Visto l’importante anniversario e il fatto che l’Italia non ha ancora riconosciuto a distanza di 80 anni tale genocidio, è nata una proposta di legge di cui il promotore e primo firmatario è l’onorevole Devis Dori (Avs), ma che sarà firmata da tutto il gruppo parlamentare Avs. La proposta di legge nasce anche su spinta dello storico Andrea Vitello che ne ha curato la motivazione storica. Il 29 luglio presso la sala stampa della Camera dei deputati, si è svolta la conferenza stampa, per presentare la proposta di legge in oggetto, alla quale hanno partecipato: Devis Dori, Avs, primo firmatario e promotore proposta di legge; Luana Zanella capogruppo Avs; Andrea Vitello storico, scrittore – membro esecutivo nazionale Gev, con diploma di perfezionamento allo Yad Vashem sulla Shoah, autore di vari libri e collabora con varie testate; Moni Ovadia attore, regista e scrittore; Carla Osella presidente nazionale A.i.z.o. rom sinti direttore responsabile della rivista Rom e sinti oggi, scrittrice di oltre 50 pubblicazioni, nominata presso il Parlamento di Belgrado World Roma Organization commissario internazionale del Porrajmos; Santino Spinelli (musicista, docente universitario, scrittore, qui un suo testo per Left). Gennaro Spinelli presidente nazionale Ucri.

Camera dei deputati, conferenza stampa della presentazione della proposta di legge, 29 luglio 2024. Da sinistra Santino Spinelli, Andrea Vitello, Devis Dori, Luana Zanella, Gennaro Spinelli, Carla Osella.

La proposta di legge prevede che in occasione della Giornata nazionale tutti gli enti nazionali e locali e le scuole promuovano cerimonie, convegni e altre attività volte a ricordare il genocidio dei rom e dei sinti. Moni Ovadia, in un videomessaggio, ha detto: «Sono trascorsi ottant’anni dal genocidio di rom e sinti e ancora non si è provveduto a riconoscere il loro martirio». La deputata Luana Zanella ha dichiarato: «Abbiamo bisogno di costruire una società a misura delle differenze, che non voglia omologare, ma rispettarle e includerle e questo si può fare attraverso la conoscenza dell’altro, recependola come importante per se stessi».
E a proposito della proposta di legge, lo storico Andrea Vitello, ha sottolineato: «Lo scopo non è solo quello di garantire alla comunità rom e sinti il diritto alla memoria, inviolabile e sacro per ogni uomo, popolo e nazione, nel patrimonio civile e culturale dell’Italia, ma contribuire a combattere il pregiudizio e la discriminazione di cui questa popolazione è ancora vittima. Visto anche l’anniversario, l’approvazione di questa legge aiuterebbe anche la riscoperta di questo genocidio nelle scuole e nell’opinione pubblica al fine di mantenere viva la sua memoria storica. Ad oggi in Italia secondo il Consiglio d’Europa vivono circa 110mila o 170mila persone rom e sinti, di cui circa 70mila con cittadinanza italiana, quindi circa lo 0,25% della popolazione, una tra le percentuali più basse in Europa».

Andrea Vitello ha poi parlato dei ritardi e delle lacune del nostro Paese: «L’Italia non ha ancora riconosciuto a questa popolazione lo status giuridico di minoranza linguistica, cosa che ha riconosciuto con la legge n. 482 del 15 dicembre 1999 recante “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche” a 12 minoranze linguistiche: albanese, catalana, germanica, greca, slovena, croata, francese, franco-provenzale, friulana, ladina, occitana e sarda. Il mancato riconoscimento di questo status rappresenta una discriminazione che soltanto una successiva legge potrà aggiustare. Inoltre nel maggio 2024 il Comitato europeo dei diritti sociali del Consiglio d’Europa, all’unanimità ha preso la decisione secondo cui l’Italia ha gravemente e sistematicamente violato la Carta sociale europea riguardo alla situazione abitativa dei rom, e quindi deve promuovere un cambiamento nelle politiche discriminatorie italiane in materia di alloggio. Tale decisione è arrivata a seguito di una denuncia presentata da Amnesty International il 18 marzo 2019, e attualmente non vi sono stati miglioramenti considerevoli. Per questo l’approvazione di questa legge dovrà rappresentare il primo nuovo passo per contrastare la discriminazione contro i rom e sinti in Italia».

Nella foto: Asperg, 22 aprile 1940: gruppo di Rom e sinti rastrellato per essere deportato

I treni che non arrivano

Mentre la politica italiana discute del sesso dei pugili trainata da una donna che si fa chiamare al maschile la rete ferroviaria del Paese barcolla sotto i colpi dell’insipienza dell’infantile politica del ministro Matteo Salvini. 

Là dove non arrivano gli incendi e la strutturale debolezza si aggiungono i lavori di manutenzione e di potenziamento programmati nelle settimane più trafficate dell’anno, creando disagi che per essere silenziati hanno bisogno di un’olimpica distrazione di massa. 

Sulla tratta Pescara-Bari i treni dell’Alta velocità, gli Intercity e i Regionali accumulano quasi quotidianamente ritardi che si avvicinano alle due ore. Le linee Torino-Milano-Venezia, Milano-Bologna e Roma-Firenze sfasano da giorni, preparandosi ai prossimi lavori sulla linea che istituzionalizzeranno i disagi. 

L’Osservatorio nazionale di Federconsumatori raccontano di fortissimi disagi in Calabria, Toscana, Lazio e Veneto. La cosiddetta Alta velocità si è fermata a Battipaglia andando verso sud e i treni non superano Reggio Calabria verso nord, dovendo ripiegare su bus a Bassa velocità. 

Gli italiani ostaggi della rete ferroviaria durante il periodo estivo in altri tempi sarebbe stato lo spunto per un’indignazione popolare da prime pagine e da dolenti servizi televisivi. Basterebbe, del resto, mettere il microfono sotto il naso di qualcuno delle migliaia di viaggiatori arrabbiati pesti. 

Tutti i microfoni dei giornali servili (gli altri, sia sa, sono ritenuti “corrotti” dal governo) stanno sotto il naso del ministro e della presidente del Consiglio che, in veste di endocrinologi e genetisti, lasciano scorie in giro. 

Buon venerdì.   

Prospettiva. Per una nuova sinistra

Ci siamo sempre chiesti su Left cosa sia o cosa dovrebbe essere la sinistra. Non pensiamo che le cose siano così chiare. Ci sono stati pensatori che hanno codificato teorie politiche che poi sono state definite come teorie di sinistra. Così come ci sono stati altri che hanno codificato teorie politiche di destra o altri ancora che non vogliono definirsi né di destra né di sinistra.
Come sappiamo la definizione “di destra” o “di sinistra” risale alla collocazione dei deputati nell’assemblea nazionale francese ai tempi della rivoluzione del 1789. Quelli di sinistra erano per i diritti del “popolo” cioè di chi non era parte né della nobiltà né del clero. Dalla parte di chi non aveva diritti. Le idee dell’illuminismo avevano portato ad un pensiero che diceva che tutti gli uomini sono uguali perché tutti hanno la “ragione”, qualcosa che appunto essendo di tutti rende tutti uguali.
Rimaneva il problema delle donne e dei bambini che sono sempre stati considerati senza ragione. Come facevano ad essere considerati esseri umani anche loro? Certo i bambini, perlomeno quelli maschi poi diventeranno uomini, acquisiranno la ragione. Ma le donne? Le donne vennero relegate ad essere qualcosa di accessorio, come sempre era stato nella storia, a badare ai bambini e alla casa. Accessori della “vera umanità” che era quella degli uomini, dei maschi della specie che avevano il dono della ragione. E venne quindi codificato che l’identità umana, ciò che in effetti rende gli esseri umani “umani” ovvero differenti dagli animali sia la ragione.
Sulla base di questo assunto si è fatta la storia degli ultimi 235 anni. L’uguaglianza della ragione non ha però fermato l’affermazione di teorie tragicamente distruttive, come il fascismo e il nazismo, entrambe realtà che facevano della ragione uno dei loro pilastri fondamentali. Perché il pensiero razionale non ha affetti, non valuta il senso delle cose. Esso è in grado di elaborare ragionamenti utilitaristici che sono del tutto disumani. Il pensiero razionale è completamente astratto quando si tratta di rapporto con la realtà umana. Tutto si riduce ad un utile materiale, l’io sono non comprende mai una realtà umana esterna a sé. L’altro è cosa che può essere usata come utensile.
Parallelamente la realtà umana non razionale viene teorizzata essere un non pensiero, un caos dissociato e confuso, aggressivo, violento. Qualcosa di non umano perché non razionale e che viene di conseguenza classificato come animale, facendo un corto circuito di pensiero del tutto illogico nel pensare che gli animali non siano razionali in quello che fanno.
Malgrado questi “difetti” teorici l’illuminismo e la Rivoluzione francese hanno determinato un cambiamento epocale nell’organizzazione degli Stati. Il modello dello Stato liberale con la separazione dei poteri teorizzata da Montesquieu ha permesso ai diritti della persona di essere definiti e tutelati sempre più precisamente nel corso dei secoli e lo Stato se n’è fatto tutore. Per quanto ci sia una visione parziale della realtà umana, la ragione ha, mano a mano, dovuto accettare una visione più ampia dell’essere umano, più integrata a comprendere ed accettare anche ciò che non è se stessa. Il concetto di libertà e quello di uguaglianza, cardini della Rivoluzione francese e necessari al corretto funzionamento della società liberale sono stati nel tempo estesi grazie alle lotte politiche di tutti coloro che ne erano esclusi. Le donne, gli operai.
Ma torniamo alla domanda iniziale: cosa vuol dire essere di sinistra? E cosa vuol dire questa affermazione per una persona “normale”, per un elettore o un simpatizzante? È un pensiero razionale sulla realtà e sui rapporti tra gli esseri umani? È un pensiero razionale sulla società? Io penso di no.
Il pensiero razionale è realmente uguale per tutti. Non cambia. È una logica deduttiva che da una percezione passa ad un pensiero di carattere deduttivo. Non ha un contenuto soggettivo o meglio non lo dovrebbe avere in quanto pensiero freddo. In questo senso il pensiero razionale è uguale per tutti, sia per chi è di sinistra sia per chi non lo è.
Io penso si possa invece dire che l’essere di sinistra corrisponde ad avere degli affetti, un indefinito amore per gli altri per i quali abbiamo un pensiero di volere che essi abbiano diritti e possibilità che ancora non hanno. Un’idea di speranza di miglioramento futuro, un miglioramento che sia per l’umanità in generale, senza distinzione di nazionalità o di etnia o di lingua. C’è senza dubbio un’idea di uguaglianza tra tutti gli esseri umani, anche i più distanti da noi. Un’idea di non pensare ad una differenza che sia sulla base di caratteri somatici o di nazionalità.
Un’idea di rapporti tra gli esseri umani che sono fatti di dinamiche complicate, che possono essere affetti belli e anche affetti brutti. Un’idea di comprendere che tutti possiamo fare errori, che tutti possiamo avere avuto delusioni e che quelle delusioni possono averci portato a diventare brutti. Un’idea di amore per gli altri per volere che gli altri abbiano la possibilità di essere belli e felici. Sono questi affetti che, quando si trasformano in idee ed azione, diventano politica. Dovremmo allora interrogarci e chiederci in che modo fare questa trasformazione di affetti in idee ed azione possa essere un’azione rivoluzionaria non distruttiva, una politica che non vada a finire nell’odio e nella distruzione materiale che inevitabilmente, come la storia insegna, diventa fallimento.
Dobbiamo trovare idee nuove, che ci permettano di comprendere i rapporti tra noi, di comprendere perché la sinistra è sempre infinitamente divisa al suo interno, comprendere quali sono le idee pericolose da allontanare perché si fingono essere di sinistra per sabotare dall’interno ogni speranza e ogni possibilità. Dobbiamo comprendere come rendere la politica nuova, una politica che faccia tornare la speranza alle persone, una speranza in un futuro più bello per tutti. Può servire a definire la sinistra capire quali sono le idee della destra? In realtà è molto semplice. La destra non ha nessuna idea se non quella della sopraffazione dell’uno sull’altro. Perché l’idea dell’essere umano della destra è un’idea di essere umano solipsistico senza rapporto con gli altri, il cui unico scopo è l’affermazione di se stesso. L’idea che la realizzazione umana sia per una idea astratta di libertà a prescindere da tutti, contro tutti, una sorta di “liberazione” assoluta dall’umano per realizzare un’idea astratta di essere. Questo per tutti quelli che sono riusciti ad essere del tutto senza affetti. Tutti gli altri, quelli che si ribellano alla eliminazione dei propri affetti, vanno tenuti a bada, costretti con la violenza fisica a comportarsi moralmente. In questo la religione monoteista, quale che sia delle tre, è un’alleata formidabile. Come ebbe a dire nel 2011 il prof. Massimo Fagioli in una bellissima intervista a YouDEM, la cultura della destra non esiste, c’è solo il pensiero religioso. Non c’è ricerca, non c’è idea sugli altri che non sia lo sfruttamento dell’altro per i propri fini personali.
Noi di Left pensiamo che il pensiero di sinistra sia naturale e necessario. Naturale perché qualunque bambino sa di un’uguaglianza di tutti gli esseri umani. Non può esistere (e non esiste) un bambino “di destra”. E qui la tristezza è sapere che ci sono teorie psicologiche ancora tanto comuni che pensano il bambino come una realtà perversa e violenta quando è evidenza ovvia di chiunque che non è per niente così. E la tristezza è per la sinistra che si lascia ingannare da questa idea violenta di bambino, che non capisce che accettando questa idea di fatto si dice che è la destra ad avere ragione perché il nuovo nato sarebbe spontaneamente di destra. Allora la sinistra si arrampica sugli specchi e teorizza una uguaglianza “razionale”, costruita su una morale che non può che essere astratta e codificata in base a regole che inevitabilmente finiscono per essere il precetto religioso.
Ma pensiamo anche che il pensiero di sinistra sia necessario perché corrisponde a quel pensiero non razionale che è fatto di affetti ed immagini, che è fatto di sensazioni di passione e amore per le realizzazioni degli altri, che è fatto di tristezza per le tragedie che leggiamo ogni giorno sui giornali, che è fatto di immagini che sanno di una storia dell’umanità e che pensano ed agiscono in una prospettiva di trasformazione di sé e degli altri verso un futuro più bello, malgrado il tragico presente.
Un’idea che viene dal cuore e pensa che tra mille anni ci sarà un’estate che sarà la più bella che c’è mai stata per tutti.

La destra e il Piano di rinascita democratica

Dal 20 luglio scorso è cominciata la lunga estate militante della raccolta firme per il referendum abrogativo dell’autonomia differenziata, che in pochi giorni ha già raggiunto più di 500mila firme. Su Left abbiamo scritto molto su questo tema negli anni, e abbiamo anche pubblicato un libro. Ma non basta, dobbiamo moltiplicare gli sforzi.  Questo è solo il primo fra molti step, di cui il più arduo sarà convincere i cittadini ad andare a votare in massa per poter raggiungere il quorum necessario. Ricordiamo bene cosa avvenne nel 2005 con il referendum sulla legge 40/2004 sulla fecondazione assistita con interventi a gamba tesa del cardinal Ruini e di tutta la Cei che invitarono i cittadini a disertare le urne. Questa volta (e perché non sono in primo piano i diritti delle donne) persino la Cei, insieme all’Anci, e a Banca d’Italia ha espresso un parere pesantemente negativo sulla legge Calderoli, che spacca l’Italia e cancella i diritti universali sanciti dalla Costituzione.

Veniamo ai fatti: l’autonomia differenziata, togliendo il fondo di perequazione economica e sostanzialmente dicendo “chi ha di più ha più servizi, chi ha di meno si arrangi”, aumenta le disuguaglianze non solo tra Nord e Sud ma anche tra aree urbane e interne, e all’interno delle stesse Regioni e delle medesime aree urbane, tema della storia di copertina di questo numero di Left.

L’Italia non sarà più una e indivisibile (in barba all’art. 5 della Carta) e tanto meno solidale. La sanità, l’istruzione e l’assistenza agli anziani non autosufficienti, come denuncia su questo numero la segretaria Spi Cgil Tania Scacchetti, sono gli ambiti in cui la legge leghista (fatta propria da tutto il centrodestra) impatterà in maniera più devastante.

Il principio alla base del provvedimento passato alla Camera e al Senato è la messa in competizione dei territori, cristallizzando e amplificando le disuguaglianze attuali. Già oggi il servizio sanitario pubblico è a macchia di leopardo, con tanti cittadini costretti ad emigrare dalla propria Regione per poter accedere a cure mediche adeguate. Ma tanti non possono spostarsi perché costa.

Già oggi i cittadini italiani non hanno le stessa speranza di vita ovunque, poiché la qualità dei servizi cambia da Regione a Regione. Questo tradimento dei diritti costituzionali e di uguaglianza, che sono alla base della nostra Carta (vedi l’art. 3) diverrebbe sistematico, giustificato, legalizzato con l’autonomia differenziata.

Per fermare questo scempio di certo non basta l’osservatorio nazionale proposto da Tajani di Forza Italia. E non basta l’individuazione dei Lep, i livelli essenziali di prestazione. Come sappiamo già dalla vicenda annosa dei Lea (livelli essenziali di assistenza) non basta individuarli, vanno anche finanziati. Ma anche se lo fossero (cosa che, ripetiamo, non è all’orizzonte) rimarrebbe il vulnus di prestazioni solo minimali. Attenzione dunque alla pericolosa contro proposta di un quesito abrogativo parziale che viene dalla Regione Campania guidata da De Luca, che si accontenterebbe dei Lep, come hanno evidenziato il costituzionalista Massimo Villone e l’economista Gianfranco Viesti, autore dell’ormai celeberrimo Contro la secessione dei ricchi (Laterza).

Nei fatti (Lep o non Lep) con l’autonomia differenziata il diritto all’accesso alle cure (vedi art.32 della Carta) viene sostituito da uno ius domiciliis; un diritto universale diventa una variabile del codice postale. Come si può ben capire, non stiamo parlando di questioni tecniche, ma eminentemente politiche, che toccano direttamente la vita dei cittadini. Dunque la posta in gioco è altissima e chiede l’impegno davvero di tutti.

Il primo passo proficuo, come accennavamo, è stato già compiuto: 34 sigle di partiti, sindacati, associazioni hanno depositato in Cassazione un unico quesito referendario per l’abrogazione della legge Calderoli, secco, diretto, del tipo: “Vuoi tu che sia abrogata la legge 26 giugno 2024, n. 86, Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione?”. Questa è la domanda cruciale. Altri quesiti parziali non sono accettabili. Una volta raccolte le firme la parola passa alla Corte costituzionale che deve vagliare l’ammissibilità del quesito perché la Costituzione non consente che qualsiasi legge possa essere sottoposta a referendum popolare.

Un rischio di inammissibilità del quesito c’è, ma va corso. Al contempo vanno provate tutte le strade, compresa quella dei ricorsi di 5 Regioni alla Consulta. Intorno alla proposta di raccolta firme per il referendum si è registrata un’ampia convergenza nel centrosinistra. Oltre alla Cgil e al comitato contro ogni autonomia differenziata (che lavora su questo tema da sei anni) si sono mobilitati molti partiti, dal Pd al M5s, da Rifondazione a alleanza Verdi e Sinistra, da Potere al popolo a Italia Viva.

Convergenza programmatica importante, ma certo non si può parlare di coalizione e nemmeno di campo largo. Il motivo è evidente. Se le cose andranno come si spera l’anno prossimo in primavera si potrà andare a votare per il referendum contro la legge Calderoli ma anche per quello contro il Jobs act per il quale la Cgil ha già raccolto 4 milioni di sottoscrizioni. Di quella pessima riforma, che ha aumentato la precarietà nel mondo del lavoro, fu padre proprio Renzi, a cui si deve anche l’altrettanto pessima riforma, detta La Buona scuola. Attenzione dunque a parlare affrettatamente di nuovo fronte popolare italiano per mandare a casa le destre, perché sotterraneamente e non Italia Viva più volte è apparsa disposta a fare da stampella al governo Meloni sul premierato: “deforma” eversiva, come l’avrebbe definita l’avvocato Felice Besostri, perché impone una svolta autoritaria al nostro ordinamento, cancella pesi e contrappesi, riduce il presidente della Repubblica a un passacarte, costituzionalizza un premio di maggioranza tale che al confronto quello previsto dalla legge truffa era poca cosa e, soprattutto, svuota di senso il voto dei cittadini chiamandoli a un plebiscito ogni cinque anni e marginalizza il Parlamento. Tutto questo senza sapere con quale legge elettorale si voterà.

Il combinato disposto fra autonomia differenziata e premierato segna la morte della nostra democrazia costituzionale nata dall’antifascismo. Licio Gelli avrebbe avuto di che gioire vedendo realizzato in buona parte il suo noto Piano.

Nella foto: firme  contro l’autonomia differenziata (dalla pagina fb Contro ogni Ad)

Caratteri, parole, immagini nell’arte di Xu Bing

L’artista di origini cinesi Xu Bing (Chongqing, Cina, 1955) ha recentemente presentato in Italia due suoi ultimi lavori, molto diversi nella scelta dei media e delle tecniche utilizzate ma emblematici del lungo percorso dell’artista e delle tematiche da lui esplorate nelle sue opere: la funzione della scrittura, il dialogo e l’interazione culturale, la comunicazione tra esseri umani di diverse estrazioni culturali.
La prima mostra, intitolata A moment in time e inaugurata il 22 maggio scorso nella sala espositiva dell’American Academy di Roma, consiste in un’installazione che presenta, affiancati e in una sorta di ideale dialogo e confronto, i monumentali calchi su carta di una porzione della Grande Muraglia cinese e di un tratto della via Appia antica, simboli di due grandi imperi del passato che dialogano così silenziosamente tra loro evocando storie di civiltà e di interscambi culturali fra passato e presente.
La giustapposizione delle due opere, integrate e visualizzate insieme nell’installazione, non costituisce tuttavia solo un accostamento emblematico tra due civiltà ma anche un raccordo ideale tra due “momenti nel tempo” del percorso professionale di Xu Bing, gli inizi e il presente.
Il calco dei basoli dell’Appia è stato infatti realizzato dall’artista quest’anno, durante il periodo di residenza trascorso presso l’istituzione americana, utilizzando la stessa tecnica impiegata da Xu Bing nell’opera che lo affianca, Ghosts Pounding the Wall (Gui da qiang, 1990-1991), creata quasi quarant’anni fa all’inizio della sua carriera artistica.
Per secoli, in Cina, letterati e uomini di cultura hanno infatti utilizzato la tecnica tradizionale nota come tayin, “sfregamento”, per realizzare copie perfette, bidimensionali, di monumenti in pietra, soprattutto di antiche iscrizioni incise su steli o altri manufatti. In questo modo, le copie su carta di vestigia monumentali del passato, saldamente ancorate nel loro spazio e contesto originario e quindi inamovibili per loro stessa natura, potevano essere così copiate su carta, trasportate facilmente anche lontano dal sito per essere poi studiate più agevolmente ed apprezzare così anche i dettagli estetici della calligrafia utilizzata nell’iscrizione. Queste opere realizzate con la tecnica del ricalco rappresentano tappe importanti nella ricerca di Xu Bing incentrata sulle tecniche di copiatura e stampa, da lui avviata fin dagli anni successivi al conseguimento del diploma in xilografia presso l’Accademia centrale di belle arti di Pechino, nel 1977.

Luciano Bianciardi. Un uomo libero

La vita agra, il grande romanzo di Luciano Bianciardi incentrato sul lavoro, sul sacrificio, sulla fatica, sulla tragedia e sulla sognata vendetta, racconta tra le tante cose anche le angosce profonde che attanagliano i traduttori, quelli di ieri e quelli di oggi.
Angosce legate alle consegne editoriali, ai pagamenti, al dovere di sbarcare sempre e comunque il lunario: «Bisogna lavorare tutti i giorni, tante cartelle per questo e quello e quell’altro, fino a far pari, anche la domenica. Se ti ammali non hai mutua, paghi medico e medicine lira su lira, e per di più non sei in grado di produrre, e ti ritrovi doppiamente sotto».
Non è possibile tenere lontano il Bianciardi scrittore dal Bianciardi traduttore, perché parte del suo lavoro culturale fu proprio, e molto a lungo, il mestiere di prestare la propria voce, il proprio ingegno, alla voce e agli ingegni altrui. In modo resistente, tenace: «Venticinque giorni a cartelle piene, cinquecento cartelle mensili complessive, che a quattrocento lire l’una danno duecentomila lire mensili. Sessanta vanno a Mara, trenta al padrone di casa, dieci fra luce gas e telefono (e d’inverno anche di più, perché bisogna tenere acceso quasi tutto il giorno, mentre d’estate si consuma meno luce, ma bisogna lavarsi più spesso, e allora quello che hai risparmiato di lampadine ti va per lo scaldabagno), venti di rate fra mobili, vestiti e libri (si potrebbe anche non leggere, ma i vocabolari li devi comprare), quindici fra sigarette, caffè, giornali e qualche cinema, cinque fra pane e latte, e ti restano sessantamila mensili per il companatico e gli imprevisti».
Un grande ritratto del precariato letterario di oggi, si dirà. C’è però un luogo del romanzo in cui la tensione lavorativa lascia il campo all’abbandono: dopo una faticosissima consegna, il protagonista si concede una fantasticheria, una rêverie tutta irlandese: «Mi piacerebbe tanto visitar l’Irlanda, e specialmente la città di Dublino. Quando la nave entra a Dun Laghaire, dal ponte vedi il sole che tenta di affacciarsi alle colline. Eccole lì, le colline, ferme e ordinate dolcemente attorno alla baia: Capo Bray, il Pan di Zucchero, le Due Rocche, le Tre Rocche, Kippure, la regina fra tutte, che leva alta la testa minacciosa sopra le spalle delle altre che digradano sulla città».
Questo viaggio della mente, nel luogo del sogno, è però una continuazione naturale del lavoro culturale di Bianciardi. Sta infatti chiaramente pensando a un autore che ha da pochi anni tradotto, Brendan Behan, e al suo Borstal Boy (uscito per Feltrinelli nel 1960 col titolo Il ragazzo del Borstal). Il libro si chiude proprio col ritorno del giovane protagonista nella sua Dublino, dopo un soggiorno forzato in una istituzione di rieducazione minorile in Inghilterra. E le parole che usa Bianciardi sono esattamente sovrapponibili a quelle che chiudono il libro dell’irlandese, persino evocato, ma col suo nome gaelico forse per giocare un po’ di più a nascondino col lettore: «Poco prima del barcarizzo l’amico Breandan O’Beachain, piccolo e tozzo, con quella testa, dicono, da imperatore romano gonfio di sidro, stringe la mano al funzionario, un viso triste, da contadino istruito, come un maestro insomma».

Quel che resta dell’impero è il razzismo

Nel dibattito pubblico italiano le affermazioni di stampo razzista fanno parte della “normalità”, sono un dato acquisito su cui ci si può indignare, ma che, raramente danno luogo a provvedimenti giudiziari e che, soprattutto, non destano riprovazione sociale. Si impone una narrazione, fondata su ipocrisia e scarsa conoscenza della storia secondo cui “gli italiani non sono razzisti ma reagiscono all’immigrazione incontrollata”. Come a dire che, chi subisce atti di discriminazione, anche violenta, in fondo, restandosene a “casa” propria, li avrebbe evitati, “se la sono cercata”.
Ma la percezione dell’Italia fondata su una identità bianca e cristiana, non nasce ora e ed è connessa con una tematica mai seriamente affrontata, quella del passato coloniale. La lettura del volume Storia del colonialismo italiano. Politica, cultura e memoria, dall’età liberale ai nostri giorni, di Valeria Deplano e Alessandro Pes e pubblicato da Carocci, aiuta a ricostruire un percorso che non è solo storico ma, utilizzando diversi aspetti dell’esperienza coloniale e post coloniale, prova a dare un’interessante e intensa traccia interpretativa. Gli autori, entrambi professori associati di Storia contemporanea all’Università di Cagliari, sono riusciti in un’impresa non facile. Attraverso un linguaggio coinvolgente e divulgativo quanto rigoroso dal punto di vista storiografico, in un volume denso e ricco di riferimenti bibliografici, attraversano un secolo e mezzo di vicende complesse, messe in evidenza in maniera netta. Il volume si compone di tre parti: il periodo colonialista nell’Italia liberale, con l’acquisto della baia di Assab, quello del ventennio fascista, e i cascami che si sviluppano nell’Italia repubblicana, i cui effetti permangono. Gli autori hanno recepito decenni di studi classici sul colonialismo italiano (Del Boca, Rochat, Labanca) elaborando, grazie a fonti archivistiche, studi sul campo, ricerca trasversale, una propria visione dell’esperienza coloniale come tratto fondativo dell’identità italiana. Utilizzando modalità di dominio diverse, tanto i tentativi di occupazione che iniziano a fine Ottocento, che quelli, fascisti, partono – come era cultura dell’epoca – dall’idea di “portare la civiltà”. Non è estraneo il ruolo propulsivo della Chiesa, continuato durante il fascismo, ma la convinzione di una superiorità razziale, in quanto tale destinata a imporsi, era parte integrante già nelle prime missioni in Eritrea, con l’acquisto, da parte della società di navigazione Rubattino, della baia di Assab a cui non era estraneo l’interesse del Regno d’Italia che, come le altre nazioni doveva avere le colonie perché, da nazione civile, le spettavano di diritto. Maturò un’impronta razzista resa più forte con le prime sconfitte militari, da Dogali ad Adua, che contribuì a creare un’immagine dell’indigeno come “nemico”. La pubblicistica tentava già di costruire, nelle scuole come nel mondo accademico e nell’immaginario popolare, il radioso futuro che poteva realizzarsi con una politica di potenza. L’occupazione della Libia fu un passo in avanti, la “quarta sponda” servì a sedimentare quello che sarebbe stato il punto di forza del fascismo: la presenza di vestigia archeologiche dell’Impero romano a cui bisognava rifarsi e di cui era lecito appropriarsi. Il fascismo, documentano Deplano e Pes, attuò l’accelerazione di un processo che era già in atto.

Maaza Mengiste: Vi parlo del “bravo italiano” in Etiopia

Il 1974 fu un anno cruciale per l’Etiopia. Hailé Selassié imperatore dal 1930 – esclusi i 6 anni di dominazione coloniale italiana – venne detronizzato, accusato di essere a capo di un governo corrotto e accentratore. L’avvento al potere dei militari, purtroppo, spinse successivamente il Paese in una drammatica guerra civile.
Nello stesso anno nasce ad Addis Abeba la scrittrice Maaza Mengiste, autrice di Lo sguardo del leone (Neri Pozza) e Il re ombra (Einaudi), considerati tra i migliori libri di letteratura africana post-coloniale. Costretta con la famiglia a lasciare il suo Paese, dove nessuno era più al sicuro, dall’età di tre anni Mengiste vive in America, dove tuttora insegna scrittura creativa presso l’Università di New York. Ambedue i libri, in modo diverso, fanno riferimento al 1974: il primo è ambientato nel turbolento periodo successivo alla caduta dell’imperatore, il secondo dedica a quei giorni solo alcune pagine all’inizio e alla fine per poi immergersi, come in un lungo flashback, negli anni del colonialismo e dell’occupazione italiana dell’Etiopia.

Il re ombra, vincitore per la narrativa del Premio The Bridge, del Gregori von Rizzori di Firenze e finalista del prestigioso Booker Prize, è stato recentemente ripubblicato e presentato alla Casa della memoria e della storia di Roma. Magistralmente tradotto da Anna Nadotti, il racconto prende lo spunto da alcune fotografie scattate durante il dominio coloniale in Africa, l’antico obiettivo che l’Italia perseguiva già dopo aver raggiunto l’unità e che, nonostante gli insuccessi, era stato ripreso da Benito Mussolini, con l’assenso dei Savoia, per «riportare l’impero sui colli fatali di Roma» come declamò all’indomani della caduta di Addis Abeba, il 9 maggio 1936. Si aprì, per l’imperatore Selassié, un periodo di esilio in Inghilterra, terminato solo nel 1941, quando le forze alleate liberarono il Paese.
La fotografia, come il cinema, è stato uno strumento molto utilizzato per la diffusione delle narrazioni dei vincitori ma stavolta le immagini, sotto l’acuto sguardo dell’autrice, hanno riportato alla luce la resistenza etiope. Dopo anni di un lungo lavoro di ricerca e di scrittura, Maaza Mengiste racconta una pagina di storia dimenticata, in particolare attraverso le donne, doppiamente violate durante le guerre e di cui non si parla o se ne parla troppo poco: Hirut, la giovanissima serva nella ricca casa del comandante Kidane, sua moglie Aster, e la silenziosa cuoca, figura preziosa e sempre attenta a quello che accade. Sono Hirut e Aster che di fronte all’occupazione straniera, superando ruoli e tradizioni patriarcali, diventano in grado di scegliere da che parte stare, cioè quella della difesa del proprio territorio, ritrovandosi a fianco degli uomini, senza più paura.

La ricostruzione della resistenza del popolo etiope consente di riscrivere una storia diversa da quella raccontata dai vincitori, scardinando inoltre quel mito di “Italiani, brava gente” come ha già fatto lo storico Filippo Focardi sulle pagine di questo giornale ed è stato dimostrato dall’uso dei gas nervini (l’Italia si ostinerà a negarlo fino al 1996) e dai massacri indiscriminati per fiaccare la resistenza degli etiopi.
La magnifica scrittura di Maaza Mengiste non mette in confronto storie di popoli e nazioni, ma racconta gli oppressi – chi si trova espropriato del proprio territorio – e gli oppressori, obbedienti esecutori del progetto di colonizzazione italiano. Tra gli italiani, l’autrice si sofferma su Ettore Navarra, veneziano, ebreo, il militare fotografo incaricato di immortalare le immagini della conquista dell’Etiopia e che, per la sua religione, verrà a sua volta discriminato perché per le leggi razziali non può più far parte dell’esercito.
Le foto che Ettore Navarra scatta, sono il filo che lo lega a Hirut la cui immagine ha fissato tante volte, quando, da donna-soldato qual era diventata, era stata fatta prigioniera e che nonostante le violenze alle quali era stata sottoposta, aveva mantenuto la dignità che derivava dalla sua scelta. Ed è lui che, a differenza di Hirut, dopo tanti anni, si rivela incapace di separarsi dal quel passato. In occasione della presentazione de Il re ombra abbiamo posto alcune domande a Maaza Mengiste, che ringraziamo per la cortese disponibilità.

Il suo libro Il re ombra propone tanti e diversi piani di lettura e vorremmo chiederle di analizzarne alcuni. Il rapporto tra memoria e storia è diverso per gli oppressi e per coloro che si presentano come dominatori?
La storia è la narrazione del potere, creata da chi detiene il potere, che fa errori, fatti volutamente e deliberatamente. È un insieme di prospettive e di omissioni. La memoria è la narrazione della collettività e una serie di storie individuali che raccontano una nazione. Penso alla storia come un prisma con tantissime sfaccettature che riflettono la luce secondo il modo in cui vengono esposte facendo nascere nuove narrazioni che nascono da questi nuovi riflessi. Ed è così che ho voluto strutturare il mio libro, come un prisma per poter ricomprendere tutte le varie sfaccettature.

Il vento del cambiamento rinfresca il Senegal

Il colpo di coda dell’ancien régime senegalese – con il rinvio imposto dal presidente uscente Macky Sall delle elezioni presidenziali di febbraio a dicembre 2024 ed il loro ri-anticipo obtorto collo al 24 marzo scorso, dopo la sollevazione delle opposizioni e dell’opinione pubblica e l’intervento del Conseil Constitutionnel – da una parte ha mostrato la resistenza al cambiamento di una parte dell’establishment, quello legato a filo doppio con la Francia, ma dall’altra ha dato prova della vitalità della società civile e del corpo elettorale.
Ma anche della capacità di tenuta delle istituzioni democratiche: uno stress test mai vissuto prima dal Senegal, il Paese africano tradizionalmente più stabile e pacifico dell’area, dove tuttavia la stabilità perseguita dal vecchio presidente rischiava la torsione autocratica e illiberale di fronte al tentativo di manipolazione della Costituzione senegalese.
Ha vinto in modo netto la proposta politica di radicale cambiamento del Pastef, il partito di Ousmane Sonko, imprigionato ed escluso dalla competizione durante il crepuscolo della corte di Sall ma oggi a capo del nuovo governo, dopo l’elezione a presidente della Repubblica Bassirou Diomaye Faye, un ex funzionario dell’agenzia delle imposte di Dakar, 43 anni, al fianco di Sonko fin dalla creazione del movimento, di cui ha condiviso ogni passaggio.

Diomaye, come ama chiamarlo la sua gente, è un presidente di rottura col passato, è l’interprete, insieme a Sonko e al movimento ampio e plurale che accompagna questo progetto politico, di quello che alcuni commentatori occidentali hanno definito del panafricanismo di sinistra: un’etichetta appiccicata con molta superficialità e approssimazione ad un progetto che sfugge alle categorie della politica cui è abituata l’Europa. Certo, l’impronta progressista c’è ed è ben visibile ma si interfaccia, in un dialogo non privo di aspetti contraddittori, con una visione valoriale conservatrice, improntata alla tradizione e alla cultura anche religiosa del popolo.
Nei primi 100 giorni, il nuovo governo senegalese ha messo mano ad alcuni dei dossier sociali e politici più spinosi e carichi di aspettative per il popolo che l’ha condotto al potere: il pagamento dei debiti nei confronti degli agricoltori e una vera e propria rivoluzione nella distribuzione delle sementi per la produzione agraria con il coinvolgimento, per la prima volta, dell’esercito per arginare il fenomeno degli intermediari che si arricchivano alle spalle dei coltivatori, l’abbassamento dei prezzi dei beni di prima necessità (pane, olio, zucchero, riso ecc.), la sospensione di alcuni accordi sulla pesca (dal 15 luglio le navi che non potranno esibire una valida licenza in corso non saranno più autorizzate alla pesca, essendo in corso la verifica di tutte le licenze per individuare armatori stranieri che operano nascosti dietro licenze senegalesi), il blocco delle licenze di costruzione sul demanio marittimo, l’audit nella pubblica amministrazione per scoprire le sacche di corruzione e di inefficienza nascoste nelle pieghe della vecchia burocrazia, la nomina di un dicastero dedicato all’Ambiente che sta elaborando progetti ambiziosi.