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Maurizio Bonugli: «La poesia va contro la rassegnazione. È un atto politico»

Maurizio Bonugli è poeta, ma non solo. È anche un operatore culturale che organizza dei Poetry slam come componente del Collettivo poetico Zauberei di Massa e Carrara insieme a Silvana Cannoni, Selenia Erye, Guglielmo Bertilorenzi, Fabrizio Ferrante. E tante iniziative nella sua città (ricordiamo le presentazioni di libri e gli incontri per il laboratorio politico Left Massa-Carrara). Da pochi mesi è uscito il suo libro di versi A ben vedere (Porto seguro) e il 9 agosto viene presentato in prima nazionale il docufilm A Sud di nessun Nord, la nazionalità è un evento puramente casuale scritto da Maurizio Bonugli insieme a Selenia Erye e diretto dal regista apuano Fabrizio Ferrante (festival La Cappucciniana, convento dei Cappuccini, Capaccola, Massa, ore 21). Lo abbiamo intervistato.

«La poesia non manchi a nessuno, nessuno manchi alla poesia», questa frase di Giovanni Prosperi, poeta e intellettuale marchigiano di Macerata, scomparso nel 2021 campeggia all’inizio del libro come un monito. Affermazione condivisa da tutti noi, ma che in un periodo denso di lutti e di guerre può suonare come un’utopia,una velleità di sognatori….

Sul suo cammino la poesia ha sempre incontrato anche i lutti e le guerre. Non potrebbe essere altrimenti. Un orrore che ritorna. Ed anche se posso apparire come un inguaribile sognatore, alla domanda se la bellezza salverà il mondo, io rispondo di sì. Quello che serve è sperimentare tutto il nuovo possibile. A cominciare dal tentativo di farlo con nuovi linguaggi. Oggi ne servono di “sovversivi”, per reagire alla visione confortevole, rassicurante, caricaturale che ci viene data per esempio dai media. Soprattutto la poesia, quando diventa “discorso pubblico” e sa insinuare dubbi regalando emozioni, ha in sè la potenzialità autentica del cambiamento e per questo deve essere usata, con questa precisa finalità. Ecco perché non deve mancare a nessuno…

A  Roma durante uno degli incontri di poesia che si svolgono nell’anno, Maria Grazia Calandrone (premio Strega 2023 per il romanzo Dove non mi hai portata, è appena uscito il suo Magnifico e tremendo stava l’amore, e che è poeta e insegnante presso scuole e carceri, sottolineava l’interesse da parte degli studenti liceali per la poesia. A lei faceva eco il grande vecchio poeta Elio Pecora, commosso per l’accoglienza tributata da parte di classi medie in cui era stato a parlare di poesia. Questo ci apre il cuore, ma una cosa è amare la poesia, un’altra scrivere poesia. Il suo parere?

Premesso che non esistono corsi di laurea che sfornano poeti come fossero ingegneri, forse bisogna immedesimarsi nel poeta che è in noi. Il poeta è l’io che rivela emozioni attraverso la magia delle parole, il colore di quelle parole, la musica che ci sta dentro, dando valore al tempo che racconta cos’è stato, cos’è o cosa sarà. Certamente non tutti diventano poeti ma altri, non sanno ancora di esserlo. Ecco perché occorre educare alla poesia, intanto leggendone molta e poi, moltiplicando le occasioni per incontrarla. A Massa, nella mia città, con gli amici Guglielmo Bertilorenzi, Selenia Erye, Fabrizio Ferrante e Silvana Cannoni, abbiamo dato vita al Collettivo poetico Zauberei organizzando diversi Poetry Slam ai quali hanno partecipato sia in “gara” che nel pubblico, tantissimi giovani. Una maniera originalissima per avvicinare le persone alla poesia. Per renderla “orizzontale”, per ripulirla dalla coltre di polvere che gli si è depositata addosso dimenticata e ignorata nelle librerie dei nonni. Una esperienza ricchissima anche e soprattutto sul piano umano, che ci vedrà impegnati nei prossimi mesi. Stiamo diventando degli “spacciatori” di poesia perché vogliamo creare dipendenza poetica.

Il collettivo poetico Zauberei. Da sinistra Silvana Cannoni, Gugliemo Bertilorenzi, Fabrizio Ferrante, Maurizio Bonugli, Selenia Erye

Cito dal suo libro «quante sponde di rima socchiuse/sui tuoi occhi contesi/quante piazze e strade e passi/per arrivare a questo mare nudo/che pronuncia tempesta e riparo». Si intitola “Marenudo” e insieme ad altre dallo stesso tono (“Assunto”, “Atti impuri”, “On Holiday”, “La domenica degli acquisti” o anche “Trentacinque gradi”) sono le composizioni in cui più si percepisce una vera capacità di trasfigurazione. Quelle in cui lei è meno impegnato a “fare il poeta”, ma in cui la poesia è nelle cose. È d’accordo?

Discutendo con un amico tempo fa su cos’è la poesia, ho pensato ad un abbozzo di risposta partendo dal mio vivere di ogni giorno e dalla certezza di non poterla definire. Ma tant’è. La poesia è “la banalità del quotidiano”, pensai in quel momento dentro quella discussione. Una normalità che si arrende alla straordinarietà alchemica della parola. Quelle poesie sono fuga dal biografismo, ma c’è vita là dentro. Nulla più che normale quotidianità. In “Assunto”, un tragico colloquio di lavoro. In “Atti impuri”, polluzioni confessate. In “On Holiday”, uno slalom solitario nella moltitudine vacanziera. Ne “La domenica degli acquisti” il bestemmiare la Borsa di Shanghai. In “Trentacinque gradi” una liberata nudità. Questo, tutto nel cortile di casa. È poesia. È Poesia? Come chiamarla altrimenti?

Prendo ad esempio la sua struggente “Il vento di Parkinson”, in cui la capacità di amare fa venire in mente la differenza esistente tra chi è poeta, e chi semplicemente scrive. È d’accordo?

Chi ha il dono della poesia perché la ama e ne scrive, non si accontenta della superficie ben sapendo che, da un passo all’altro, c’è luce persino sotto la suola di una scarpa. Trasformare un dolore in poesia, questo è quello che dovremmo saper fare.

il mio maestro Roberto Roversi diceva che fare poesia è un “atto politico”. Che dice?

Tutto è politico. Ogni manifestazione artistica lo è. Per accondiscendenza o per ribellione. E non mi riferisco soltanto ai diversi sistemi di potere nelle rispettive organizzazioni sociali. La poesia è un atto politico perché contiene in sé la stessa capacità trasformativa propria della politica. E poi perché dall’io del poeta il passaggio al noi dei lettori diventa immediatamente un fatto di tutti per tutti. Nella mia idea di poesia c’è molto de “il personale è politico” di Hanisch. Quel messaggio lo trovo attualissimo. Che farsene, altrimenti, di una poesia autocelebrativa inchiodata alle derive minimaliste di chi ne scrive e dei pochi che ne leggono? Che farsene dello specialismo poetico? Se con la poesia riusciamo a far scorgere l’enormità di un mondo intero, stiamo facendo politica. Stiamo cioè dicendo di non fermarsi a ciò che appare come condizione immodificabile. Stiamo proponendo di andare oltre l’apparenza e al suo inganno. Riuscire a farlo con la poesia partendo poi dalla propria intimità emotiva, sentimentale, dalle proprie esperienze di vita rivolgendosi al “fuori”, al mondo dei desti per dirla con Eraclito, significa opporsi alle solitudini individualiste, significa resistere al “marchettismo” opportunista del modello neo liberista per tornare ad essere protagonisti e complici di una dimensione plurale dell’esistenza che sappia ridare valore ad un io collettivo meritevole di attenzioni, di cura e di reciprocità, in cambio di nulla.

Come ci lasciamo?
…con un invito ad ubriacarsi. Alla Baudelaire però! “De vin, de poésie ou de vertu…”, come vi pare…

 

L’autrice:  Federica Taddei, già giornalista di Radio Rai, è poetessa. Tra le sue pubblicazioni, la raccolta di poesie Eravamo purissimi (Manni editore)

Cosa c’è dietro i Riots anti immigrati in Gran Bretagna

Il 29 luglio scorso un 17enne, cittadino britannico (nato in Galles da una famiglia originaria del Ruanda), con problemi psichiatrici, ha ucciso tre bambine e ferito dieci persone a Southport, nel Nord Ovest dell’Inghilterra.
L’episodio è avvenuto in un parco durante una seduta di yoga e danza in quello che per il momento pare un atto violento di uno squilibrato.
Nelle ore successive all’attentato, però, gruppi di estrema destra hanno iniziato a diffondere la falsa notizia che l’attentatore fosse un immigrato illegale musulmano. Così già il 30 luglio, alla veglia organizzata in ricordo delle vittime, gruppi di estrema destra su Twitter, Telegram e Discord si sono radunati causando disordini nel tentativo di attaccare la moschea locale e scontrandosi con la polizia.
Nei giorni successivi, nonostante la durissima risposta del nuovo governo laburista, i disordini si sono allargati a tutta l’Inghilterra e persino nell’Irlanda del Nord, amplificati dall’intervento di due “influencer” dell’estrema destra britannica: Tommy Robinson e Andrew Tate.

E qui entra in gioco anche il ruolo decisivo di Elon Musk: innanzitutto perché i due, entrambi condannati più volte per vari reati, erano stati bloccati da twitter per la diffusione di fake news e incitazione all’odio, salvo poi essere reintegrati da Musk dopo la sua acquisizione della piattaforma social diventato ora X.
Musk però ha avuto anche un ruolo attivo nella vicenda, diffondendo i post di Tommy Robinson e soprattutto attaccando direttamente il premier Keir Starmer per aver reagito troppo duramente nel reprimere la protesta. Non contento il magnate ha pensato di giudicare come inevitabile una guerra civile in tutta Europa.

Ovviamente non poteva mancare all’appello dell’estremista di destra Nigel Farage che ora è un parlamentare di Westminster che ha dato il suo contributo per amplificare le fake news sull’identità e la religione dell’attentatore. Ma sarebbe troppo semplicistico dare la colpa “ai social” per quello che è accaduto.

La realtà è che da decenni in Gran Bretagna si creano le condizioni culturali e sociali all’interno delle quali sono avvenuti questi orrendi atti di razzismo e islamofobia. La scorsa campagna elettorale e in generale il dibattito politico degli ultimi lustri è stato incentrato sul tema degli “sbarchi” sulle coste sud dell’Inghilterra con il governo che ha inanellato una serie dopo l’altra di provvedimenti disumani, prima i barconi galera attraccati sulla costa che sono stati chiusi dopo la diffusione di infezioni batteriche nell’acqua, poi i centri di detenzione all’interno delle caserme e infine il celeberrimo piano di deportazioni verso il Ruanda.

In tutto questo periodo il dibattito politico e mediatico si è sempre più spostato su posizioni xenofobe e islamofobiche, con Boris Johnson che definiva impunemente “bank robbers and letterboxes” cittadini britannici di religione musulmana, Nigel Farage che – in questo rincorso immeditamente dai Tories – propone di abbandonare la Cedu per poter espellere i richiedenti asilo più facilmente e l’estrema destra che – invece di essere ostracizzata – è stata a lungo di fatto istituzionalizzata con continue ospitate televisive di persone come lo stesso Tommy Robinson.
Per non parlare del ruolo centrale avuto dai giornali, tabloid ma non solo, nel creare il clima di caccia alle streghe nei confronti dei migranti.

I riots degli scorsi giorni, quindi, non sorprendono. La buona notizia è che non sorprende neanche la reazione degli anti fascisti che, dopo pochi giorni di sgomento, si sono organizzati e sono scesi per le strade inglesi a dimostrare solidarietà nei confronti delle comunità musulmane e di migranti, facendo letteralmente da scudo umano a negozi, moschee e centri di ospitalità dei rifugiati.
Una tradizione, quella della resistenza civile all’estrema destra che ha radici profonde e che ha avuto l’episodio più iconico nella famosa battaglia di Cable Street a Londra quando, era il 1936, di fatto venne messa la parola fine al movimento fascista britannico per decenni.

Il governo laburista ha però ora l’obbligo non solo di soffocare le rivolte, come sta facendo con grande prova di fermezza, ma di contribuire nei fatti a far superare al paese questo clima di odio nei confronti dei migranti e, soprattutto, affrontare l’islamofobia endemica del Regno Unito.

 

L’autore:L’autore: Direttore della Fondazione Giorgio Amendola di Torino e giornalista, Domenico Cerabona ha scritto, tra l’altro, “Jeremy Corbyn. Una rivoluzione improbabile” (Castelvecchi) e ha tradotto e curato “La rivoluzione gentile” di Jeremy Corbyn, (Castelvecchi). Per Left cura “A very british podcast”. Sul numero di Left in edicola il suo articolo Caro Starmer non è vero che si vince al centro

Le bugie ai balneari costano

Va sempre a finire così quando si cercano voti in cambio di promesse irrealizzabili. La destra “anti Bolkestein” che prometteva ai balneari di poter agire al di fuori dalle regole si schianta contro la realtà. 

L’Unione europea ha perso la pazienza e dopo la melina del ministro Fitto ha deciso che è arrivata l’ora che l’Italia si allinei all’Europa ma che soprattutto i gestori di lidi non sono una casta a disposizione del partito di turno. 

Così stamattina sulle spiagge italiane va in scena lo “sciopero degli ombrelloni” che fa molto sorridere se si tiene conto che quelli ombrelloni stizziti e chiusi sono illegali da mesi, quando le concessioni sono scadute. Gli abusivi in sciopero sono il risultato politico dell’inettitudine. 

Giorgia Meloni aveva chiesto al ministro Fitto un risultato anche piccolo, quel poco che bastava per fingere di non avere perso, qualcosa per mascherare il dietrofront. Missione fallita. 

Il governo Meloni sarà il primo governo che bandirà le gare come stabilito dalle regole. Il ministro Salvini s’arrabatta per promettere prelazioni, risarcimenti e “buonsenso”. Tutto inutile. Il suo caro ex amico del Papeete che il leghista aveva portato in Europa nella scorsa legislatura stamattina chiude le sdraio e i ben informati dicono che non risponda al telefono da mesi al suo ex segretario. 

Il negoziato con l’Ue si è arenato per un motivo semplice: le regole. E le regole si rispettano nonostante le bugie dette in campagna elettorale. Nella maggioranza cannoneggiano contro “i burocrati dell’Ue”. E anche questa non è una mossa furba per riattivare qualsiasi trattativa. 

Buon venerdì. 

Sangiuliano punitore solo degli altri

Mercoledì, sui social del ministro della Cultura (!) Gennaro Sangiuliano, è comparsa una card in cui si comunicava che «Il Consiglio dei ministri vara il comitato per celebrare 2 secoli e mezzo di Napoli». Peccato che Napoli di anni ne abbia almeno 2500.

Fin qui tutto malinconicamente normale. Che i membri di questo governo siano più propensi a riscrivere la storia più che studiarla è cosa nota. Sangiuliano tra i ministri comunque spicca per l’ossessiva ripetitività dei suoi scivoloni.

A stretto giro di posta il ministro impugna il telefono e scrive sui suoi social: «L’errore sul profilo Instagram relativo alla nascita del Comitato nazionale “Neapolis 2500” evidentemente è del mio social media manager. Per questo ho accettato le sue dimissioni».

Qualche osservazione. Per Sangiuliano è «evidente» che l’errore non sia suo, come se non fosse uno sconclusionato ministro avvezzo alla gaffe. A pagare è stato Michele Bertocchi, social media manager e autore televisivo in Rai.

Al di là del fatto che il ministro avrebbe dovuto già da tempo costringere alle dimissioni colui che ha sbagliato le date su Cristoforo Colombo, quello che ha confuso l’ubicazione di Time Square e colui che è stato giurato per il premio Strega senza leggerne i libri (quindi sé stesso), registriamo che il ministro intende il proprio ruolo come quello del “punitore” dei suoi sottoposti.

«Non è possibile che ogni volta che c’è un problema sia sempre e solo colpa dei SMM e questa volta addirittura vengono accettate delle dimissioni dovute ad un errore del genere. IL SOCIAL MEDIA MANAGER È UN PROFESSIONISTA e come tale deve essere trattato», scrive Riccardo Pirrone, presidente dell’Associazione nazionale SMM.

Buon giovedì.

Rosemary e le altre, storie di riscatto in Kenya. Dall’Hiv e dal patriarcato

foto di Lara Berthod

Sono trascorsi 43 anni dal 5 giugno 1981, quando per la prima volta venne segnalata quella sindrome che poi si sarebbe chiamata Aids. Due pagine sul Morbidity and mortality weekly report del Cdc (Centers for disease control and prevention) di Atlanta: da quel giorno l’Aids ha ucciso oltre 36 milioni di persone e in Africa, dove tuttora la prevenzione è carente, questo numero aumenta anno dopo anno.
In un contesto come quello del Kenya, dove Nicole Pizzolato e Lara Berthod hanno potuto conoscere la realtà che scorre negli slum per il progetto Libere di viaggiare non si può non tener conto di uno dei fattori fondamentali che influenzano la diffusione di questa malattia: l’accesso all’istruzione. Senza equità sociale non può esserci un’istruzione di qualità, e questo è un rischio che compromette la salute di 7 giovani su 10 in Africa Sub-sahariana, perché questo è il numero percentuale di donne che non sanno cosa sia l’Hiv.

Una donna dell’associazione Tuinuke Na Tuendele Mbele (foto Lara Berthod)

Non sono numeri, ma storie di donne. Storie come quella di Rosemary, madre di tre figli, che ha vissuto sulla sua pelle lo stigma della malattia e ha saputo trasformarlo in emancipazione. Nicole e Lara hanno parlato a lungo con lei e ne hanno colto un dettaglio in particolare: la volontà di emancipazione di Rosemary non è stata unicamente conseguenza dell’emarginazione, ma è nata con lei. Se la porta addosso, ce l’ha incisa negli occhi quando racconta di essere stata una bambina che, con una palla fatta di carta stracciata, amava giocare a calcio con i fratelli, che cantava e ballava senza remore, che studiava con dedizione ma a cui è stato impedito di accedere alla scuola superiore. Le sue condizioni famigliari – racconta – non le hanno permesso di vivere la vita che avrebbe voluto, ostacolata in primo luogo da un padre alcolizzato e violento, indirizzata ben presto verso il lavoro nelle coltivazioni di canna da zucchero e lontana dai libri, dalla scuola, dal perimetro della capitale Nairobi. In lei non si è fatta spazio la frustrazione, ma un puro sentimento di rivincita ed emancipazione. Dopo l’imposizione di un matrimonio combinato inizia a lavorare come lavandaia e, ben presto, rimane incinta del primo figlio, ma lei e il marito non sono nelle condizioni di sostenere l’arrivo e la crescita di un bambino. L’attenzione e la cura
non sono sufficienti e Rosemary, a distanza di due anni, quel bambino lo perde a causa di una grave malnutrizione. Una parte di lei si spegne quel giorno, ma riesce comunque a reagire e, negli anni successivi, dopo altre tre gravidanze, scopre di avere l’Hiv. Era il 2004, come riporta l’Aics (Associazione italiana per la cooperazione allo sviluppo), e nella baraccopoli di Korogocho, dove Rosemary viveva in quel periodo, le hanno persino impedito di utilizzare i bagni pubblici. Nel 2004 risuonava l’eco della conferenza di Durban, il primo congresso sull’Aids in Africa che aveva avuto come tema proprio “Break the silence”, l’urgente necessità di rompere il silenzio sulla parità di accesso alle cure, su una prevenzione migliore e su un sostegno governativo all’istruzione; ma si sa, il processo è lento e il cambiamento, forse, passa prima dalle azioni delle singole persone.

Le donne dell’associazione Tuinuke Na Tuendele Mbele (Foto Lara Berthod)

La svolta, infatti, arriva nel 2005, quando insieme ad altre quattro donne sieropositive, Rosemary ha dato vita all’associazione Tuinuke Na Tuendele Mbele. È una realtà rivoluzionaria, quest’associazione, perché propone fin da subito di affrontare le sfide sociali che colpiscono le madri sieropositive, soprattutto negli insediamenti come lo slum di Korogocho. L’obiettivo è quello di migliorare il tenore di vita delle donne attraverso l’istruzione e la creazione di attività generatrici di reddito, con la missione di potenziare e stimolare lo sviluppo fornendo supporto istituzionale alle comunità locali, provando così a garantire una vita migliore per ogni donna e adolescente a Korogocho. Nicole e Lara hanno incontrato Rosemary, ma a distanza di vent’anni il contesto socio-culturale in cui si è fatta spazio Tuinuke Na Tuendele Mbele non è cambiato poi così tanto: «C’è più consapevolezza, ma resta ancora forte l’influenza degli anziani della chiesa, quindi la libertà di scelta è limitata – precisa Rosemary – Tuinuke è stata creata per dare alle donne sieropositive un luogo in cui potersi informare, per dare loro una voce e un posto dove poter lavorare con piacere, combattendo lo stigma e la discriminazione, ma soprattutto per essere economicamente responsabili in famiglia».

L’associazione Tuinuke Na Tuendele Mbele (foto Lara Berthod)

Come spiega il Jaids (Journal of acquired immune edficiency syndrome), per ridurre il rischio di trasmissione di infezione da Hiv dalla madre al figlio è necessaria una più ampia integrazione dei servizi di pianificazione familiare, di salute materna e infantile e nei servizi di salute riproduttiva. Il contrasto alla povertà, l’accesso all’istruzione, il supporto alla progettualità personale e l’emancipazione sono elementi fondamentali, perché stiamo parlando di una realtà in cui la logica della famiglia allargata e della vita comunitaria incidono enormemente sulla libertà personale, dove l’accesso all’istruzione – esattamente come nel caso di Rosemary – non è certo agevolato per il genere femminile e, soprattutto nei contesti rurali, restano bassi i livelli di consapevolezza dei propri diritti, continuando così a relegare le donne alla vita domestica, ai ruoli di cura e mera riproduzione. La tradizione incide nel processo di emancipazione femminile, per questo progetti come quello di Tuinuke sono fondamentali per dare una nuova interpretazione ai ruoli sociali delledonne e per supportare la  progettualità personale. Come spiega la stessa Rosemary: «Quando una donna riceve informazioni e conoscenze può compiere scelte consapevoli e credo che questo sia ciò di cui la maggior parte delle donne ha bisogno. Come Tuinike stiamo cercando di fare del nostro meglio per soddisfare questo bisogno fondamentale per le donne».

Una ragazza dell’associazione Tuinuke Na Tuendele Mbele (foto Lara Berthod)

Tuinike non è solo un’associazione, infatti, ma una vera e propria attività commerciale: Rosemary, con un progetto delle Organizzazioni della società civile (Osc) ha imparato a cucire e lavorare la stoffa e ha iniziato a insegnare ad altre donne l’arte del cucito. La sartoria di Tuinuke Na Tuendelee Mbele offre alle donne sieropositive e giovani madri l’opportunità di creare prodotti artigianali per la vendita. Le donne coinvolte nel progetto si incontrano nella sede dell’associazione, dove lavorano insieme per cucire tessuti, realizzare collane di perline e altri oggetti artigianali. Una giornata tipica inizia con una riunione del gruppo, durante la quale vengono discusse le attività da svolgere e assegnati compiti specifici. Le donne lavorano poi individualmente o in gruppi e, durante il processo, hanno l’opportunità di condividere le proprie esperienze sostenendosi a vicenda, creando un ambiente di supporto e solidarietà. Alla fine della giornata, i prodotti finiti vengono esposti per la vendita o distribuiti ai clienti, contribuendo così al reddito dell’associazione e delle sue componenti.
Il viaggio di Lara e Nicole non si è concluso in sartoria, ma la percezione sulle disparità di genere non è tanto diversa anche in altre aree del Kenya. A Mombasa, le due fondatrici di Libere di viaggiare, hanno incontrato Celestar, e anche lei conferma che lo stigma sull’Hiv, ancora oggi, allontana molte persone dai centri di cura: «Non c’è un vero programma nazionale, ma ci sono donne che personalmente si assumono la responsabilità di fare informazione e prevenzione nelle nostre scuole». Celestar percepisce una forte scissione tra legge formale e pratiche culturali, lo si nota soprattutto nel mondo del lavoro: lei è una dj, la discriminazione la colpisce in prima persona. «Gli uomini non ammettono che tu abbia opinioni, spesso opprimono la libera scelta, favoriscono la carriera dei figli maschi e osteggiano l’emancipazione femminile», spiega Celestar, che ancora aggiunge come ci sia disparità, anche oggi, nel sistema scolastico.
Ci sono tuttavia alcune eccezioni, come il villaggio matriarcale di Umoja, esempio di resilienza e determinazione dove viene offerto un rifugio sicuro alle donne vittime di violenza e  discriminazioni.

Un ritratto di Rosemary (foto Lara Berthod)

Dalle interviste condotte da Lara e Nicole emerge una percezione della tradizione come riflesso della volontà maschile, perché trattengono le donne e ne soffocano i diritti fondamentali. Storie come quella di Rosemary sono rivoluzionarie, ma altrettanto lo sono le parole. La poesia popolare, in Africa orientale, ha fornito un mezzo attraverso il quale le comunità hanno elaborato il trauma dell’Hiv/Aids, offrendo testimonianze dirette delle sue devastanti conseguenze e contribuendo alla comprensione e alla gestione della malattia nella vita quotidiana. L’arte è un potentissimo strumento di sensibilizzazione e la poesia è stata utilizzata come mezzo di comunicazione e negoziazione sociale, rendendo il discorso sulla malattia più accessibile e rilevante per la comunità locale. E le parole, il dialogo, continuano a essere strumento per superare lo stigma, per questo viaggi come quello di Nicole e Lara sono fondamentali per costruire una rete di scambio di conoscenze, per creare una connessione tra donne che vada oltre i confini di un singolo Paese, per ricordarci che essere Libere di Viaggiare porta con sé la necessità di condividere questa libertà, condividere esperienze e conoscenze in un’ottica di decolonizzazione della mente. I processi di cambiamento si stanno innescando, e non sono da declinare solo al femminile.

Libere di viaggiare

È un progetto fondato da Nicole Pizzolato, Lara Berthod e Martina Dal Pozzo sulla base di un comune interesse per il viaggio e i diritti delle donne. Lo scopo, si legge nella presentazione di Libere di viaggiare, è quello di «promuovere l’empowerment femminile attraverso la divulgazione, l’attivismo civico, articoli di fotogiornalismo e azioni concrete»

In apertura: Rosemary, foto di Lara Berthod

Così gli italiani possono andare in vacanza tranquilli

Tra le proposte che oggi saranno sul tavolo del Consiglio dei ministri guidato da Giorgia Meloni c’è l’innalzamento da 100 mila a 200 mila euro per usufruire dell’imposta sostitutiva sui redditi delle persone fisiche calcolata in via forfettaria per chi trasferisce la propria residenza fiscale in Italia. 

Una flat tax per i ricchi stranieri che rende l’Italia un paradiso fiscale per attrarre soldi nella speranza che investano soldi qui da noi. La norma non è una novità. Fu pensata nel 2016 dal governo Renzi e a oggi ha portato ben pochi risultati. 

In cinque anni sono stati 1.136 i “ricchi” che hanno deciso di trasferirsi in Italia sfruttando i maxi sconti fiscali, con il giocatore Cristiano Ronaldo in testa. Nel 2022, ultimo anno con dati disponibili, gli 818 contribuenti principali con i loro 318 famigliari hanno prodotto la miseria di 89,8 milioni di euro di entrate. 

Il risultato tangibile invece sono i rilievi mossi dall’Eu Tax Observatory che nel suo Rapporto sull’evasione fiscale globale ha definito questo regime fiscale preferenziale il più dannoso tra quelli adottati nell’intera Unione europea. 

A ruota ci sono le critiche della Corte dei conti contro la mancata trasparenza della misura tant’è che l’Agenzia delle entrate “non conosce né l’ammontare dei redditi esteri sui quali agisce l’imposta sostitutiva, né le imposte ordinarie che sarebbero state effettivamente prelevate su tali redditi in assenza del regime sostitutivo”. 

Dalle parti del governo hanno pensato che fosse una buona idea, vista la situazione, innalzare il privilegio. Così gli italiani possono andare in vacanza tranquilli. 

Buon mercoledì. 

 

Dittatore o vittima di un golpe? La sinistra si divide su Maduro

Il Consiglio nazionale elettorale del Venezuela (Cne) il 6 agosto ha consegnato alla Corte suprema (Tsj), su richiesta del presidente Nicolás Maduro, la documentazione che ne comproverebbe la presunta vittoria il 28 luglio scorso.
La presidente della Corte Suprema, Caryslia Rodríguez, ricopre anche la massima carica nella Camera elettorale (Sala Electoral) ed è militante attiva del partito di Maduro, il Partido socialista unido de Venezuela (Psuv). Una ricerca condotta dall’ong Acceso a la Justicia dimostra che dei cinque membri della Camera elettorale soltanto una di loro, la magistrada Indira Alfonzo, rispetta i requisiti costituzionali richiesti per assumere l’incarico. Lo stesso vale per l’organo massimo della giustizia venezuelana, la Corte suprema, dove non soltanto la presidente della Corte, come i vicepresidenti, Edgar Gavidia Rodríguez e Tania D’Amelio Cardiet, sono stati militanti e candidati per il partito di Maduro, in netta violazione dell’aert 256 della Costituzione venezuelana.
L’opposizione a Maduro è stata fatta negli anni anche da partiti e movimenti di sinistra, come Bandera Roja, Podemos, Patria Para Todos, Movimiento Electoral del Pueblo, l’Alternativa Popular Revolucionaria, Marea Socialista e il Partido Comunista de Venezuela, fondato nel 1931 e storico alleato di Hugo Chávez. Tutte queste forze, non solo le destre, hanno subito, negli anni, interventi della Corte suprema al fine di bloccare le loro candidature e destituire le loro leadership, al fine di nominarne di nuove, più favorevoli al regime. Sono partiti che gridano alla violazione dei diritti umani, civili e politici dei venezuelani, per parte del governo Maduro, e dei suoi militari, subendo, al pari dell’opposizione di destra, capitanata da María Corina Machado Parisca, campagne di fango, intimidazioni, arresti, sequestri e coercizioni varie.
Fino a ieri, ovvero, ad una settimana dal primo annuncio della vittoria di Nicolás Maduro, per altri sei anni alla presidenza del Venezuela, i registri di voto dei seggi elettorali (actas eletorales) non sono stati resi pubblici, sollevando dubbi sull’integrità del conteggio che ne consacra il successo elettorale, e portando Paesi storicamente allineati al governo venezuelano, come il Brasile, la Colombia e il Messico, a rilasciare il primo agosto scorso un comunicato congiunto, con la richiesta di pubblicare i registri firmati dai presidenti di seggi, scrutatori e segretari, nel rispetto della legge del Paese. Si allineavano così al comunicato emesso il 29 luglio dal Paraguay, Argentina, Costa Rica, Ecuador, Guatemala, Panama, Perù, Repubblica Dominicana e Uruguay, in cui, con nota congiunta richiedevano la revisione dei risultati alla presenza di osservatori internazionali indipendenti.
Netta la spaccatura di Maduro anche con il presidente del Cile, anch’egli di sinistra, Gabriel Boric, che ha espresso più volte i suoi dubbi sulla vittoria del caudilho venezuelano, invitando le organizzazioni internazionali a controllarne i risultati.
Alla posizione di questi Paesi, tanto governati dalle destre, quanto dalla sinistra, si sono affiancati, sempre con un comunicato, Italia, Francia, Germania, Spagna, Portogallo, Paesi Bassi e Polonia.
Al momento, Edmundo Gonzalez Urrutia, il candidato dell’opposizione, con un progetto di governo neoliberista, risulta riconosciuto legittimo presidente da Argentina, Uruguay, Costa Rica, Ecuador, Perù, Panama e Stati Uniti. A Maduro, invece, sono arrivate le congratulazioni di Russia, Cina, Iran, Cuba, Bolivia, Nicaragua e Honduras.

L’origine dei dubbi sul risultato e la rivolta dell’opposizione, tra morti e feriti

L’alba del 29 luglio il Consejo nacional electoral (Cne), l’organo di governo che esercita il controllo elettorale nel Venezuela, ha annunciato la vittoria di Maduro. Prima dell’annuncio, il Cne ha affermato che il sistema era stato oggetto di attacchi informatici, senza offrine prove. Con un’affluenza del 59% e l’80% delle urne scrutinate, Nicolás Maduro avrebbe vinto con il 51,2% dei voti validi. Edmundo González, il candidato scelto dai principali partiti di opposizione, uniti nella Piattaforma unitaria democratica (Pud), sarebbe arrivato secondo, con il 44,2%. Il 02 agosto, il presidente del Cne, Elvis Amoroso, conferma la vittoria di Maduro con numeri leggermente ritoccati, asseverando lo scrutinio di 96,87% delle schede elettorali. Ancora una volta, nessun documento è stato presentato a conferma del risultato paventato alla stampa.
Il sito web del Cne, che dovrebbe fornire informazioni dettagliate, risulta non consultabile dalla notte del conteggio.
Con la pubblicazione delle “actas”, il Cne potrebbe rilasciare le credenziali a esperti indipendenti per verificare l’autenticità dei voti, , come il municipio e la sessione, nonché il numero di voti ricevuti per ciascuno dei candidati.
Di fronte all’opacità e alle reticenze del governo Maduro, perfino una figura storica e molto rispettata nella Sinistra latinoamericana, l’ex presidente uruguaiano José Mujica, afferma di avere dubbi sul risultato delle elezioni venezuelane, dissociandosi della posizione pro Maduro del Movimiento de Liberación Nacional-Tupamaros (Mln-T), che contribuì a fondare, negli anni Sessanta, e per il quale è stato imprigionato, tra il 1972 e il 1984, per aver contrastato la dittatura civico-militare uruguaiana, che ne faceva un prigioniero politico ad ogni 450 abitanti. Raggiunto dalla stampa il 30 luglio, Mujica (ex presidente e candidato per un posto da senatore alle elezioni  che si terranno a novembre in Uruguay ndr) ha parlato dell’inesistenza di «informazioni credibili» su quanto accaduto nelle elezioni venezuelane. Qualche mese prima, Mujica aveva già dichiarato che «in Venezuela c’è un governo autoritario. Chiamatelo una dittatura, chiamatelo come volete».
L’Ong venezuelana Monitor de Víctimas ha già contato 22 morti, per la maggior parte ventenni, nel corso delle proteste contro la mancata trasparenza delle elezioni e l’assegnazione della vittoria a Maduro, che annuncia l’irrigidimento delle misure repressive, con carceri di massima sicurezza e campi di rieducazione per i manifestanti. L’Ong Foro Penal, che offre assistenza giuridica gratuita agli oppositori del regime venezuelano, denuncia la negazione del diritto all’ampia difesa e ad un equo processo agli arrestati, i quali non hanno diritto alla nomina di un legale di fiducia, ma sono costretti ad accettare difensori pubblici assegnati dal governo Maduro. Secondo i dati divulgati da Foro Penal, 90 minorenni sono trattenuti in carcere e senza alcun contatto con la propria famiglia.
Uno dei loro legali, Kennedy Tejeda, di 24 anni, è stato arrestato per aver chiesto informazioni sul numero di detenuti presso un commando di polizia. Tradotto alla Dirección general de contrainteligencia militar (DGCIM) della città di Valencia Edo Carabobo, risulta irraggiungibile e senza diritto a difesa.

La spaccatura nella sinistra italiana ed europea
Per Maduro è in corso «un colpo di Stato cyber-fascista e criminale» ed i Paesi che mettono in discussione il processo elettorale venezuelano sono «subordinati a Washington e apertamente impegnati nei più sordidi postulati ideologici del fascismo internazionale». Di lì la decisione di cacciare dal Paese le rappresentanze diplomatiche di Argentina, Cile, Costa Rica, Panama, Perù, Repubblica Dominicana e Uruguay, isolando ancor di più i venezuelani, già flagellati dal blocco economico imposto dagli Usa.
L’autoritarismo di Maduro e le sue forze, la repressione indiscriminata anche agli attivisti e difensori dei diritti umani, più volte denunciati da organizzazioni umanitarie come Human Rights Watch e Amnesty International, ed esposti nel corso della 55a sessione del Consiglio dei diritti umani dell’Onu da Marta Valiñas, presidente della missione internazionale indipendente d’inchiesta sulla Repubblica bolivariana del Venezuela, sembrano non destare scalpore tra i tanti membri dei partiti legati alla Sinistra europea, chiamati da Maduro per attuare come “osservatori” alle presidenziali dopo aver ritirato, unilateralmente, l’invito agli osservatori europei indipendenti.
Per l’invitato a Caracas, come osservatore elettorale, Marco Consolo, coordinatore del Gruppo di lavoro sull’America Latina di Sinistra europea, nonché responsabile dell’area “Esteri e Pace” per Rifondazione comunista, le elezioni venezuelane sono state «un successo», la polemica sulla mancata pubblicazione dei verbali, sarebbe un falso problema. Soddisfatto del risultato, sulla pagina di Rifondazione, Consolo scrive che il popolo venezuelano non si è piegato «alle 930 misure coercitive unilaterali» con cui «gli Stati Uniti e l’Unione Europea hanno cercato di mettere in ginocchio il Paese» prendendolo «per fame e stenti». L’analisi dettagliata delle sanzioni europee, però, rivela che non sono di natura economica: sin dal 2017 l’Ue mantiene un embargo sulle armi e sulle attrezzature per la repressione interna, e il divieto di viaggio e congelamento dei beni di 54 uomini e donne di fiducia di Maduro, accusati di violazione dei diritti umani, di aver compiuto attentati alla democrazia e allo stato di diritto in Venezuela. Per Consolo, le parole di condanna dell’europarlamentare di The Left Carola Rackete al regime di Maduro sarebbero «di destra» ed «infelici». Consolo afferma che all’interno del gruppo di lavoro sull’America Latina di Sinistra Europea, che coordina, il sostegno al dittatore Maduro è pressoché unanime, trattandosi di «compagni e compagne che conoscono a fondo il continente sudamericano». Tale posizione non sarebbe condivisa dal Partito Democratico, duramente criticato nella live, per il suo posizionamento contrario a Maduro.
L’entusiasmo di Sinistra Europea per il risultato elettorale favorevole a Maduro, che non sarebbe un “dittatore” ma vittima di “chiacchiere virtuali” e “cattiva informazione” per parte della stampa italiana, sempre secondo Consolo, è stato manifestato in un post maldestramente cancellato su X, la piattaforma di Elon Musk, uno dei grandi responsabili, per Maduro, del tentativo di golpe di Stato, assieme a Corina Machado. Nel messaggio, a corredo della foto di un gruppo di parlamentari europei, recatosi in Venezuela, in qualità di osservatori, si attestava la trasparenza del processo elettorale del Paese, adducendo di averlo fatto assieme al Cne, ad una organizzazione chiamata Ceela, al Centro Carter, alle Nazioni Unite e al Grupo de Puebla, quest’ultimo fondato da esponenti di punta della Sinistra mondiale, come Pepe Mujica, Lula, Luis Arce, Dilma Rousseff, Alberto Fernandéz ed Evo Morales.
Eppure, le affermazioni sul post di Sinistra Europea, sembrano in aperto contrasto con quanto dichiarato dagli organi di controllo: tanto il Centro Carter quanto le Nazioni Unite, nonché il Grupo de Puebla, hanno dichiarato di voler attendere la pubblicazione e libera consultazione dei registri di voto, come promesso da Maduro, sollecitando la massima trasparenza al Governo. Per quanto riguarda il Grupo de Puebla, esso non ha poteri per certificare elezioni.
Per il Centro Carter, invece, «le elezioni presidenziali del Venezuela del 2024 non hanno rispettato i parametri e gli standard internazionali di integrità elettorale e non possono essere considerate democratiche». Il vice capo della missione del Carter in Venezuela, Patricio Ballados, ha dichiarato a DW Interview che «un attacco via internet è praticamente impossibile al sistema», riferendosi alle accuse mosse dal governo di Nicolás Maduro di un tentativo di hackeraggio al Cne. Inoltre, l’esperto ha elencato una serie di irregolarità che, se fossero capitate in Europa, avrebbero fatto gridare allo scandalo partiti ed elettori, a prescindere dallo schieramento, come l’impedimento ad oltre 5 milioni di venezuelani, migrati all’estero, di votare, gli ostacoli e la burocrazia imposta ai candidati dell’opposizione, e la massiccia propaganda elettorale pro Maduro, via radio e tv, senza diritto a par condicio. Ballados spiega che il Centro Carter, sebbene invitato come osservatore dallo stesso governo Maduro, e rimasto per circa un mese con i suoi esperti in Venezuela, non aveva avuto accesso al luogo in cui il conteggio dei voti avveniva, essendo concesso l’ingresso soltanto al personale di governo.
L’unico ente certificatore chiamato in causa nel post di Sinistra Europea, che tuttora continua a sostenere la trasparenza delle elezioni venezuelane, anche senza aver rispettato gli standard internazionali, rimane l’organizzazione Ceela, ovvero il Consejo de Expertos Electorales de Latinoamérica, sprovvisto di un sito, ma fondato e finanziato vent’anni fa da Hugo Chávez e da sempre sotto la guida di Nicanor Moscoso, ex presidente del Tribunale elettorale dell’Ecuador.
Mettere in campo osservatori elettorali politicizzati, scelti da Maduro, è stato lo strumento per cercare di rendere legittimo un processo elettorale inquinato, in cui i risultati, per assenza di documentazione, non possono essere certificabili da osservatori internazionali indipendenti, dotati di expertise e metodologia rigorosa.
Oltre alla povertà estrema e alla fuga dal territorio, certamente aggravata dalle sanzioni economiche imposte dagli Stati Uniti e dal crollo dei prezzi del greggio, i diritti umani, civili e politici dei venezuelani vengono negati e la nascita di un’opposizione di Sinistra platealmente soffocata. Forse, oltre a gridare agli interessi economici delle potenze straniere sul petrolio venezuelano, bisognerebbe attentare al fatto che l’America Latina, ancora una volta, viene trascinata, suo malgrado, in un clima di guerra fredda, in cui specifici blocchi politici si contrappongono sulla pelle dei suoi popoli.

L’autrice: Esperta di diritto internazionale e scrittrice, Claudiléia Lemes Dias è autrice di vari libri, fra cui Le catene del Brasile (L’Asino d’oro edizioni)

 

Una sola ossessione: fare bella figura in Albania

La prima preoccupazione del governo a proposito degli illegali centri di detenzione per migranti che l’Italia sta costruendo in Albania? Fare bella figura, l’ossessione della propaganda.
Questa mattina su Repubblica Alessandra Ziniti sfodera il vademecum per gli agenti della polizia penitenziaria che avranno il privilegio di lavorare in trasferta, nell’isola ecologica che il governo Meloni ha voluto impiantare nel Paese di Edi Rama. Scorrere le istruzioni è un safari nel sottovuoto spinto della stagione politica che stiamo vivendo.
Si parte da “evitare di corteggiare le donne albanesi. L’uomo che vede la propria donna corteggiata da un altro uomo può reagire in malo modo”. Gli albanesi come novelli uomini d’onore da non provocare, insomma.
Poi si sottolinea che gli albanesi sono “un popolo pudico” e quindi “nudità o vestiario poco sobrio in pubblico non sono graditi”. Nessuna raccomandazione per il rispetto dei calpestati diritti umani stracciati troppo spesso dall’Italia e dall’Unione europea. Ciò che interessa al nostro governo è che “la consumazione del caffè” non avvenga “al bancone” ma “seduti” e che nei ristoranti ci si attenga a menu per non irritare il personale di cucina e di sala.
I poliziotti penitenziari trattati come scolaretti in gita hanno irritato anche il segretario generale della UIlpa Polizia penitenziaria Gennarino De Fazio, già nervoso per l’opacità con cui sono stati scelti i 45 agenti che dovranno andare in scena per uno degli spot più costosi degli ultimi anni.
E loro, i migranti? Loro niente, loro sono solo le disperate comparse della messinscena.
Buon martedì.

Nella foto: Giorgia Meloni visita la base di Gjadar in Albania, 5 giugno 2024

“Tempesta Matteotti”, un libro che svela ai ragazzi la natura del fascismo

Tempesta Matteotti di Luisa Mattia, pubblicato da Lapis, non è solo un libro per ragazzi dagli 11 anni in poi, come dice la quarta di copertina. E non è nato solo per ricordare – nella ricorrenza del centenario del suo omicidio – un uomo, Giacomo Matteotti, che ha difeso con coraggio e onestà la democrazia e la libertà, pagando con la vita la sua opposizione radicale al fascismo.

«Il libro è nato su iniziativa di un giovane redattore della casa editrice, poco più che trentenne», racconta l’autrice, una delle penne più note, abili e felici dell’editoria per ragazzi, premio Andersen del 2008 come migliore scrittrice, Premio Ceppo per il suo contributo alla cultura per l’infanzia, autrice di Melevisione, l’Albero Azzurro e altri programmi prodotti da Rai Kids. «Un giorno, all’inizio del 2023, mi telefona e mi dice che stava riflettendo come, nell’editoria per ragazzi, si scrivono spesso libri dedicati a personaggi storici quasi sempre famosi e “cattivi”. E si chiedeva che fine avessero fatto i “buoni”. Mi chiese se per caso ne avevo in mente uno. Comincio a ragionarci e dopo qualche giorno gli propongo Giacomo Matteotti».

Luisa Mattia spiega che non aveva però intenzione di scrivere una biografia su Matteotti. «Questa forma di scrittura ha delle caratteristiche ben precise. Deve essere ben scritta, certo, ma soprattutto deve essere documentatissima e, generalmente, mantiene una distanza tra il lettore e il testo, perché è oggettiva, ricostruisce i fatti di una vita, di una storia. Non era quello che mi interessava. Al contrario, avevo in mente una storia che si svolgesse negli ultimi mesi della vita di Matteotti fino alla sua morte, con al suo interno, accanto ai protagonisti realmente esistiti, Giacomo Matteotti e sua moglie Velia, personaggi di fantasia come Cesira, la giovane domestica e Augusto, il garzone di Remo, il fornaio di casa Matteotti, che in un primo momento si fa affascinare dalla rozza propaganda fascista. Volevo che il fascismo e la sua retorica avessero una loro concretezza così come era concreta ma non retorica la testimonianza di Matteotti contro Mussolini e il fascismo. Ho pensato quindi a un personaggio essenziale come Alvaro, il “cattivo” della storia, che si presenta come un “seducente educatore” del giovane Augusto. L’idea era quella di scrivere un libro su Matteotti che arrivasse al cuore dei ragazzi, che stimolasse i loro pensieri, che facesse accadere qualcosa dentro di loro».

L’editore, continua Luisa Mattia, ha accettato immediatamente e da quel momento la scrittrice ha cominciato a studiare tantissimo e a documentarsi. «Per mesi – dice – non ho scritto una riga e, più leggevo tutto quello che c’era su Matteotti, più rimanevo sorpresa dal fatto che di Matteotti si parla come di un martire, di un eroe, ma dimenticato. Cosa che trovo sconcertante perché di e su Matteotti esiste una documentazione vastissima. Tutti i suoi articoli, tutti i suoi discorsi parlamentari, le sue lettere sono accessibili a chiunque. Abbiamo intitolato a Matteotti piazze, abbiamo posto targhe ma su di lui è calato un silenzio colpevole come se fosse un personaggio difficile da gestire, soprattutto dopo la morte. Mussolini era perfettamente al corrente di tutto quello che era successo e ha perseguitato la sua famiglia per tanto tempo. Ha impedito alla moglie e ai figli di uscire dall’Italia, li ha messi costantemente sotto sorveglianza, i bambini andavano a scuola seguiti dalla polizia. Sicuramente era più spaventato da un Matteotti morto che vivo perché temeva potesse diventare il vessillo dell’opposizione. Per la ricorrenza della morte, si è parlato molto di Matteotti ma, in verità, si continua a saperne poco. Solo a Torino, in concomitanza con il Salone del Libro, quindi verosimilmente tra i più informati, quasi tutti sapevano chi fosse Matteotti. Altrimenti, in alcune ricerche emerge che tra i ragazzi, per esempio, che frequentano il liceo, la maggioranza ignora chi sia».

Leggere Tempesta Matteotti è un bagno di emozione. Non è un testo solo per ragazzi ma anche per gli adulti. Ogni riga e ogni pagina inesorabilmente cattura e fa riflettere. E’ un romanzo intenso, ci trascina nella vita quotidiana di un uomo con il suo coraggio, la sua ostinazione, i suoi affetti profondi, la sua tenerezza, l’amore per i figli, il rapporto straordinario con una donna che ha accettato, non senza inquietudine e dolore, una vita di lontananze continue, di pericoli, di paure.

Cosa ha ispirato questa costruzione della storia e del personaggio Matteotti?
«Una prima risposta è che ho fatto una scelta per far emergere maggiormente la figura di Giacomo. Ho letto con enorme stupore e mi ha veramente affascinato il carteggio tra Giacomo e la moglie Velia. Ho cercato di entrare nella loro vita, nel loro modo di pensare, nei loro affetti. Dal carteggio emerge un uomo deciso, consapevole, tenero, innamorato. Un padre più che moderno, considerando che siamo negli anni Venti del ‘900 e con un’attenzione nei confronti dei figli non proprio comune in quegli anni. Giacomo e Velia, nella loro breve vita insieme si sono scritti tantissime lettere. Lui ha 28 anni e lei 22 quando si sposano. Sono molto giovani anche se le fotografie dell’epoca ci restituiscono di loro un’immagine quasi severa. E vivono pochissimo insieme. Giacomo, soprannominato Tempesta per il suo carattere deciso e appassionato, sarà un fuggiasco per quasi tutta la sua breve vita per sottrarsi alle violenze delle squadre fasciste. La casa in cui entrano all’inizio del romanzo è la prima vera casa coniugale che possiedono lui e la moglie. Velia, in una delle tante lettere inviate al marito, aveva chiesto questo. Matteotti era sempre in fuga per evitare che moglie e figli subissero le stesse minacce, le stesse intimidazioni e aggressioni che lui continuamente subiva. Velia gli scrive che è consapevole dei rischi che potrebbero correre vivendo insieme, perché sa che lui continuerà a fare la sua attività politica e soprattutto a seguire le sue scelte. Ma allora perché stare lontani? scrive. Tanto vale trovare un luogo dove ritrovarsi e vivere insieme, con la consapevolezza che il rischio c’è ed è elevatissimo. Matteotti non è convintissimo ma alla fine troveranno un appartamento in quella che si chiamerà Via Pisanelli, al Quartiere Flaminio, adiacente al Ministero della Marina, all’epoca in costruzione. Non c’era nemmeno il Ponte che verrà costruito nel 1928 e successivamente dedicato a Matteotti».

Il romanzo ha un suo tempo, un ritmo che evolve costante nel seguire le vicende, calde e struggenti insieme, degli ultimi mesi della vita di Matteotti. Ci sono però tre momenti e poche pagine in cui il tempo sembra fermarsi e il lettore sospende il respiro. Matteotti morente parla in prima persona di quello che sta succedendo e leggiamo i suoi pensieri. È una narrazione forte: «Piegato su me stesso, gli occhi aperti. Il sangue è tanto, mi bagna la camicia, la giacca, i pantaloni. Loro mi stanno addosso». Si può raccontare ai ragazzi una morte simile? E come?

«Quando ho finito di scrivere il romanzo – risponde Luisa Mattia – , non avevo ancora scritto quelle parti a cui ti riferisci. Erano le più difficili, bisognava trovare il calibro giusto proprio perché mi stavo rivolgendo a dei ragazzi. Ma, proprio per il fatto di dovermi rivolgere a dei ragazzi, ho pensato che non potevo avere una misura censoria: quest’uomo è stato ucciso barbaramente. Però nei romanzi l’immaginazione ci consente di raccontare. Un attimo prima lui sa, si vede, è come se si guardasse da fuori ma è ancora attaccato alla vita. Vede sé stesso, vede i suoi assassini, ne ha quasi pena. Dice che non sanno più cosa fare di lui. Come è raccontato nelle cronache dell’epoca ma anche nelle testimonianze rese in tribunale, peraltro molto bonario, i suoi assassini dicono ripetutamente che, a un certo punto, perdono la lucidità perché Matteotti reagisce. Abituati a intimidire, trovano un uomo che nel momento in cui viene aggredito, li picchia con le mani, cerca di fuggire, grida. Lui sa che morirà di lì a un attimo, sapeva che sarebbe arrivato il momento, li guarda».

E la reazione dei ragazzi?
«Io penso che i ragazzi siano perfettamente in grado di comprendere, come ho potuto notare dai primi incontri che ho fatto presentando Tempesta Matteotti. Comprendono e si emozionano perché non si avvicinano ad un personaggio di una storia ma ad una persona che parla di sé e che racconta il momento tragico in cui passa dalla vita alla morte e in questa morte è vivissimo. Un escamotage narrativo che i ragazzi possono sostenere. Ritengo che i ragazzi abbiano il diritto di sapere. Io credo che troppo spesso nell’ambito della letteratura per l’infanzia – per usare un termine esageratamente vago – ci siano remore o autocensure da parte degli autori e degli editori che possono anche fare obiezioni in tal senso. Ma io penso che sia una sottrazione grave di emozioni anche perché i nostri ragazzi sono abituati a vedere scene violente attraverso i videogiochi o le serie televisive e spesso a rimanere indifferenti di fronte al sangue, alle aggressioni».

Luisa Mattia continua, parlando delle potenzialità della letteratura. «La scrittura ha la capacità di andare nel profondo. Non è un caso che quando ho presentato il libro in una scuola media di Torino i ragazzi abbiano chiesto se mi ero emozionata nello scrivere perché loro, nel leggere, si erano emozionati. Me lo hanno detto con gratitudine perché percepivano, nella scrittura, quello che stava accadendo e lo vivevano. Non era solo la voce di Matteotti che dice a Velia: “guarda cosa mi stanno facendo” che li aveva colpiti. Erano anche le voci di Cesira e Augusto, la violenza verbale, non solo fisica, di Alvaro, la mitezza di Remo il fornaio. Si sono emozionati a tal punto che mi hanno chiesto se oltre Giacomo e Velia, anche gli altri fossero persone che avevo avuto modo di conoscere attraverso le cronache, i documenti, i libri. Evidentemente sono riuscita a rendere vivi i personaggi attraverso le emozioni e non a dare loro semplicemente un ruolo».
«Credo fermamente – conclude Luisa Mattia – che far conoscere questa figura di socialista integerrimo sia fondamentale per tutti, perché Matteotti è stato veramente una voce fuori dal coro, un uomo di una correttezza, di un’onestà, di uno spessore e di una levatura umana e politica non comuni». Qualità, aggiungerei a quanto dice l’autrice, oggi pressoché ignorate dalla politica, se non addirittura sconosciute.

Le parole di Kimia Yousofi sono per noi

Kimia Yousofi, una dei sei atleti in gara alle Olimpiadi di Parigi per l’Afghanistan, ha corso i 100 metri con due secondi di distacco dalla vincitrice. 

Sul suo pettorale, insieme al numero assegnato dall’organizzazione olimpica, ha scritto “educazione” e “i nostri diritti” perché il mondo fosse costretto a ricordare. Il ritorno al potere dei talebani in Afghanistan è avvenuto ormai tre anni fa. Tre anni in cui l’occidente, Europa inclusa, continua a ripetere che non lascerà sole le donne che sono lasciate sole. 

«Penso di sentirmi responsabile per le ragazze afghane perché non possono parlare», ha sottolineato Yousofi dopo la gara. «Non sono una persona politica, faccio solo ciò che ritengo che sia vero e giusto. Posso parlare con i media. Posso essere la voce delle ragazze afgane. Posso dire alle persone cosa vogliono: vogliono diritti fondamentali, istruzione e sport». 

Ha ragione Yousofi: il primato dei diritti è una questione prepositiva, viene prima di qualsiasi analisi su governo e governati. Dovrebbe stare prima nelle pagine dei giornali. 

Prima della sua nascita i genitori di Yousofi erano scappati dall’Afghanistan per andare in Iran. Nel 2016, quando i talebani erano esclusi dal governo, lei è tornata per allenarsi in patria. Quando i talebani con l’enorme aiuto del nostro disinteresse sono tornati al governo Yousofi è fuggita in Australia. Alle Olimpiadi insieme alle gambe ha portato le parole che vanno dette ma lì non si possono dire. E nonostante la distrazione della cronaca sportiva quelle parole sono rivolte a noi. 

Buon lunedì. 

Nella foto: Kimia Yousofi (dal suo profilo facebook)