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“Lengua de striga” di Tiziana Colusso: le voci delle vittime di una cultura violenta

Dall’origine dei tempi, abitare la dimensione del tragico significa resistere in funambolico equilibrio tra amore e morte, dolore e vita. Nella raccolta di testi teatrali Lengua de Striga. Teatro delle voci (Bertoni, 2024) Tiziana Colusso riesce a dare corpo e voce a storie che tragicamente narrano di donne oggetto di violenza, funambole di un’esistenza in cui a barbagli di vitalità, di propulsioni alla ribellione, si alterna un oscuramento della coscienza verso una progressiva e muta rassegnazione. È il caso del primo testo, “Casa senza bambole”, in cui l’autrice mette in scena la condizione di una donna prigioniera. Il suo amato è diventato un carceriere: la tiene relegata in uno spazio delimitato, decide della sua alimentazione e, rapito dal buio della ragione, la riduce in schiavitù in forza di una sotterranea volontà cieca e perversa. La protagonista del monologo ripercorre le azioni che l’hanno fatta piombare in quel baratro: le cure dell’amato nell’anticipare i suoi bisogni, nel sollevarla dalle dure incombenze materiali del quotidiano, si trasformano in una reclusione il cui unico rapporto diventa quello con un carnefice.

La dicotomia vittima/carnefice, storicamente, riverbera un fenomeno sia individuale che collettivo perché se, da un lato, è l’azione del singolo a guidare la persecuzione su un soggetto fragile, portatore inconsapevole di “tratti vittimari”, dall’altro bisogna tener presente che gran parte della cultura occidentale, antico greca, protocristiana e cristiana, è interamente cementata sul diffuso bisogno di individuare un capro espiatorio, vittima sacrificale dei mali del mondo. Etimologicamente, il significato di “tragedia” deriva dalla composizione dei due termini greci: “tragos – ode” traducibili in “canto di capri” e, infatti, nel teatro greco delle origini il coro era formato da coreuti mascherati da teste di capri che, in un lamento corale, raccontano l’origine del sacrificio di cui erano stati oggetto e vittime espiatrici.

Come ben analizza il filosofo francese René Girard, uno dei tratti che emergono dalla riflessione storico-filosofica sulla narrazione tragica classica poggia su uno schema pressoché universale: i persecutori prendono di mira individui o gruppi sociali con tratti psicologici o comportamentali espressione di una alterità, e si accaniscono contro di loro proprio in ragione di tale differenza. Parimenti, l’ossessivo e mortifero persecutore di “Casa senza bambole” cerca di reprimere la vitalità e la creatività della sua donna, così diversa da lui. Attraverso la descrizione del mondo interiore della voce narrante, Tiziana Colusso riesce sapientemente a rappresentare il complesso meccanismo di manipolazione che piega le donne alla sottomissione. Una sottomissione che diventa invece pura violenza nel testo teatrale “Il precipizio. Teatro delle voci per Donatella e Rosaria”. Qui, una pluralità di voci, da quella mitologica della maga Circe a quella reale di una delle vittime del massacro del Circeo, Donatella Colasanti, sdoppiata nella versione giovanile e matura, articola teatralmente le riflessioni e le persecuzioni giudiziarie frutto della mentalità collettiva ancora retriva ed espiativa degli anni 70.

Mediante una pluralità di voci, l’autrice di Lengua de striga riesce anche a inoltrarsi negli angusti anfratti del bullismo collettivo quando, a farne le spese, è la povera Irina l’idiota, come la chiamano in paese. Irina, giovane ragazza di campagna immersa nello «stupore del mondo», guarda con timida ammirazione un gruppo di giovani. Li scruta da lontano e non oserebbe avvicinarsi se non fossero i ragazzi a cercarla per poi trasformarsi repentinamente in aguzzini, legandola a una roccia tra sputi, risate e strappandole i vestiti «per vedere l’aspetto di quel corpo sgraziato, sempre camuffato dentro stracci e scialli, come una lebbrosa». Il coro dei paesani, tuttavia, interrogato sull’accaduto, si schiera dalla parte dei ragazzi giustificandone la ferocia in quanto colei appare, ai loro occhi, solo come errore di natura, più simile a un animale aggressivo che a un essere umano. Una difesa collettiva, quella del coro dei paesani, che testimonia quanto il capro espiatorio funga da catalizzatore di istanze sacrificali generate da fragilità collettive.

Incontrando l’autrice, donna bella e poetica, mi sono chiesta da quali profondità del proprio sentire sia emersa la capacità di dipingere figure femminili così distanti dall’universo simbolico dei media; eppure, così intimamente vicine a ognuna di noi. La risposta, credo, è tutta in questi sette testi, scritti in un arco di tempo che va dal 1990 al 2023, alcuni già editi, altri solo rappresentati, altri inediti. Sette storie di cui vale davvero la pena fruire, sia come “testimonianze” al femminile, sia come alta espressione di drammaturgia poetica.

L’autrice: Laura Massacra è autrice e producer Rai

Carcere. Il caso di un giovane italiano detenuto in Belgio, affetto da malattia mentale

Ancora una volta,come Left, poniamo attenzione all’asprezza della condizione carceraria, al garantismo, allo Stato di diritto. Qui parliamo della vita di un giovane italiano, detenuto da più di tre mesi nel carcere belga di Hasselt. Il ragazzo ha problemi psichici seri. Sappiamo bene che, purtroppo, il carcere non aiuta. Anzi, l’isolamento potrebbe indurlo a compiere gesti di autolesionismo. Ne parliamo con il padre.

Perché suo figlio è in carcere?

Mio figlio ha 27 anni ed è rinchiuso in un carcere belga da metà maggio, accusato del furto di otto collanine. Non sostengo l’innocenza di mio figlio, perché non è questo il punto. Tengo, però, a dire, che l’avvocatessa che difende mio figlio, a fronte dei trenta mesi di detenzione richiesti dal Pubblico ministero, ha sostenuto la piena assoluzione in base ad un’attenta analisi probatoria. Cito solo alcuni elementi. Addosso a mio figlio non è stata rinvenuta alcuna refurtiva, non è stata eseguita alcuna analisi delle telecamere presenti, non è stato eseguito alcun controllo delle impronte digitali e nessuna lettura del Dna sullo spray ritrovato. Non è stata, inoltre, svolta alcuna indagine sui numeri di telefono trovati sul cellulare di mio figlio di coloro che si è supposto fossero i suoi complici. Esistono, infine, altri fascicoli per fatti simili avvenuti nella stessa data. Il che lascia intendere che altri autori fossero “attivi”. Non solo: l’avvocatessa ha tenuto a specificare alla Corte che una pena detentiva fissa per mio figlio non era assolutamente una soluzione adeguata , che esistono soluzioni alternative e che devono essere prese in considerazione. Il punto fondamentale, peraltro, è evidenziare il background di mio figlio, la sua situazione medica e psicologica: è stato seguito dal SerD per disturbo da uso di cannabis e di cocaina e per  “disturbo dell’umore e di personalità”. Malesseri già certificati nel 2017 da un perito del Tribunale.

Come sta il ragazzo? Riuscite a comunicare?

Il ragazzo oscilla pericolosamente tra alti e bassi. Più passa il tempo e sempre più frequenti sono le fasi down. Ci sentiamo perché in cella ha un telefono fisso a pagamento che ci permette di comunicare, anche se l’apparecchio è difettoso e spesso non capisco cosa mi dice, cade continuamente la linea e l’ascolto è disturbato da acuti fischi.

A che punto è la vicenda? Come sta tentando di aiutare suo figlio?

Stiamo attendendo l’11 settembre per il verdetto. Non mi ero mai trovato in un simile frangente. Ho contattato immediatamente sia l’organizzazione di Ilaria Cucchi sia Antigone. Ho dato mandato per la difesa all’avvocatessa fiamminga prima citata in modo di liberarmi dal silenzio totale dell’avvocato d’ufficio.

Cosa spera di ottenere?

Spero che mio figlio rientri il prima possibile in Italia in modo che possa riprendere le cure psichiatriche che non gli sta fornendo la struttura carceraria, cioè almeno un colloquio diretto ogni quattordici giorni con uno psichiatra che parli italiano e che conosca la storia di mio figlio, affinché il medico possa rimodulare la diagnosi e la posologia dei farmaci in base del colloquio diretto e dalle impressioni avute nel vederlo. Penso sia questo il modus operandi di uno psichiatra.

Sta trovando condivisione e aiuti in questo difficile momento?

Mi hanno aiutato alcune associazioni e particolarmente con la parlamentare Ilaria Cucchi che sentirà a gorni anche l’europarlamentare Ilaria Salis. Mi hanno aiutato amici giornalisti (come voi state facendo) in questi tre lunghissimi mesi e, tra gli intellettuali democratici, vorrei ricordare l’interesse immediato alla vicenda sia di Pino Cacucci, sia di Ascanio Celestini. Mi è sembrato, invece, insufficiente il ruolo dell’ambasciata italiana in Belgio. Ho discusso via mail con il personale addetto, ma ho dovuto sottolineare che alcune mie affermazioni+, peraltro scritte, venivano travisate. Forse per incomprensioni. Gravi, in questi frangenti. Preferisco avere questa convinzione , piuttosto che pensare che vi sia stata noncuranza verso alcune mie richieste d’aiuto avanzate all’Ambasciata. Alla quale chiederò di svolgere il suo compito con impegno.

aggiornamento del 2 settembre 2024, lettera ai ministri della Giustizia e degli Affari esteri:

Ai ministri della Giustizia e degli Affari Esteri e della Cooperazione internazionale. Oggetto: libertà e cure per Andrea, in carcere in Belgio dal 16 maggio                                                                                                               Andrea Sommariva è un ragazzo genovese di 27 anni affetto da seri problemi psichiatrici. Oltre alla sofferenza psichica il ragazzo è tossicodipendente e in virtù della sua condizione psico fisica è in cura presso i servizi di assistenza socio sanitaria liguri. Andrea è stato arrestatolo scorso 16 maggio in Belgio e tradotto nel carcere di Hasselt  dove è ancora attualmente detenuto in attesa di giudizio. E’ accusato del furto di alcune collanine durante un concerto. Giungono notizie preoccupanti circa le condizioni di detenzione di Andrea; la sua situazione psicofisica è sempre più preoccupante  e lo stato depressivo in cui versa non gli consente di provvedere adeguatamente a se stesso nello stato di detenuto in cui si trova in attesa di giudizio. E’ d’obbligo sottolineare che è stata rifiutata la richiesta del suo avvocato di uscita su cauzione, che non è adeguatamente seguito dal personale medico psichiatrico, che gli altri detenuti sono essi stessi preoccupati per la sua salute, che è già stato interessato il Parlamento italiano.  Andrea rischia trenta mesi di carcere su richiesta del PM belga eppure, considerata la lievità del reato e le sue condizioni psico fisiche  potrebbe essere comunque liberato per essere curato in attesa di giudizio. Il rimpatrio in Italia metterebbe Andrea nelle condizioni di essere curato adeguatamente , in attesa degli esiti del processo in Belgio. Ci uniamo alla voce dei parenti e degli amici di Andrea nella richiesta di un intervento urgente del Governo attraverso i Ministri competenti affinché le autorità del Belgio comprendano la portata umanitaria della richiesta di scarcerazione  e agiscano di conseguenza. In attesa di sviluppi positivi, distinti saluti                                                            Ilaria Cucchi, Ilaria Salis, Cesare Antetomaso (esecutivo Giuristi Democratici), Italo Di Sabato ( Osservatorio repressione), Luigi Manconi, Giovanni Russo Spena

Perfetto, Delmastro

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Il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro ha ancora addosso la macchia d quella Capodanno passato con il suo amico e collega di partito Emanuele Pozzolo che, secondo la Procura, avrebbe sparato al suo caposcorta. Sparito per un po’ dai radar ha deciso di riemergere nei giorni ferragostani per visitare il carcere di Taranto. 

In una situazione di insopportabili suicidi all’interno delle carceri e di caos politico su una riforma che non arriverà mai Delmastro ci ha tenuto a farci sapere di “non essersi inginocchiato alla Mecca dei detenuti”. Per lui era importante dirci che ha visitato solo gli agenti di polizia penitenziaria. Come nelle peggiori distopie Delmastro ritiene il carcere il luogo dove si affrontano i buoni contro i cattivi, il terreno di scontro tra agenti penitenziari che rappresentano la mano dura dello Stato e quegli sciagurati di detenuti che si meritano tutte le angherie. In questo filone si inserisce la scelta di inaugurare il plotone speciale di militari che dovranno occuparsi delle rivolte carcerarie, con buona pace dei 60 suicidi dall’inizio dell’anno.

Non contento il sottosegretario si è fatto anche fotografare mentre fumava beatamente una sigaretta sotto un cartello di divieto di fumo stampato in bella vista. Foto rimossa dai suoi social troppo tardi, quando tutti noi abbiamo potuto gustare un sottosegretario alla Giustizia che entrato in un carcere senza accorgersi che ci sono dei detenuti e violando la legge nel luogo che dovrebbe rieducare alla legge. Perfetto. 

Buon venerdì. 

Arianna Meloni, mai nel merito

Gira insistentemente voce che la famiglia Meloni – ancora di più del partito Fratelli d’Italia – abbia intenzione di sfruttare il momento di difficoltà delle Ferrovie per sostituire l’amministratore delegato Luigi Corradi con Sabrina De Filippis che è amministratrice delegata di Mercitalia logistics ma soprattutto è molto amica di Arianna, sorella di Giorgia e quindi d’Italia. 

La senatrice Raffaella Paita, di Italia viva, ha chiesto conto al governo con un post su X. “Arianna Meloni era sui giornali per l’influenza sulle nomine in Rai, oggi per FS. Non potrebbero farla direttamente ministra dell’attuazione del programma?”, ha scritto Paita, facendo riferimento a una preoccupante “parentocrazia”. 

L’opposizione fa l’opposizione: domanda, pressa, riprende i retroscena per renderne conto. La maggioranza avrebbe il compito di rispondere nel merito. In questo caso avrebbero potuto spiegarci i talenti di De Filippis che la rendono importante per quel ruolo. Avrebbero potuto semplicemente negare. 

La senatrice di Fratelli d’Italia Domenica Spinelli invece risponde parlando di una «patetica Paita» che “si presta, sotto dettatura del padre padrone Renzi, a muovere accuse infondate ad Arianna, colpevole solo di essere una donna libera». La senatrice meloniana Paola Mancini dice del «capo branco Renzi, dopo aver dettato alla sua sottoposta Paita gli attacchi contro Arianna Meloni, ora scatena la sua muta di cani contro la senatrice Spinelli. I suoi metodi da boss fallito di provincia non intimidiranno la senatrice Spinelli e nessuno di Fratelli d’Italia». 

In serata risponde Arianna con il solito vittimismo contro quelli che vogliono «dipingere mia sorella come traffichina e melmosa». 

Risposte nel merito? Nessuna. Avanziamo una timida proposta: sostituite il ministro dei Trasporti, siate coraggiosi. 

Buon giovedì. 

Foto da Wikipedia

Tobagi: “Le stragi nere non sono un mistero. La destra di governo non occulti la verità storica”

Il 12 agosto nessun esponente del governo ha partecipato all’ottantesimo della strage nazifascista di Sant’Anna di Stazzema. C’era da aspettarselo. Del resto, silenzio e manipolazione della storia caratterizzano da tempo la linea del presidente del Senato La Russa e della presidente del Consiglio Meloni, che il 2 agosto è partita all’attacco di Paolo Bolognesi, portavoce dell’associazione dei familiari delle vittime della strage neofascista di Bologna. Come leggere queste e altre uscite di esponenti di Fratelli d’Italia? Lo abbiamo chiesto Benedetta Tobagi, storica e giornalista, autrice di molti libri, fra i quali i recentissimi Le stragi sono tutte un mistero (Laterza) e Segreti e lacune, Le stragi tra servizi segreti, magistratura e governo (Einaudi). Oggi, 14 agosto, Tobagi è a Sarzana, in dialogo con Davide Conti e Manlio Milani.

Benedetta Tobagi

Tobagi, perché dopo diversi ergastoli, condanne definitive e accertamenti su chi ha finanziato e organizzato la strage di Bologna del 2 agosto 1980 c’è chi ne nega ancora la matrice neofascista ed eversiva?

C’è un discorso articolato e complesso che riguarda tutte le stragi. E ce n’è uno più specifico che riguarda quella di Bologna. Il mancato riconoscimento della matrice nera delle stragi da parte dalla subcultura di destra in Italia riguarda tutti gli eventi stragisti. Registriamo una mancata elaborazione del passato da parte della destra. L’atteggiamento prevalente è rimuovere tutte le pagine scomode dall’album di famiglia. Storicamente il Msi e An, e poi FdI, non hanno mai riconosciuto la responsabilità del terrorismo nero nello stragismo.

Perché alcuni gruppi parlamentari ed esponenti di governo non lo riconoscono?

Fra le caratteristiche del terrorismo nero c’è stata la porosità fra ambienti extra parlamentari ed eversivi e ambienti della destra legale. Si registrano molti casi di doppia militanza fra Msi e organizzazioni della destra extra Parlamentare con molti sconfinamenti in gruppi responsabili di attentati.

Da qui il tentativo di cancellazione di tutte le evidenze emerse faticosamente nei decenni?

Ha fatto molto gioco a questa prassi di negazione delle evidenze il fatto che le stragi siano state oggetto di depistaggi sistematici. Nella confusione le destre hanno avuto buon gioco nel negare ciò che emerge nei processi, dall’altra nell’assumere un atteggiamento vittimistico.

Esponenti della destra parlamentare, extraparlamentare, e perfino gruppi terroristici, lei scrive nel libro,  hanno detto che le stragi sono state di Stato. Cosa c’è dietro?

Hanno copiato uno slogan della sinistra extraparlamentare, nato a difesa degli anarchici, inventato in occasione di piazza Fontana. Lo usano per dire che i terroristi neri sarebbero stati i capri espiatori delle stragi di Stato. E’ un meccanismo importante da capire e da segnalare perché decenni di indagini e di processi affermano, invece, che i depistaggi sono stati tutti e sempre a difesa dei responsabili di estrema destra delle stragi.

In questo quadro come rientra la strage di Bologna?

Nello specifico Bologna è stata oggetto di campagne innocentiste particolarmente feroci. I giovani Nar, i primi processati e condannati, erano proprio usciti dal grembo delle organizzazioni giovanili del Msi. A questo proposito ricordo un’intervista di Gian Antonio Stella nel 1994 a Mambro e Fioravanti dal titolo provocatorio “Noi all’ergastolo loro al governo”. In questo quadro rientra la battaglia di destra a difesa di Ciavardini. Dalle biografie di tutti loro si evincono legami personali e molte continuità con la destra di governo. Quanto all’inchiesta sulla strage di Bologna è stata segnata da una tale quantità di depistaggi da rendere particolarmente difficile arrivare a formulare un atto di accusa. Il complesso probatorio necessariamente indiziario (che non vuol dire inadeguato o tale da non garantire gli imputati) è stato preso di mira non solo da persone politicamente e culturalmente legate alla destra ma anche da settori dell’intellettualità di sinistra.

Si riferisce al comitato “E se fossero innocenti?”

Vi compaiono  personalità di spicco come Luigi Manconi e Furio Colombo, insieme a molti altri. Tutto questo non ha fatto che alimentare la fabbrica dei dubbi intorno a Mambro e Fioravanti, rei confessi per molti delitti ma che non hanno mai riconosciuto la responsabilità dell’attentato alla stazione di Bologna.

Dai neofascisti Mambro e Fioravanti condannati per la strage di Bologna non arriva una parola di verità. La esigeremmo dalla presidente del Consiglio Meloni. Ma nel 2023 in occasione dell’anniversario del 2 agosto è stata quanto meno elusiva e quest’anno è partita decisamente all’attacco di Bolognesi. Che ne pensa?

Penso che in occasione di questo anniversario con tutta evidenza ci sia stata una intesa tra la presidente del Consiglio Meloni e il senatore La Russa, seconda carica dello Stato. In accordo hanno proposto una formulazione pilatesca: le sentenze attribuiscono l’attentato al terrorismo neofascista.

Perché pilatesca?

Basta fare il confronto con le affermazioni chiare del capo dello Stato Mattarella. Gli esponenti di destra parlano di attribuzione non di accertamento di un dato stabilito. E’ una formulazione che in questo modo lascia aperta una porta di servizio, una via di uscita per poi poter attaccare le sentenze della magistratura, come poi altri esponenti della magistratura hanno puntualmente fatto. Si conferma la grande scaltrezza comunicativa di questa destra di governo. Meloni ha scelto di attaccare Paolo Bolognesi utilizzando il registro su cui si muove più spesso che è quello del vittimismo, addirittura ha evocato minacce per la sua sicurezza personale. È gravissimo. Alcuni commentatori in scia sono arrivati a qualificare Paolo Bolognesi come esponente di un antifascismo radicale (cioè violento, che istiga all’odio, secondo il linguaggio di certi politologi). Parliamo di una persona che nell’attentato perse il padre di sua moglie mentre suo figlio rimase gravemente ferito. La statura di Bolognesi è paragonabile a quella di Secci, figura di grande spessore che si staglia nella memoria di Bologna. L’attuale portavoce non è stato la figura patetica e addomesticata che sarebbe evidentemente piaciuta alla presidente del Consiglio, ma si è mosso nel solco dell’esperienza dell’Associazione familiari delle vittime della strage di Bologna nata nel 1981 con lo scopo di ottenere verità e giustizia con ogni mezzo legale e democratico possibile e che si è caratterizzata per un grande impegno.

Bolognesi è stato attaccato per aver ricordato un fatto accertato: la strage di Bologna fu finanziata dai vertici della P2…

Ha richiamato alla memoria con grande chiarezza, e senza troppi giri di parole, gli elementi più gravi della strage di Bologna non “semplicemente” di matrice nera, ma con intrecci e legami con quel terreno in cui affondano le radici di questa destra di governo. Bolognesi ha ricordato il ruolo da protagonista che ebbe nella genesi della strage e nei depistaggi la loggia P2…una cosa imperdonabile per la destra. Ha ricordato come alcuni progetti e parole chiave della P2 (network di potere occulto che aveva un chiaro disegno di svuotamento della democrazia dall’interno) tornano nelle politiche di governo. E qui la questione chiave è che idea di democrazia abbiamo. Se temi della P2 ritornano, dobbiamo fare una seria riflessione politica. Ripeto, Bolognesi si è mosso in continuità con la storia dell’Associazione soffermandosi sugli aspetti politici gravissimi posti dalla storia della strage. E questo ha fatto scattare la presidente del Consiglio in modo scomposto. Paradossalmente questo scatto è stato un grande autogol del governo.

Perché?

È venuta giù una maschera. Difatti si continua da molti giorni a parlare di quella strage. Per la strage di Brescia non si è fatto altrettanto, benché fosse il cinquantenario, benché il presidente Mattarella si fosse recato a Brescia per dare centralità nel calendario civile della memoria della strage. Nonostante questo la strage era stata immediatamente oscurata da una vicenda come il turpiloquio fra Meloni e il presidente della Campania De Luca. La reazione stizzita di Meloni nel caso di Bologna ha acceso una discussione che è durata a lungo. Così come era stato quando La Russa disse assurdità sulla strage di via Rasella. Ebbe l’effetto collaterale di accendere una lunga scia di discussione nell’opinione pubblica che si mostra ancora vigile, attenta e sensibile.

Riguardo alla strage di Bologna Meloni è tornata ad evocare la pista palestinese parlando di segreti di Stato, quando non ce ne sono e come lei ben chiarisce. Tanto che il governo Renzi si limitò a declassificare alcuni documenti nonostante la propaganda. Che ne pensa?

Dal punto di vista comunicativo sono attive ormai da tempo operazioni molto “interessanti” per chi studia queste cose come me: l’espressione strage di Stato è stata fatta propria da parte delle destre. Ma si sono appropriati anche della battaglia per aprire gli armadi e ottenere gli accessi ai documenti; battaglia che storicamente appartiene alle associazione delle famiglie delle vittime delle stragi, un pezzo importante della società civile. In pratica la destra sostiene che dentro gli archivi dei servizi segreti ci siano documenti che provano la pista palestinese. Più specificamente negli ultimi anni gli appelli si sono concentrati su carte che sarebbero già state acquisite da commissioni parlamentari di inchiesta e ancora non consultabili da parte degli studiosi. Alcuni esponenti della destra di governo affermano di aver visto quelle carte e a loro dire conterrebbero prove della pista palestinese.

Entrando nel merito in che consiste la pista palestinese?

Ci fu un accordo in Italia dettato dalla più cruda ragion di Stato. Va sotto il nome di lodo Moro. Uno studioso come Lomellini suggerisce di chiamarlo lodo di intelligence perché fu un accordo di ragion di Stato condiviso da i massimi livelli delle autorità italiane con i principali terroristi palestinesi. Cosa diceva? Voi non fate attentati in territorio italiano e in cambio avete libertà di movimento per trasporto di uomini e armi sul territorio italiano.

Perché lo definisce accordo di ragion di Stato?

Perché implica che se non colpivano in Italia avrebbero colpito altrove. Quell’accordo cominciò a valere dal 1973 dopo la strage di Fiumicino e resse fino ai primi anni 80. La pista palestinese prese il via dopo l’arresto nel 1979 di un attivista palestinese e di un esponente dell’autonomia organizzata. Furono fermati mentre trasportavano un missile. La strage di Bologna sarebbe stata una ritorsione. La documentazione (compresa quella resa disponibile dal governo Meloni nel 2023) smentisce questa ipotesi. Proprio da quei documenti apprendiamo che i servizi segreti italiani continuarono a trattare con i Palestinesi. E poi nei primi anni 80 il palestinese in questione venne liberato. Dunque manca il presupposto della vendetta. Poi per onestà intellettuale dobbiamo riconoscere che c’è una radicale diversità fra il repertorio d’azione del terrorista palestinese e il terrorismo nero stragista. I terroristi palestinesi colpivano obiettivi mirati legati a Israele: Fiumicino, Monaco 82, dirottamente aerei.

La pista palestinese ha anche una variante…

Sì alcuni hanno sostenuto che la strage fosse stata la conseguenza di un trasporto di esplosivo, di quelli previsti dal lodo, finito male. Ma tutte le perizie hanno detto che il tipo di esplosivo che devastò la stazione di Bologna il 2 agosto 80 non era di quelli che esplodono in maniera incidentale. Ribadisco questa ipotesi non sta in piedi anche sulla base della documentazione che progressivamente è stata resa accessibile. Ovviamente questa evidenza non sembra interessare. Si continua a riproporre anche la battaglia per a trasparenza e qui vorrei sottolineare: sono battaglie comunicative. Quello che ci insegna la retorica della destra in tutto il mondo è che loro confidano nel fatto che su tu continui a ripetere in maniera martellante una tesi ignorando le tesi conterie ti porti dietro un pezzo di opinione pubblica.

Ecco un estratto, in anteprima, dell’ampia intervista a Benedetta Tobagi che uscirà su Left in edicola dal 6 settembre. Il 12 settembre all‘Archivio Flamigni di Roma, presentazione de Le stragi sono tutte un mistero, con l’autrice, la direttrice dell’archivio Ilaria Moroni e il magistrato Giovanni Tamburino. In collaborazione con Left

In foto:Manifestazione di protesta in piazza Maggiore a Bologna, durante la celebrazione dei funerali delle vittime. Foto di Beppe Briguglio, Patrizia Pulga, Medardo Pedrini, Marco Vaccari – http://www.stragi.it/index.php?pagina=associazione&par=archivio, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=4490300

Rimettere ogni giorni i colori a posto

opera di Laika, dedicata a Paola Egonu

Giornate olimpiche passate ad ascoltare giornalisti, politici e presunti intellettuali della destra che ci spiegavano di non essere razzisti, di voler parlare di integrazioni. Quintali di carta sprecata per intervistare quel pessimo generale (poi diventato personaggetto e infine arrivato all’Europarlamento) su qualsiasi argomento dello scibile umano e doverselo sorbire mentre ci spiegava che “non sono razzista ma”. 

Ore perse in dibattiti che fingevano di occuparsi di integrazione quando semplicemente volevano solleticare gli istinti bassi dei razzisti che votano. Una simulazione di benpensantesimo per coprire l’anima xenofoba di un Paese in cui essere razzisti da vergogna è diventato vanto. 

È durato lo spazio di una giornata il murale dedicato a Paola Egonu, pallavolista della nazionale italiana e neo campionessa olimpica. Ieri è stato vandalizzato il murale ‘Italianità’ dedicato alla campionessa azzurra avanti alla sede del Coni, oscurando il volto della pallavolista e colorando il colore della sua pelle di rosa. “Il razzismo è un cancro brutto da cui l’Italia deve guarire”, ha scritto la street-artist Laika che ha condiviso sul suo account Instagram un’immagine dell’opera deturpata. 

Noi siamo questo Paese qui, in cui perfino un disegno diventa caso da tempi dell’apartheid. Siamo il Paese dove una passante nel pomeriggio ha deciso di prendere un pennarello per ripristinare i colori originali. Un Paese dove ogni giorno ai passanti è richiesto di restaurare le basi di convivenza civile.  

Buon mercoledì. 

Meglio che non siano andati a Sant’Anna di Stazzema

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ieri ha detto che le radici della Repubblica sono piantati a Sant’Anna di Stazzema, dove ottant’anni fa furono trucidati dalle SS 560 civili, quasi tutti donne, anziani e anche molti bambini. I nazisti, con l’aiuto di membri delle Rsi, voluto sterminare una comunità.

Sarà per questo che nessuno del governo, Giorgia Meloni in testa, ha ritenuto di dover essere presente alla celebrazione, nonostante gli inviti formali del sindaco, nonostante il dovere della memoria in questi tempi di guerra come risoluzioni delle controversie. Anche questo l’ha ricordato Mattarella.

Per l’anniversario dell’eccidio di Sant’Anna di Stazzema dobbiamo accontentarci dello stringato comunicato stampa del presidente del Senato Ignazio Mario Benito La Russa che si riferisce a una “ferita indelebile” senza nessun cenno alle responsabilità e alle parole del presidente della Camera Lorenzo Fontana che invece fa riferimento ai “uno dei crimini più brutali commessi dai nazifascisti in Italia”. 

Forse è meglio che i membri del governo non ci siano andati. Almeno la presidente del Consiglio ci ha evitato di polemizzare con i parenti delle vittime come accaduto per i famigliari mai risarciti della Strage di Bologna. Almeno Salvini ci ha evitato le sue invocazioni al Signore per coprire la sua ignoranza sulla storia della Repubblica. Almeno Tajani ci ha evitato la scenetta logora del poliziotto buono in mezzo ai cattivi. Meglio così. 

Questa maggioranza non ha nulla a che vedere con “le radici della nostra Repubblica” evocate da Mattarella, oppure hanno a che vedere con la parte sbagliata. 

Buon martedì. 

Altri c’erano a cominciare da Rossano Rossi, segretario Cgil Toscana

Foto del 12 luglio a Sant’Anna di Stazzema scattata dalla Cgil Toscana

Sant’Anna di Stazzema. Due libri per ricordare l’eccidio nazifascista di donne e bambini

Il 12 agosto del 1944 i nazisti uccisero più di 560 persone a Sant’Anna di Stazzema in provincia di Lucca. Fra loro anche 107 bambini. Fu un eccidio a freddo, senza neanche motivazioni di guerra, perché si accanirono con crudeltà su vecchi, donne e minori. Con bombe, mitragliatrici e poi dando fuoco ai corpi. Quella strage efferata ha lasciato ferite ancora aperte nella memoria, che hanno continuato a sanguinare anche perché non c’era stata alcuna giustizia per quei morti, almeno fino al 2014 quando finalmente la corte federale di Karlsruhe annullò la decisione della procura generale di Stoccarda che aveva negato la riapertura delle indagini per la strage nazista di Sant’Anna di Stazzema.

L’ex SS Gherard Sommer era già stato condannato all’ergastolo in Italia, insieme ad altri dieci ex militari tedeschi ma le condanne, confermate dalla Cassazione, non erano mai state eseguite. Nell’ottobre del 2012 la procura di Stoccarda decise di non chiedere l’imputazione a causa dell’impossibilità di provare le responsabilità individuali e l’aggravante della premeditazione ma i familiari delle vittime della strage fecero ricorso e hanno vinto. Ed è stato un passo importante non solo per i sopravvissuti alla strage riuniti nell’associazione dei Martiri di Sant’Anna di cui è stato al lungo presidente Enrico Pieri (scomparso nel dicembre 2021).

Di questo disumano atto compiuto dai nazisti e dai fascisti scrive Daniele Biacchessi in un libro, necessario e coraggioso, Eccidi nazifascisti  (edito da Jaca Book) in cui il giornalista e scrittore, direttore editoriale della testata Giornale radio, ripercorre le efferate stragi nazifasciste del 1943-1945, che furono delle vere e proprie guerre ai civili, partendo da quella di Cefalonia per arrivare a quella di Casalecchio di Reno e Casteldebole.

A fargli da guida sono, in primis, i 695 fascicoli ritrovati nell’armadio della vergogna, come lo definì il giornalista Franco Giustolisi che nel 2014 portò alla conoscenza del grande pubblico il loro contenuto e scrisse del loro insabbiamento avvenuto già tra il ’45 e il ’47 (nella postfazione del libro c’è anche l’ultima, lucidissima intervista al giornalista dell’Espresso). Questo significa che già da molti anni si conoscevano i responsabili delle stragi ma furono coperti e i fascicoli insabbiati in quello scellerato passaggio senza soluzione di continuità che caratterizzò tanti apparati dello Stato dopo la Liberazione. “Il governo ordinò di insabbiare e i giudici eseguirono con zelo…In guerra non tutto è lecito e non lo era nemmeno nella seconda guerra mondiale quando vennero infrante le convenzioni dell’Aja”, disse nel 2013 il procuratore militare Antonino Intelisano a Biacchessi. Furono anche le sue indagini a portare alla “scoperta” degli oltre 600 fascicoli, fra i quali anche quello che riguarda Stazzema.

Il libro di Giustolisi intitolato appunto L’armadio della vergogna  (Nutrimenti 2004) aveva in copertina una foto che rimandava all’ eccidio del 12 agosto. In quell’immagine seppiata si vedono dei bambini che fanno un girotondo davanti al parco della scuola di Sant’Anna.

Da quello scatto partiva il recital di Biacchessi di qualche anno fa e da lì parte una delle pagine più intense del suo ultimo libro, Eccidi nazifascisti. “Me li immagino cantare a squarciagola Giro giro tondo, casca il mondo, casca la terra, tutti giù per terra“, scrive. “Del resto quel giorno iniziano le vacanze estive e possono giocare finalmente con altri bambini giunti da poco in paese, in una danza senza fine. Scrivono i loro sogni su fogli di carta. Poche righe, frasi di chi vive spensierato mentre intorno la guerra dei grandi distrugge e divide il mondo. C’è chi ha conservato quei bigliettini….Esattamente un mese dopo quella fotografia e quei bambini svaniscono nel nulla, sterminati dai nazifascisti come i loro genitori”.

Qual che non va dimenticato, sottolinea Biacchessi, è che a Sant’Anna di Stazzema i nazisti organizzarono con l’aiuto dei fascisti non una rappresaglia contro i partigiani in risposta ai loro assalti “ma un vero e proprio massacro pianificato di civili inermi”.

C’è un altro libro, profondo e toccante, che permette di capire cosa sia stato davvero quell’eccidio, il più orrendo, fra i tanti compiuti in Italia dai nazisti. S’intitola Era un giorno qualsiasi (Terre di mezzo) e l’ha scritto il giornalista Lorenzo Guadagnucci dando voce alle memorie del padre Alberto Pancioli Guadagnucci che perse sua madre in quella strage. Quel giorno lui si salvò perché, invece di andare in paese, era andato in giro con un amico e il nonno Pasquale. Più di settanta anni dopo era ancora viva nella sua memoria l’immagine di sua madre stesa per terra, ancora cosciente, sotto un albero. «I capelli le erano diventati tutti bianchi». La ferita era troppo profonda e non fecero in tempo a soccorrerla. Rimasto solo Alberto fu adottato – per un destino crudele – da un ex fascista, da cui prese il cognome Pancioli, mentre Guadagnucci era il nome della madre che coraggiosamente, sfidando il moralismo dell’epoca, aveva cresciuto da sola questo bambino avuto da un uomo già sposato e che non l’aveva riconosciuto. Lorenzo, giornalista e scrittore, autore di molti libri fra i quali anche un importante libro-testimonianza, Eclisse di democrazia, sui fatti della Diaz durante il G8 di Genova vissuti sulla propria pelle, ne porta oggi il cognome.

80esimo anniversario della Strage di Sant’Anna di Stazzema
Il 12 agosto, il corteo sale al Monumento Ossario Sacrario per l’inaugurazione mostra Colori per la Pace e la deposizione Corona di alloro da parte delle autorità guidate dal Sindaco di Stazzema Maurizio Verona. Il programma prosegue il 17 e il 18 agosto in piazza della Chiesa, con  Quassù su questa terra che racconta. il festival teatrale curato da Elisabetta Salvatori e Luca Barsottelli. Lunedì 19 agosto ci sarà il ricordo delle vittime di Bardine San Terenzo- Fivizzano. Nell’eccidio di Bardine persero la vita anche persone rastrellate fra Sant’Anna e Valdicastello il 12 agosto 1944

Le parole sono pietre. Il linguaggio della destra

Illustrazione di Marilena Nardi

La destra sta colonizzando il linguaggio della politica. Se, come riteneva Edward Sapir, grande vecchio dell’antropologia linguistica nordamericana, lingua e cultura sono in rapporto di interazione reciproca, l’uso di determinati termini può agire a livello culturale veicolando una particolare visione della società e dei rapporti sociali. La destra, in altre parole, più o meno consapevolmente a seconda dei casi, sta agendo sul piano culturale tramite il linguaggio per sdoganare e rendere condivisibili i punti di vista che le sono cari. Bastano pochi colpi ben assestati ad alcuni concetti che sono alla base della democrazia per aprire le porte a una visione dello Stato e della società ben diversa da quella delineata nella nostra Costituzione repubblicana e antifascista.

La prima nozione da tempo sotto attacco è quella di cittadino/a. Nei discorsi pubblici, nelle interviste, negli articoli dei quotidiani – purtroppo anche non di destra – sempre più spesso si parla di ‘italiani’ piuttosto che di cittadini. Sono gli italiani, non i cittadini, che vanno o non vanno a votare; è la supposta volontà degli italiani, non dei cittadini, a cui i politici si appellano; e sono le esigenze degli italiani, non dei cittadini, quelle che il politico di turno sbandiera come obiettivo della sua azione. Il messaggio che viene trasmesso – a volte magari anche indipendentemente dalla volontà di chi parla – è che gli unici veri titolari dei diritti costituzionalmente garantiti sono le persone di ascendenza italiana, e che pari diritti non possono quindi essere riconosciuti a persone di diversa origine: “prima gli italiani”, come recita il motto di Salvini.

Non era questa la visione dei Costituenti che hanno voluto un testo in cui il termine ‘italiani’ compare una sola volta, all’art. 51, a proposito dell’accesso alle cariche pubbliche da parte degli «italiani non appartenenti alla Repubblica». I Costituenti non hanno definito l’Italia Stato degli italiani. Anzi, hanno stabilito che l’Italia può essere lo Stato di tutti coloro a cui non è consentito nei loro paesi di origine «l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana». L’art. 10 – una finestra aperta sul mondo che estende all’umanità intera il dovere di solidarietà sancito all’art. 2 – riconosce infatti a chi si trova in quelle condizioni, il diritto di essere accolto nel nostro Paese. E non toglie valore a tale affermazione di principio, il fatto che oggi essa appaia difficile da attuare.

L’Italia, in altre parole, non è uno Stato etnico, come lo è ad esempio Israele che con una legge del luglio 2018 si è autodefinito «Stato-Nazione degli ebrei», o le repubbliche della ex-Jugoslavia, come la Croazia e la Slovenia che si definiscono nelle loro Costituzioni Stati-Nazione dei rispettivi popoli. Come ha osservato l’antropologo statunitense Robert Hayden (American Ethnologist 23 (4), 1996), in uno Stato etnico lo Stato si fonda «sulla sovranità della nazione etnicamente definita». Chi non appartiene al gruppo dominante può essere quindi solo un cittadino di seconda classe, che «non può aspettarsi un pari diritto al controllo dello Stato». Uno Stato etnico, quindi, per definizione non è uno Stato democratico poiché non riconosce pari diritti a tutte le componenti della popolazione.
Parallelamente e conseguentemente, insieme al termine “cittadino”, è emarginato oggi il termine “Paese”, sostituito sempre più frequentemente – e costantemente nella bocca di Meloni e dei suoi – dal termine “nazione”. È il bene della nazione, non del Paese, l’obiettivo dichiarato dell’azione politica, e sono gli interessi della nazione, non del Paese, da tener presente in politica estera. È un processo che fa pensare a quanto accaduto nella ex-Jugoslavia, per lontani che possano sembrare i tragici sviluppi che ha avuto in quel contesto. Se lì erano prese di mira le minoranze etniche, da noi l’obiettivo sono i migranti. In Italia e non solo: siamo di fronte a un processo estremamente preoccupante che, come hanno mostrato le recenti elezioni europee, è in atto in tutto il continente.

Non a caso anche i termini “nazione” e “nazionale” furono usati con parsimonia dai Costituenti (il sostantivo compare solo tre volte nella Costituzione), e – secondo Vezio Crisafulli – per lo più con il significato di Stato-ordinamento, e una sola volta, all’art. 67, con quello di popolo. Infatti, mentre “Paese” rimanda a un territorio con tutta la sua popolazione di qualunque origine possa essere, “nazione” rimanda a una comunità in qualche misura omogenea per qualche tratto fondamentale come la lingua, la memoria di un passato comune o la religione, oppure perché si considera semplicemente tale. E chi non rientra in tale comunità viene visto come “altro”, estraneo a quel “noi”, e quindi potenzialmente oggetto di discriminazione; se non necessariamente per legge, certamente di fatto, come dimostrano costantemente le cronache trasmesse dai media.

Il campo semantico del termine “nazione” in realtà non sarebbe molto diverso da quello del termine “etnia”; vocabolo proveniente dalla letteratura antropologica e prontamente utilizzato a fini discriminatori nel linguaggio della xenofobia. Etnia e nazione – entrambe nozioni assai discusse – in realtà potrebbero essere quasi sinonimi, anche se nazione tende ad avere una caratterizzazione più politica. Ambedue i termini si riferiscono a una comunità di persone che si ritiene omogenea per un qualche fondamentale tratto comune o che comunque si sente soggettivamente di esistere in quanto tale; ma è diverso il contesto storico in cui hanno avuto origine. “Nazione”, in Occidente, ha una lunga storia, che passa per la Rivoluzione francese e continua nell’Ottocento nel contesto delle lotte di un popolo per la sua patria, con il principio di nazionalità di cui Mazzini fu apostolo in Italia, per degenerare infine nei nazionalismi novecenteschi.

Anche “etnia” ha radici antiche (dal greco classico ethnos) ma il suo significato moderno si forma nel quadro delle politiche coloniali di dominio messe in atto dalle potenze europee. ‘Nazione’ rientra quindi nella sfera della “civiltà”, mentre ‘etnia’ rimanda al primitivo e al selvaggio, o comunque al lontano da noi. Così capita di leggere o di sentir parlare di “etnia albanese”, rumena, cinese, marocchina; ma mai di etnia francese, inglese o tedesca. Etnici sono coloro da cui vogliamo distinguerci. Oggi tuttavia, nonostante la sua diversa storia, anche il termine nazione rimanda allo Stato etnico: della nazione italiana non possono far parte – è questo il corollario implicito nel termine – a pieno titolo i migranti. L’Italia deve essere la patria degli italiani e non di tutti.

Particolarmente delicata è infine la posizione del termine “patria”. La sinistra è stata accusata, e si è auto accusata, di averlo lasciato alla destra per troppo tempo. Solo con la presidenza Ciampi, abbiamo cominciato a vedere – nel mio caso, confesso, con un certo irrefrenabile fastidio per gli inevitabili echi nazionalistici – in certe occasioni simboliche i tricolori alle finestre e abbiamo visto i calciatori cantare l’inno a squarciagola all’inizio delle partite internazionali, mentre prima lo sussurravano appena. Ma è chiaro a tutti il perché: sotto il fascismo il richiamo ideologico alla patria era servito a mandare a morire in guerra migliaia e migliaia di giovani, non per difendere la patria aggredita, ma per aggredire quella altrui. Sulla facciata della palestra del mio liceo a Palermo negli anni Sessanta campeggiava – e campeggia ancora – a cubitali caratteri lapidei la seguente scritta:

«Voi soiete l’aurora della vita, siete la speranza della patria, siete soprattutto l’esercito di domani».

Si può capire, quindi, perché il mondo antifascista abbia faticato a ri-accogliere nel suo lessico la parola patria. La patria era quella che mandava a morire per la grandezza del cosiddetto impero; non quel lido accogliente che parla la tua lingua, ti racconta storie tue e dei tuoi e ti inonda della luce, dei paesaggi, dei rumori, degli odori, dei sapori che conosci. Era il cittadino – o meglio il suddito – che doveva mettersi al servizio dello Stato (soprattutto in armi, recita la scritta), e non viceversa.
Oggi, a ottant’anni dalla caduta del fascismo il termine patria sta tornando ad assumere un connotato aggressivo nei confronti di coloro che non si vuole facciano parte del nostro mondo. Patrioti si definiscono adesso – ahinoi anche formalmente a livello europeo – gli xenofobi che vogliono sbarrare la strada a chi fugge dalla fame o dalle guerre, o semplicemente aspira a una vita migliore.

Ma non potrebbe invece essere patriota chi ama sì il proprio Paese ma lo vede parte di patrie più grandi, come il Mediterraneo, l’Europa, o il pianeta intero? E si riconosce cittadino del mondo accanto ad altri miliardi di umani che hanno i suoi stessi diritti (e doveri)? Sarebbe questo il modello dell’uomo planetario – delineato da Ernesto Balducci – che unisce in sé tante identità che non servono però ad escludere ma ad accogliere, e che sa scoprire ‘l’altro’ al di là delle frontiere.
Purtroppo non è questa la direzione in cui oggi si vuole portare il nostro Paese. Ce lo dice il linguaggio della politica. Un linguaggio tipico della destra che sta subdolamente conquistando anche le altre parti politiche. Le parole sono pietre, ma questa volta non sono rivolte contro la mafia, come quelle della coraggiosa madre siciliana di cui scrisse Carlo Levi. Sono scagliate contro la Costituzione antifascista che questo governo vorrebbe smantellare.

L’autore: Augusto Cacopardo è docente di antropologia all’Università di Firenze

Illustrazione di Marilena Nardi

Atlantis 2, l’ultima creazione di Armando Punzo, oltre le barriere visibili e invisibili

rmando Punzo con Alice Toccacieli (la sua aiuto regista) mentre danno le ultime indicazioni agli attori prima della replica. Foto di Filippo Trojano

foto di Filippo Trojano

È un procedere lento, un avvicinamento per gradi quello che fa il pubblico entrando nella casa di reclusione di Volterra per assistere allo spettacolo Atlantis – Capitolo 2 diretto da Armando Punzo, regista e drammaturgo della Compagnia della Fortezza, andato in scena nei giorni scorsi. Si attraversano porte di ferro, cancelli, spiazzi, in un percorso che prepara ad immergersi in una dimensione altra, quella del teatro, che in questo caso occupa e abita spazi solitamente invalicabili che negli otto giorni di repliche si aprono a sguardi e presenze esterne.

Gli attori tornano in scena per salutare il pubblico al termine dello spettacolo. Foto di Filippo Trojano

Come se quello spazio lo spettatore se lo dovesse meritare, entrando con rispetto. La forza e l’intensità delle parole e dei gesti portati in scena dalla compagnia, formata prevalentemente da detenuti con cui Punzo lavora da oltre trent’anni, cambiati nel tempo (alcuni di loro una volta usciti hanno intrapreso la carriera di attori professionisti e succede che tornino come ospiti esterni), si nutre di occhi che cercano e dialogano con gli astanti in uno scambio silenzioso. Mani forti, visi espressivi e sguardi profondi stabiliscono un contatto che cattura subito e tiene tutti incollati. Corpi che si muovono in performance di danza, scenografie geometriche che scivolano sul cemento del cortile, polvere, vernice, i costumi bianchi e neri di Emanuela Dall’Aglio, eccentrici, poetici, originali, che si contrappongono alle tante sfumature delle battute, frasi che dette in quei luoghi assumono un valore e una potenza speciale.

Un lavoro che vede alla direzione organizzativa Cinzia de Felice e alle musiche originali Andreino Salvadori, e che ruota intorno a testi filosofici, scientifici, matematici. Una riflessione sulle potenzialità dell’uomo e sulla felicità come ricerca continua.

Un attore di Atlantis in un momento di passaggio da una scena all’altra. Foto di Filippo Trojano

L’utopia di un altro mondo e un altro uomo sono obiettivi e aspirazioni, come auspica Armando Punzo, che hanno una forte carica rivoluzionaria. Fra i riferimenti del regista c’è Il Principio Speranza di Ernst Bloch. Le riflessioni rimbalzano dal palco alla platea, le domande interrogano tutti su temi universali che contrappongono la prigione reale a quella più grande in cui tutti noi siamo rinchiusi, ma da cui possiamo liberarci.

L’essere umano visto e considerato in tutte le sue potenzialità è al centro della ricerca interiore come recita un passaggio. “Un piccolo laboratorio utopico. Un laboratorio utopico. La prima enciclopedia utopica… Paesaggi dell’anima, configurazioni di attese e di desideri interiori. Non nella storia, fuori dalla storia. Io sono ma non mi possiedo in tutte le molteplici possibilità. Io sono molteplici possibilità. Un’infinita gamma di possibilità, tutte da esplorare contemporaneamente”. Ci si sposta fra il cortile, le stanze adibite a scuola, i corridoi stretti, la chiesa, il campino, un percorso che è al tempo stesso reale e simbolico.

Fonti di ispirazione- cercando nessi profondi fra personalità distanti- sono anche il filosofo e matematico greco Euclide, con la sua opera più nota, Elementi, il fisico e ingegnere elettrico Tesla, ma anche il pittore Gauguin. Le parole che pronuncia il regista e attore risuonano come un monito: “la nostra determinazione è di stare fuori dalla storia. Non tutto ciò che esiste è naturale che esista così… Mi chiamo fuori da tutto” e ancora “nulla è la storia, storia che non impara, storia da dimenticare. Dalle sue tenebre ci lancia lacci che vogliono legarci alle sue false promesse di un futuro che è tutto nel passato. Fin dove possiamo arrivare? Quanto è profondo il nostro respiro? Fin dove si allungano il braccio e lo sguardo per accogliere ciò che ancora non ci appartiene? Abbiamo bisogno di una destinazione sconosciuta in cui nulla ci assomigli. È questa… è questa la felicità di cui parlo”.

Armando Punzio e Bustos Tunoo Nay si preparano per iniziare lo l’ultima replica dello spettacolo. Foto di Filippo Trojano

Armando Punzo, insignito nel 2023 del Leone D’oro alla carriera dalla Biennale di Venezia per la ricerca sul senso del teatro e la sua idea concreta e visionaria al tempo stesso, usa la fantasia per andare oltre le sbarre reali e invisibili. Nel suo lavoro quotidiano, iniziato con i detenuti nel 1988 e allora unico progetto simile che nel 1994 è diventato il primo di Teatro Carcere, con la Compagnia della Fortezza in più di trentacinque anni ha realizzato circa quaranta spettacoli pluripremiati in Italia e all’estero facendo dell’istituto penale di Volterra un centro culturale riconosciuto a livello internazionale. E se il teatro ha il potere di allargare lo sguardo e creare un ponte fra la realtà e la finzione, fra un dentro e un fuori, non c’è luogo più adatto del carcere perché questo accada. Se noi possiamo uscire e lasciarci alle spalle quelle porte blindate ci portiamo dietro un pezzo di loro, di quelle parole e quegli occhi, di quei pensieri che germoglieranno e a cui non possiamo restare indifferenti. Nel tempo dello spettacolo si è creato un incontro, e se tutto questo potrebbe sembrare retorico a chi non ha avuto occasione di entrare nella Fortezza, non lo è per chi ha fatto quell’esperienza, forte, luminosa, stimolante.

 

L’autrice dell’articolo e l’autore delle fotografie : Linda Chairamonte è giornalista e collabora con varie testate, fra le quali Il Manifesto. Filippo Trojano è fotografo professionista, autore di libri e collaboratore di molte riviste