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Le nuove amazzoni in difesa dei nativi

«Basta averli visti una volta per esserne edificati, queste cime di ghiaccio, queste grotte abissali, queste foreste profonde, templi di alte e proficue rivelazioni». Così scriveva l’antropologo Claude Levi Strauss a proposito dei suoi primi contatti con nativi brasiliani tra il 1935 e il 1939. Erano Bororo, Caduveo, Nambikwara con pitture facciali come costellazioni, con capanne come gioielli vegetali incastonati nella foresta. “Proficue rivelazioni” anche per le centottanta persone che hanno gremito la Sala Palestrina dell’Ambasciata del Brasile a Piazza Navona, di fronte a una donna del popolo Guajajara dal volto sorridente, incorniciato dalle piume colorate del suo cocar. Sônia Bone de Souza Silva Santos Guajajara, è ministra di una istituzione che non esisteva, voluta e battezzata dal presidente Lula l’11 gennaio del 2023 come ministero dei Popoli indigeni, il primo al mondo, che vede per la prima volta una donna nativa dirigere un dicastero.
Nata nella terra indigena di Arariboia, nello Stato del Maranhão, attivista molto impegnata, dal 2013 coordinatrice del Apib, organismo che riunisce le principali organizzazioni indigene del Brasile, candidata alla vicepresidenza, deputata federale per lo Stato di San Paolo e ora ministra, Sônia Guajajara è la punta di diamante di un movimento ampio e articolato, cresciuto dall’unione di migliaia di donne appartenenti a oltre trecento popoli, consolidatosi politicamente a partire dalle proteste del 2004 e strutturatosi nel 2019 con la prima “marcia delle donne indigene” nella capitale Brasilia. Con le loro pitture corporee, copricapi e collane di piume, canti e danze, denunciarono a gran voce le devastazioni ambientali dei cercatori d’oro, incendi, omicidi e violenze in epoca Bolsonaro, sfilando così vicine ai palazzi del potere da riuscire poi ad entrarci, quando Lula vinse le elezioni.
Oggi le native che ricoprono ruoli di potere governativo sono cinque, un numero record – tra i 513 membri della Camera dei deputati. La più votata è stata Célia Xakriabà, che ha denunciato dettagliatamente la massiccia esportazione di prodotti brasiliani provenienti da territori indigeni, che comporta l’invasione dei villaggi, lavoro schiavo, violenze e gravi conflitti. Anche a capo della Funai, ente governativo di difesa dei popoli indigeni, per anni uno strumento ambiguo di potere e manipolazione, c’è ora una donna indigena, l’ex deputata Joenia Wapichana, la prima nativa a diventare avvocata in Brasile, autrice del libro Povos indígenas e a lei dos “brancos”: o direito à diferença (Popoli indigeni e legge dei bianchi: il diritto alla differenza). Molte sono le protagoniste di spicco di questo sfaccettato movimento che lancia appelli efficaci come “riforestiamo il pianeta, riforestiamo le menti” o come “la terra è il nostro corpo e il nostro spirito”, indicando un modo di fare politica universale che include la crescita interiore e la consapevolezza globale.

Essere donna in Brasile è un reato

In Brasile lo stupro è una delle pochissime situazioni che consentono l’interruzione legale della gravidanza. Le altre sono il rischio di morte della gestante e l’anencefalia fetale. In questi casi, non esiste un limite di età gestazionale per la procedura, che deve essere offerta dal Sistema sanitario nazionale (Sus) in servizi specializzati e accreditati.
Ora però anche le donne vittime di violenza che decidono di abortire potrebbero rischiare il carcere. Una misura che, come vedremo, colpisce anche le minori di 14 anni.
È quanto prevede un progetto di legge 1904/2024 presentato alla Camera dei deputati il 17 maggio dal pastore neopentecostale Sóstenes Cavalcanti – appartenente all’estrema destra bolsonarista – e sottoscritto da 32 deputati della stessa area politica. La norma di Cavalcanti, soprannominata da giuristi e associazioni femministe “Lei do estupro e do estuprador”, è sostenuta dai vescovi cattolici e dai pastori evangelici presenti in Parlamento, e prevede una pena da 6 a 20 anni per le donne che abortiscono dopo la ventiduesima settimana, anche se vittime di stupro. Si tratta in pratica del doppio della pena prevista per uno stupratore. Le vittime saranno costrette a partorire anche nel caso fossero delle bambine, un dato aberrante che mette in luce un netto peggioramento rispetto a quanto previsto nel Codice penale del 1940 che non stabiliva alcun limite legale all’aborto in casi di stupro.
Il progetto di legge contro l’aborto tanto caro ai vescovi cattolici brasiliani prevede per le minori che abortiscono dopo la ventiduesima settimana, anche in caso di violenza sessuale, a seconda della “gravità” dei casi: l’ammonimento, l’obbligo di riparare il danno, la prestazione di servizi, la semilibertà, la libertà vigilata, o persino l’internamento per tre anni, presso un “istituto educativo”. In quest’ultimo caso, il rilascio avviene obbligatoriamente non prima del compimento del ventunesimo anno di età. La cosa ulteriormente sconcertante è che, oltre al dolore di aver subito una violenza sessuale, le vittime saranno separate dai loro familiari, i quali dovranno affrontare un processo penale per averle accompagnate ad abortire.
In fretta e furia, il 12 giugno scorso, i parlamentari hanno stabilito il “regime d’urgenza” per votare la legge, forse per il timore avvertito da parte del mondo religioso cattolico ed evangelico, che prevalessero nell’opinione pubblica i fondamenti scientifici e giuridici, favorevoli alla depenalizzazione dell’aborto nelle prime dodici settimane di gestazione (e a prescindere dalle circostanze), esposti da Rosa Weberl, giudice della Corte Suprema. Nel settembre del 2023 Weber ha messo nero su bianco che prima della nascita, non esiste il diritto alla vita, aggiungendo che la difesa della “vita” sin dal concepimento viola l’articolo 5 della Carta Magna, in quanto attribuisce a embrione e feto la titolarità di diritti fondamentali, paragonandoli a quelli di un essere umano: la donna.

Caro Starmer, non è vero che si vince al centro

Volendo applicare alle elezioni britanniche il famoso adagio della luna e del dito, potremmo dire che fermarsi a contare solo il numero di seggi vinti dal Labour sarebbe guardare il dito, mentre ci sono una serie di trend “nascosti” nei risultati che hanno una portata molto grande, a parere di scrive, chiaramente. Da tutte le analisi dei flussi elettorali, infatti, si evince che il Paese ha votato compattamente per impedire ai Tories di tornare al governo dopo quattordici anni al potere che hanno portato ad una situazione economica e sociale disastrosa. Il mandato politico di Starmer, a partire dal misero 33% ottenuto nel voto popolare, associato alla bassa affluenza (meno 6% rispetto al 2019) appare però estremamente debole, in netto contrasto con la grande maggioranza parlamentare che gli permetterà di operare incontrastato per i prossimi cinque (o quattro) anni.
E proprio questo risultato elettorale ambivalente che ci permette di fare alcuni ragionamenti sull’assioma – a mio modesto parere fallace – per il quale Starmer ha dimostrato che si vince solo “andando al centro”.
Quello che è successo nelle urne ci dimostra al contrario come la necessità di una proposta elettorale più progressista era talmente forte che, nonostante il Labour si trovasse ad affrontare una delle battaglie elettorali più facili della sua storia, il risultato è stato ben lontano dai risultati straordinari del primo Blair, per fare un esempio senza scomodare giganti come Attlee o Wilson, questo proprio perché il Labour non è riuscito a conquistare un forte entusiasmo popolare attorno alla propria proposta politica.
Questa tesi viene anche dimostrata dal risultato straordinario dei LibDem, che hanno fatto una campagna elettorale molto progressista distanziandosi decisamente dalle loro posizioni più moderate del passato e – soprattutto – la grande affermazione dei Verdi, che per la prima volta portano quattro parlamentari alla House of Commons in un sistema elettorale studiato appositamente per espungere piccoli partiti come il loro.
C’è poi il risultato eccezionale di ben cinque candidati indipendenti, tra cui l’ex leader laburista Jeremy Corbyn, che hanno sfidato e sconfitto il Labour su posizioni di sinistra e in particolare mettendo al centro del loro messaggio la pace e un cambiamento di posizione nei confronti del conflitto israelo-palestinese.
In molti collegi “rossi” si è infatti aperta una “questione musulmana”, con l’enorme comunità britannica di cittadini originari delle ex colonie britanniche di religione musulmana che si stanno allontanando dal Labour mettendo in crisi le maggioranze di molti collegi laburisti.

Il revisionismo anni 90, che regalo per Meloni & C.

«Non c’è spazio, in Fratelli d’Italia, per posizioni neofasciste, razziste o antisemite, come non c’è spazio per i nostalgici del fascismo e dei totalitarismi del ’900, o per qualsiasi manifestazione di stupido folklore. I partiti di destra dai quali molti di noi provengono hanno fatto i conti con il passato e con il ventennio fascista già diversi decenni fa …» (Giorgia Meloni in una lettera inviata ai dirigenti di Fratelli d’Italia il 2 luglio, in seguito all’inchiesta di Fanpage “Gioventù meloniana”).
Le parole in corsivo, ovviamente, non compaiono nel testo della presidente del Consiglio, ma le ho volute inserire per restituire l’impatto che avrebbero creato nel lettore qualora lo fossero state. D’altro canto, chiedere a FdI di rinnegare il fascismo quale modello storico di regime antidemocratico e autoritario, suonerebbe come pretendere che un partito di ispirazione liberal-democratica ripudiasse gli ideali della rivoluzione francese. È la loro base ideologica, il loro orizzonte identitario; ci possiamo solo acconciare ad osservare le funamboliche contorsioni cui sono costretti, per evitare che i loro riferimenti storico-politici siano d’intralcio al mantenimento di posizioni di potere e di consenso. Perché è da quelle posizioni che possono non solo “riscrivere la storia”, quanto soprattutto restituircela “sub specie modernitatis”, rendendo attuale e reale una prospettiva di tipo illiberale e antidemocratico che, se non può definirsi fascista in senso proprio, è tuttavia da quel paradigma che trae ispirazione e nutrimento. Lo smantellamento della Costituzione del ’48 con la legge sull’autonomia differenziata e la proposta del premierato; la morsa sull’informazione con l’occupazione manu militari del servizio pubblico e la stretta sulle intercettazioni; i decreti sicurezza appena approvati e le politiche di contrasto all’immigrazione; l’attacco alla legge sull’aborto, con l’ingresso dei volontari “pro-vita” nei consultori pubblici: tutti questi provvedimenti disegnano un quadro i cui contorni sono ben definiti, e rinviano ad un regime ibrido, una sorta di «democratura», che pare essere il progetto politico cui guarda, in verità, tutta l’estrema destra in Occidente da una decina d’anni a questa parte, e sul quale i neofascisti registrano più di una convergenza con l’area neoliberal (come è stato messo in evidenza, il 3 luglio su Left, da Andrea Ventura). Però, mentre il disegno delle destre reazionarie e sovraniste negli Usa e in Europa viene costruito intorno ad una prospettiva che, pur richiamandosi al fascismo storico, è in realtà totalmente modellata sul presente (come risposta regressiva alla globalizzazione, facendo leva sulle sue contraddizioni in termini socio-economici), la destra al governo in Italia si distingue dai partner europei ed americani perché, diversamente da loro, si muove su uno sfondo in cui anche il passato conta: ha una storia da vendicare e rivendicare, e una lettura di essa che vorrebbe diventasse memoria pubblica, cultura egemone, storia condivisa. Per il momento la prospettiva di “riscrivere da capo” la storia repubblicana, riabilitando il Ventennio mussoliniano e soprattutto i suoi epigoni missini, non pare avere molte possibilità di realizzarsi, nonostante la moda revisionistica degli ultimi trent’anni.

Edoardo Albinati: «Il mondo chiuso chiamato carcere»

«Per avere un pensiero critico bisognerebbe prima conoscere, sapere, vedere per capire». A parlare è uno tra i più attivi intellettuali engagés italiani: Edoardo Albinati. Scrittore – premio Strega con La scuola cattolica (Rizzoli, 2016) -, sceneggiatore – Il racconto dei racconti insieme a Matteo Garrone o Rapito con Marco Bellocchio – e insegnante per circa trent’anni nel carcere romano di Rebibbia. La sua lunga esperienza tra i detenuti attraversa anche i suoi libri, come Maggio selvaggio (Rizzoli) per esempio, ma Albinati esce anche fuori da quelle mura, alla ricerca della verità indagando il nostro tempo come atto di responsabilità e impegno civile. Come il carcere, così esplora infatti anche la situazione altrettanto complessa delle persone migranti con la loro uguale condizione di esclusi, la cui libertà è soppressa, i diritti violati. E lo fa da reporter, percorrendo parte della rotta balcanica che porta le persone in Europa oppure andando in Niger, crocevia non solo di profughi, ma anche di armi, di capitali occidentali e cinesi, di militari, fino all’uranio.

Lo scrittore Edoardo Albinati

Edoardo Albinati, scrittori, artisti e associazioni si sono occupati di promuovere l’arte all’interno delle carceri attraverso progetti, laboratori, incontri. In base alla sua esperienza, l’arte quale contributo può dare ai detenuti?
Bisogna partire dal fatto un po’ desolante che in carcere attività di qualsiasi genere che permettano di rendere un po’ più permeabile la detenzione sono molto poche. Il vero problema della realtà carceraria è che è un mondo chiuso, extraterritoriale, dove invece dovrebbero essere favoriti gli scambi dal dentro al fuori. Non esiste nulla di istituzionale che sia rieducazione o risocializzazione e queste sono comunque sempre affidate a singole persone o associazioni. Nel carcere di Rebibbia, che è quello che ho conosciuto meglio avendoci insegnato molto a lungo, il teatro, per esempio, era molto importante ed era affidato al regista Fabio Cavalli di cui ricordo una favolosa rappresentazione de La tempesta di Shakespeare. Uno spettacolo con delle intuizioni notevoli degli attori, alcuni dei quali sono diventati veri professionisti una volta usciti dal carcere. Nella mia modesta posizione di insegnante carcerario, ho pensato più alla grammatica, alla lingua, alla letteratura. Ecco, non posso dire che quello che facevo lì fosse un insegnamento creativo. Era scuola, una delle poche cose che serve quantomeno a riscattare il tempo trascorso lì dentro che altrimenti è tempo morto, perduto.

Ora l’amnistia, segno di civiltà

Nelle carceri del nostro Paese esiste la pena di morte: quella inflitta dallo Stato a chi è privato della libertà. Quella inflitta a ragazzi spesso malati, che convivono con gravi dipendenze e disagi psichiatrici, in condizioni sanitarie precarie. Sono soprattutto loro, i giovani, a mettere fine alla loro esistenza all’interno di strutture dove la dignità e il diritto non esistono. Dove regna il sovraffollamento, l’abbandono, dove i diritti della persona vengono calpestati. Nonostante la strage di detenuti continui, nonostante i dati inquietanti sul sovraffollamento, le difficoltà del personale penitenziario, si va avanti nella totale indifferenza delle istituzioni.
Aspettavamo tutti con urgenza il decreto del ministro Nordio approvato in questi giorni. Avrebbe dovuto dare soluzioni, mandare un segno di civiltà e dimostrare responsabilità. Invece è una delusione, una manovra inefficace che non affronta le radici del problema delle carceri italiane. Mi domando se, chi l’ha scritto e sostenuto, abbia mai messo piede in un istituto detentivo. È un’offesa per garanti, operatori del sistema penitenziario e associazioni per i diritti umani, oltre che per i detenuti, ovviamente, ai quali uno Stato inefficiente, ingiusto, inconsapevole, si permette di chiedere loro buona condotta non rispettando esso stesso i principi fondamentali del diritto.
Le cifre parlano di 61.480 detenuti per 51.234 posti regolamentari, che in realtà sono 47mila. Questo sovraffollamento «criminogeno» come sottolineato dal presidente dell’Associazione nazionale magistrati (Anm), Giuseppe Santalucia, riprendendo un concetto usato da sempre da Marco Pannella, non viene minimamente risolto.
Il decreto Nordio anziché portare aria di cambiamento complica le cose, per i detenuti che vedranno ritardate le scarcerazioni, per i magistrati di sorveglianza – appena 230 in tutta Italia – a cui è stato imposto un metodo di lavoro che risulterà in sostanza impraticabile. L’onere di esaminare le richieste di libertà anticipata rimane come prima, infatti, per questi magistrati, i cui carichi di lavoro già esorbitanti rischiano di aumentare ulteriormente. È la burocrazia in sostanza a farla da padrona, rimanendo una volta in più un ostacolo insormontabile; non ci sarà nessuna semplificazione. In questo contesto, non si è peraltro pensato minimamente ad aumentare l’organico della magistratura di sorveglianza, così come quella degli psichiatri, degli psicologi e degli educatori che servirebbero a fiumi.
Sorrido amaramente quando sento parlare della tanta proclamata “umanizzazione” del sistema penitenziario sventolata dal ministro Nordio. Basterebbe facesse funzionare le cose con razionalità e buon senso. Ma, accettando il buon proposito, mi domando di quale umanizzazione parli, non riuscendo peraltro a determinare un cambiamento in meglio delle esistenze dei detenuti, mentre ciò che serve al “pianeta carcere” non è solo e tanto un’umanizzazione – fin troppo umani , se vogliamo, nella loro organizzazione tanto fallimentare i nostri istituti – quanto il rispetto dei diritti e del diritto, a iniziare da quello costituzionale.

Il futuro delle città a misura di anziani

Che siano percorse da fenomeni di gentrificazione (quel processo di trasformazione, fisica e socioculturale dei quartieri che porta a un graduale cambio della cittadinanza che può permettersi di viverci) o da fenomeni di degrado (inquinamento, perdita dei servizi essenziali, sovraffollamento, effetti dei mutamenti climatici) le nostre città diventano sempre più inospitali, soprattutto per i soggetti più fragili. Parliamo degli anziani e delle anziane che a dispetto dei dati demografici (l’indice di vecchiaia continua a crescere con un aumento di 5,5 punti percentuali, raggiungendo, al primo gennaio 2023, quota 193,1 anziani ogni cento giovani, confermando la crescita costante dell’indice, in atto oramai da un ventennio – dati Istat) continuano a perdere “diritti di cittadinanza” ovvero la possibilità di vivere e sopravvivere nei nostri centri urbani. Potremmo dimostrare le difficoltà che vivono le persone anziane in città partendo dalla mancanza sempre più drammatica di servizi di prossimità come un semplice negozio di alimentari o in maniera ancora più cruda raccontare l’assenza di presidi sanitari di quartiere che possano assisterli. Ma la nostra vera sfida è dimostrare che una città che nega i diritti alle persone anziane è una città più inospitale per tutti e tutte. Una città che non si cura degli anziani è una città che destina i propri abitanti all’infelicità. La città che si prende cura della popolazione più anziana invece è una città che organizza gli spazi pubblici, gli usi dei luoghi e la mobilità collettiva nel segno della prossimità e delle relazioni. Per tutte e tutti, anche considerando che spesso mano nella mano, a fianco degli anziani, camminano i bambini e le bambine che possono contare solo sul welfare dei nonni che se ne prendono cura, certo per affetto, ma anche per sopperire a quell’assenza di spazi e servizi di cui l’infanzia di questo Paese avrebbe urgente bisogno. Insomma, per dirla “da ambientalista” gli anziani sono dei bioindicatori di qualità della vita e soprattutto sperimentano in maniera diretta e drammatica alcuni degli aspetti più duri delle crisi della modernità. Penso alla crisi climatica con il suo portato di effetti devastanti in termini di danni e vittime. Sono due le “parole climatiche” più ripetute negli ultimi anni: alluvioni e temperature record. Il fenomeno delle ondate di calore è comune a tutte le città, con una tendenza di crescita che appare già in atto e con incrementi significativi ma diversificati nelle diverse realtà: 50 giorni in più di caldo intenso l’anno negli ultimi decenni del secolo per Napoli rispetto a inizio secolo. Ma è un fenomeno che interessa in maniera significativa anche Milano (+ 30 giorni), Torino (+ 29) e Roma (+28) (fonte Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici, Cmcc). I problemi legati agli allagamenti da piogge intense sono esacerbati dall’ambiente urbano a causa della densità dell’ambiente costruito, dell’impermeabilizzazione del suolo e di specifiche caratteristiche delle singole città. A farne le spese la popolazione più anziana soprattutto per quanto riguarda le ondate di calore.

Tania Scacchetti: Giovani e anziani insieme nelle lotte dello Spi Cgil

Mentre in Francia sono state innalzate barricate contro la riforma Macron che allunga l’età pensionabile a 62 anni, in Italia, dove si tocca la quota 67, quasi di questo tema non si parla più. Nonostante i proclami di abolizione della legge Fornero, il governo Meloni rischia di fare ancora peggio. Il tavolo con i sindacati è sospeso da tempo e lo Spi Cgil annuncia iniziative di mobilitazione per l’autunno. Ne abbiamo parlato con Tania Scacchetti, segretaria generale dello Spi Cgil.
«Chiariamo subito una cosa, – avverte la sindacalista – da quando si è insediato il governo Meloni i tavoli sono stati finti. Il governo si è sempre mosso nella logica dei piccoli aggiustamenti. È evidente lo iato fra la propaganda elettorale e quello che è stato fatto. Da parte del governo non c’è un pensiero o una volontà di attivare una riforma».
E intanto il sistema pensionistico è sempre in difficoltà?
Viene destrutturato il sistema pensionistico pubblico. Le persone non hanno più una certezza previdenziale, che è la prima garanzia del patto fra i cittadini e Stato. Direi di più. Le pensioni vengono usate per far cassa. E questo avviene mentre si sta transitando verso un sistema pienamente contributivo, con un Pil calante, senza affrontare il tema del cambiamento del mercato del lavoro e le conseguenze che questo ha sul sistema pensionistico.
Per questo in autunno i pensionati scenderanno in piazza?
Nel quadro più generale io penso che una nostra specifica mobilitazione sia necessaria perché non può passare la logica che le pensioni siano un privilegio. Pensioni che arrivano a 1700, 1800 o duemila euro lordi dopo aver lavorato 42 anni, spesso anche in condizioni faticose, con ogni evidenza non sono pensioni ricche. È una battaglia culturale e politica. Se il Paese ha problemi di tenuta, se ci sono priorità da affrontare, come sempre è accaduto nella storia d’Italia i pensionati fanno la loro parte, ma esigiamo che il governo contrasti l’evasione e i veri privilegi. Se invece attacca le pensioni e il sistema di sanità pubblica, ovvero i sistemi a garanzia dei diritti di tutti e universali, la nostra mobilitazione è necessaria e inevitabile.

Tania Scacchetti, segretaria generale Spi-Cgil

Accennavamo alla Francia, rispetto alla riforma delle pensioni imposta da Macron c’è stata una risposta di contestazione molto forte, perché in Italia non c’è ancora questa reazione massiccia?
Questo è un grande interrogativo che riguarda l’efficacia e la partecipazione alle mobilitazioni. Più che in altri Paesi a volte si percepisce da una parte della popolazione una nota di rassegnazione del tipo: “qualunque cosa si faccia non cambia niente”. Questo è il punto più complicato per noi, perché se la gente si rassegna non c’è costruzione possibile di un’alternativa. Un’altra questione su cui riflettere riguarda il ruolo (e la riconoscibilità del ruolo) delle istituzioni e dello Stato che è minore da noi rispetto che in altre parti dell’Europa e in particolare in Francia. Sulle mobilitazioni anche questo influisce. Tuttavia in una società che negli anni si è piegata all’individualismo e alla logica della divisione e contrapposizione di interessi vediamo anche segnali importanti di voglia di esserci e di partecipare.

Filippo Tantillo: Territori in cerca di innovazione

Filippo Tantillo, ricercatore, attivista e film-maker

Filippo Tantillo ha partecipato alla Strategia nazionale delle aree interne (Snai) promossa nel 2013 dall’Agenzia della coesione territoriale e dal ministro Barca, fa parte dell’associazione Riabitare l’Italia e del Forum disuguaglianze. Ha scritto L’Italia vuota. Viaggio nelle aree interne (Laterza).
Tantillo, la Strategia aree interne è stata una rottura rispetto al passato?
Sì, per più ragioni. Intanto, per pensare una politica a partire dalla conoscenza dei luoghi. È stata anche una grande operazione di ricerca su un pezzo di Paese sconosciuto o raccontato attraverso stereotipi, che si è rivelato essere tutt’altro che marginale per immaginare un futuro dell’intero Paese, incluse le città. Inoltre si ribaltava l’idea che aveva sostenuto tutta la lunga stagione dello “sviluppo locale”, che lo spopolamento cioè fosse originato da un deficit di sviluppo. Le aree interne (cioè quelle che più perdono popolazione) non coincidono, se non parzialmente, con le aree di svantaggio. Le grandi povertà, come anche le grandi ricchezze in Italia si concentrano nelle aree urbane. Le aree interne sono anche aree ricche di risparmi privati, ma povere di beni pubblici. Quindi legare lo spopolamento alla carenza di servizi di base ci ha permesso un ripensamento del welfare. Un’altra innovazione è stata rimettere al centro le persone, chiamate a costruire e coprogrammare con le amministrazioni pubbliche, a partire dalla loro conoscenza del territorio, un disegno strategico, un programma per rispondere alla domanda: cosa ce ne facciamo di 5mila paesi di pietra all’apparenza senza futuro?
Con quale idea di base?
Quella per cui non si può costruire un futuro per l’Italia ignorando il 60% del territorio, quasi 15 milioni di persone che lavorano e producono, innovano in contesti trasformati dalla crisi climatica e che sperimentano soluzioni utili anche per le città.
Nel libro L’Italia vuota accenna a 72 progetti finanziati dalla Snai. Che ne è stato?
Non esiste un quadro generale, perché la Snai ha generato molte resistenze e il disegno nazionale è stato in qualche maniera cancellato. Ad oggi non c’è un centro di competenza (com’era il Comitato interministeriale aree interne) dove si valutano e si raccolgono gli esiti delle politiche messe in campo. È però innegabile che alcuni progetti, come quello dell’infermiere di comunità abbiano sostanzialmente cambiato la vita in molte zone.

Aree interne. Una questione politica

Gagliano Aterno è un paese di 200 abitanti della valle Subequana, nel cuore dell’Abruzzo. Un secolo fa ci vivevano 2mila persone, negli anni 50 più di mille, poi, via via sempre meno, come attestano implacabili i censimenti Istat. Per arrivarci, da Roma, una volta lasciata l’autostrada per Chieti-Pescara, si percorre una deserta strada (laTiburtina), tra alte colline brulle, montagne sullo sfondo, le pale eoliche in perenne movimento e qualche raro gregge nei profondi avvallamenti più verdi. Siamo andati a Gagliano Aterno perché rappresenta un esempio significativo di come si possono ripensare le cosiddette aree interne. Non secondo la retorica del “piccolo è bello”, ma attraverso una sinergia innovativa tra mondo della ricerca, privati e amministrazione pubblica. Il paese si potrebbe perciò definire un laboratorio ma questa parola forse è troppo asettica per esprimere il senso di un lavoro costante ma anche complesso di un gruppo di persone, giovani perlopiù, che condividendo idee, progetti e tempo di vita, cercano di far rivivere Gagliano. «C’è una sorta di movimento culturale e politico che da diversi anni cerca di cucire delle reti, delle visioni e degli indirizzi», dice Raffaele Spadano, antropologo, tra gli artefici del progetto Neo (Nuove esperienze ospitali) che coinvolge Gagliano e altri 8 comuni della valle Subequana. Come il paese abruzzese, ce ne sono tanti in Italia che lottano contro lo spopolamento e l’abbandono, piccoli centri in aree marginali, dalle Alpi agli Appennini (e anche delle isole minori) che non fanno molto rumore ma che rappresentano una fetta consistente del territorio – oltre il 60% – e dove vivono 13 milioni di abitanti. Parlare di queste aree interne e della politica necessaria per garantire agli abitanti quei diritti sanciti dalla Costituzione come la salute, l’istruzione, i trasporti, significa non solo ribaltare la logica mainstream dello sviluppo economico estrattivista del tutto e subito che produce spesso la perdita di quei diritti ma soprattutto significa dare voce a intere collettività che con l’autonomia differenziata saranno ancora più escluse ed emarginate. Chi vive e studia i territori è consapevole del rischio. «L’autonomia differenziata segue il modello efficientista e sviluppista figlio di un approccio neoliberista all’economia, al territorio e alle politiche che va semplicemente ad avvantaggiare i centri dove già si concentrano i diritti e le economie dei territori, escludendo gran parte del Paese», dice Nicholas Tomeo, dottorando in Ecologia e territorio presso l’Università del Molise e curatore di un libro appena uscito per Radici edizioni che fa il punto in modo rigoroso e scientifico su queste realtà: il Vocabolario delle aree interne. Le parole in effetti dicono molto, anche a posteriori. Prendiamo quelle che caratterizzavano la Strategia nazionale delle aree interne (Snai), primo tentativo organico per cambiare il destino segnato di molti luoghi d’Italia, introdotta nel 2013 da quella che si chiamava Agenzia della coesione territoriale, con il ministro Barca. Coesione territoriale, appunto. Una bella differenza con i termini che via via sono stati usati per definire la legge Calderoli: «Spacca Italia», «secessione dei ricchi», «macroregione del Nord» ecc.

Una immagine del paese, con sullo sfondo l’antica facciata della chiesa di S.Martino (ph. D.Coccoli)

A Gagliano Aterno
Il centro storico è un dedalo di viuzze costellate da edifici, alcuni in rovina, altri in pieno rifacimento e molti abbandonati da tempo. La storia affiora potente: da una chiesa con elementi gotici al castello, fino alla fonte medievale. E in ogni casa si nota il tocco di anonimi costruttori che non rinunciavano alla ricerca di bellezza. Da un lato incombe il monte Sirente, mentre dall’altro si dispiega la valle Subequana dove svettano i paesi vicini. A Gagliano non ci sono negozi: né generi alimentari, né tabaccaio. C’è un bar, però, che è il centro vitale del paese. E un chiosco estivo, altro luogo di socializzazione. Nello spazio a fianco di un fresco viale alberato, pulsa la vita del paese e dei neoabitanti. Qui c’è anche l’ex asilo che ospita l’ambulatorio medico, la sede dell’associazione escursionistica Orsa maggiore e da un paio d’anni, gli studi di una radio web, Radio antiche rue.