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Aree interne. Una questione politica

Gagliano Aterno è un paese di 200 abitanti della valle Subequana, nel cuore dell’Abruzzo. Un secolo fa ci vivevano 2mila persone, negli anni 50 più di mille, poi, via via sempre meno, come attestano implacabili i censimenti Istat. Per arrivarci, da Roma, una volta lasciata l’autostrada per Chieti-Pescara, si percorre una deserta strada (laTiburtina), tra alte colline brulle, montagne sullo sfondo, le pale eoliche in perenne movimento e qualche raro gregge nei profondi avvallamenti più verdi. Siamo andati a Gagliano Aterno perché rappresenta un esempio significativo di come si possono ripensare le cosiddette aree interne. Non secondo la retorica del “piccolo è bello”, ma attraverso una sinergia innovativa tra mondo della ricerca, privati e amministrazione pubblica. Il paese si potrebbe perciò definire un laboratorio ma questa parola forse è troppo asettica per esprimere il senso di un lavoro costante ma anche complesso di un gruppo di persone, giovani perlopiù, che condividendo idee, progetti e tempo di vita, cercano di far rivivere Gagliano. «C’è una sorta di movimento culturale e politico che da diversi anni cerca di cucire delle reti, delle visioni e degli indirizzi», dice Raffaele Spadano, antropologo, tra gli artefici del progetto Neo (Nuove esperienze ospitali) che coinvolge Gagliano e altri 8 comuni della valle Subequana. Come il paese abruzzese, ce ne sono tanti in Italia che lottano contro lo spopolamento e l’abbandono, piccoli centri in aree marginali, dalle Alpi agli Appennini (e anche delle isole minori) che non fanno molto rumore ma che rappresentano una fetta consistente del territorio – oltre il 60% – e dove vivono 13 milioni di abitanti. Parlare di queste aree interne e della politica necessaria per garantire agli abitanti quei diritti sanciti dalla Costituzione come la salute, l’istruzione, i trasporti, significa non solo ribaltare la logica mainstream dello sviluppo economico estrattivista del tutto e subito che produce spesso la perdita di quei diritti ma soprattutto significa dare voce a intere collettività che con l’autonomia differenziata saranno ancora più escluse ed emarginate. Chi vive e studia i territori è consapevole del rischio. «L’autonomia differenziata segue il modello efficientista e sviluppista figlio di un approccio neoliberista all’economia, al territorio e alle politiche che va semplicemente ad avvantaggiare i centri dove già si concentrano i diritti e le economie dei territori, escludendo gran parte del Paese», dice Nicholas Tomeo, dottorando in Ecologia e territorio presso l’Università del Molise e curatore di un libro appena uscito per Radici edizioni che fa il punto in modo rigoroso e scientifico su queste realtà: il Vocabolario delle aree interne. Le parole in effetti dicono molto, anche a posteriori. Prendiamo quelle che caratterizzavano la Strategia nazionale delle aree interne (Snai), primo tentativo organico per cambiare il destino segnato di molti luoghi d’Italia, introdotta nel 2013 da quella che si chiamava Agenzia della coesione territoriale, con il ministro Barca. Coesione territoriale, appunto. Una bella differenza con i termini che via via sono stati usati per definire la legge Calderoli: «Spacca Italia», «secessione dei ricchi», «macroregione del Nord» ecc.

Una immagine del paese, con sullo sfondo l’antica facciata della chiesa di S.Martino (ph. D.Coccoli)

A Gagliano Aterno
Il centro storico è un dedalo di viuzze costellate da edifici, alcuni in rovina, altri in pieno rifacimento e molti abbandonati da tempo. La storia affiora potente: da una chiesa con elementi gotici al castello, fino alla fonte medievale. E in ogni casa si nota il tocco di anonimi costruttori che non rinunciavano alla ricerca di bellezza. Da un lato incombe il monte Sirente, mentre dall’altro si dispiega la valle Subequana dove svettano i paesi vicini. A Gagliano non ci sono negozi: né generi alimentari, né tabaccaio. C’è un bar, però, che è il centro vitale del paese. E un chiosco estivo, altro luogo di socializzazione. Nello spazio a fianco di un fresco viale alberato, pulsa la vita del paese e dei neoabitanti. Qui c’è anche l’ex asilo che ospita l’ambulatorio medico, la sede dell’associazione escursionistica Orsa maggiore e da un paio d’anni, gli studi di una radio web, Radio antiche rue.

Vito Teti: La sfida collettiva è la rinascita del Sud

C’è chi l’ha chiamato «Mezzogiorno di vuoto», un efficace gioco di parole per raccontare il grave problema dello spopolamento di alcune aree del nostro Paese. Circa 2 milioni e mezzo di persone hanno lasciato il Sud negli ultimi vent’anni. Prevalentemente si tratta di giovani con un’istruzione medio-alta. Una tendenza destinata ad aggravarsi, come sostiene chi prevede che nei prossimi cinquant’anni la popolazione meridionale si dimezzerà o quasi, passando dagli attuali 20 milioni a 12, con la componente degli anziani che diventerà sempre più rilevante. Un fenomeno che contribuisce ad accentuare arretratezza e malessere sociale. E come se non bastassero già le difficoltà di tanti territori meridionali, che da decenni si trascinano dietro problemi irrisolti, ad aggravare la situazione arriva anche la riforma Calderoli, che dà attuazione al Titolo V della Costituzione e introduce la cosiddetta autonomia differenziata. Le Regioni che ne faranno richiesta (al governo centrale) potranno deliberare – in modo autonomo, appunto – su altre 23 materie molto delicate, dalla sanità ai trasporti, dall’istruzione all’ambiente. Il rischio, secondo giuristi e politologi, è che la differenza tra Nord e Sud possa ulteriormente aggravarsi (soprattutto su salute e istruzione), nonostante le rassicurazioni sui Lep, i livelli essenziali di prestazione da rispettare. Si rischia così di passare dall’Italia a due velocità all’Italia che – per metà – potrebbe rimanere quasi ferma. Per questo, ripopolare le aree interne del Sud diventa una sfida politica, a patto che si riesca a garantire i servizi necessari per “trattenere” le persone, per consentire di vivere senza affanni, senza vederle costrette a partire. Aiutandole a restare, insomma. La “restanza” è proprio il concetto centrale della produzione intellettuale dell’antropologo calabrese Vito Teti, 74 anni, che ha dedicato gli studi di tutta una vita ai temi dello spaesamento, dell’abbandono, alle macerie lasciate da un economicismo senza freni. Ma “restanza” non è sinonimo di “fermo”. Anzi. Per Teti, “restare” indica qualcosa di passivo. “Restanza”, invece, esprime un movimento attivo, una scelta, la possibilità di qualcosa di nuovo. Abbiamo incontrato lo studioso lì dove è tornato a vivere, a San Nicola da Crissa, in provincia di Vibo Valentia, un paese di mille anime che dal capoluogo più vicino si raggiunge dopo mezz’ora di strade tortuose che si districano tra lecci e castagni. Se “partire è un po’ morire”, rievocando i versi del poeta Edmond Haraucourt, restare vuol dire sopravvivere? L’antropologo fissa subito dei paletti. «Restanza non è in contrapposizione a mobilità o a viaggiare: più si viaggia, più si va incontro a nuove persone e luoghi, più si incontra l’altro, più si può creare un restare attivo, dinamico, propositivo, che possa cambiare il mondo» sottolinea Teti. Restare richiede responsabilità, «impegno, costanza, passione. Io la chiamo “politicizzazione della restanza”, l’affermare il diritto a restare come si afferma il diritto a partire. Partire o restare non devono essere delle necessità ma delle scelte», aggiunge ancora. Ma si può decidere di restare se nel proprio contesto si studia in edifici scolastici vecchi e fatiscenti, ci si cura in ospedali meno attrezzati, ci si sposta su mezzi pubblici poco efficienti? O ancora peggio, se questi servizi non vengono affatto garantiti nelle aree più periferiche che costituiscono l’osso di una regione?

Una immagine dell’antropologo e saggista Vito Teti

Sui rischi generati dall’autonomia differenziata anche Teti ritiene che non faccia «che condannare definitivamente luoghi, paesi e città. Che in realtà avrebbero bisogno di risorse economiche, non solo di sostegno, molto più grandi di quelli che avevano prima. Ora, con la scusa dell’autonomia differenziata, vengono ulteriormente penalizzati. È come dire: prima creiamo la disuguaglianza, le zone marginali, periferiche, povere. Poi, siccome vediamo che queste zone non ce la fanno, invece di sostenerle ci distacchiamo per liberarci della zavorra. Questo è un atteggiamento egoistico, che bada semplicemente al proprio immediato interesse. E non comprende, per altro, che desertificando il Sud, le zone interne, la campagna, senza persone nuove che arrivano, alla lunga ad essere danneggiate saranno le stesse zone che adesso chiedono l’autonomia differenziata. Anche per i grandi centri ci saranno ricadute negative perché dovranno privarsi di uno scambio proficuo con le aree marginali e alla lunga dovranno fare a meno di prodotti della terra, di luoghi dove andare a trascorrere le vacanze. Subiranno la perdita della bellezza, del paesaggio» è la previsione di Teti.

Con la legge Calderoli cittadini di serie B

Per aree interne si intendono i Comuni italiani più periferici in termini di accesso ai servizi essenziali. Il grado cioè di accessibilità per i cittadini di uno specifico comune alle infrastrutture e ai servizi pubblici essenziali, come la vicinanza alle strutture della sanità pubblica, la possibilità di accedere facilmente all’istruzione secondaria e la prossimità alle infrastrutture dedicate alla mobilità. Da questi parametri discende una classificazione di tutti i comuni italiani. Complessivamente nelle aree di progetto coinvolgono 1.904 Comuni, in cui vivono 4.570.731 abitanti La maggior parte delle aree interne si concentra nei territori alpini e appenninici, presentano un significativo spopolamento e una mancanza di servizi base per i cittadini (sanità, istruzione, mobilità), ma al contempo possiedono una disponibilità elevata d’importanti risorse ambientali (risorse idriche, sistemi agricoli, foreste, paesaggi naturali e umani) e culturali (beni archeologici, insediamenti storici, abbazie, piccoli musei, centri di mestiere).
A parte le peculiarità storiche, culturali e naturali di ciascun territorio, una quota rilevante delle aree interne ha subito gradualmente, dal secondo dopoguerra a oggi, un processo di marginalizzazione e fragilizzazione, dovuto principalmente alla migrazione verso i centri economici del Paese. Tale processo ha infatti causato la progressiva perdita del capitale umano e di conoscenze compromettendo spesso il sistema di relazioni territoriali e le possibilità di sviluppo economico, culturale e sociale.
Per invertire o almeno mitigare i processi di marginalizzazione e spopolamento che caratterizzano la maggior parte delle aree interne, la strategia prevista dal comitato tecnico per le aree interne ha individuato 72 aree pilota (27 al Nord, 13 al Centro e 32 nel Mezzogiorno) tenendo in considerazione le peculiarità dei territori e sulla base di parametri e indicatori, quali la situazione demografica, le condizioni sociali ed economiche, l’accessibilità ai servizi. Le 72 aree selezionate includono 1.060 comuni (il 13,4% del totale), circa 2 milioni di abitanti (3,3%) e il 17% del territorio nazionale.
Per accedere ai fondi le aree pilota hanno dovuto presentare in forma associata un programma di interventi e gestione delle risorse che ricorda quelli previsti dal Pnrr. E qui già possiamo intravedere una coazione a ripetere che non può che danneggiare quei territori che più di altri hanno subito tagli al personale amministrativo causata negli anni scorsi da austerity e spending review, considerando che gli interventi prevedono la convergenza delle azioni di tutti i livelli di governo: Stato centrale, Regioni e Comuni.
Infatti in Italia, dal 2001 al 2021, i dipendenti pubblici grazie alla spending review sono diminuiti da 450mila a 320mila, un calo avvenuto, malgrado la propaganda leghista, in larghissima parte nel Mezzogiorno dove i Comuni non hanno più personale per servizi essenziali e mancano i tecnici così come accade anche appunto per il Pnrr della cui quota 40% destinata al Sud, non a caso, nessuno più ne parla. Evidentemente evaporata. Come si evince dalla relazione Bankitalia del mese scorso in Italia abbiamo infatti il rapporto dipendenti pubblici/popolazione più basso d’Europa. Questi inoltre sono più anziani e meno istruiti rispetto alla media europea. Mancano centinaia di migliaia di lavoratori pubblici rispetto a Paesi come Francia e Svezia, eppure il governo Meloni li vuole ridurre ancora, “usando il machete”. Non a caso è notizia recente che i rinnovi dei Ccnl pubblici non recupereranno l’inflazione. Adeguare i salari all’inflazione costerebbe 30 miliardi, il governo ne ha stanziati solo 8. Vuol dire che il rinnovo 2022-2024 comporterà una riduzione reale dei salari per almeno 22 miliardi, in un Paese che già vede i salari non aumentare da un trentennio. Una strategia miope, ma utile a disarticolare lo Stato, cosi come si vuole fare con l’autonomia differenziata che ha appena avuto il via libera, e far crollare del tutto la fiducia dei cittadini, prodromica a privatizzazioni in ogni ambito.

Ode all’intelligenza naturale, sulle note dei Sud Sound System

Pionieri del raggamuffin e del dancehall style, sono sulla scena artistica musicale fin dagli anni Ottanta con le loro sonorità unite a testi impegnati in puro dialetto salentino. Acclamati non solo nella loro terra, ma anche fuori dalla Puglia, sono l’emblema del Salento: i Sud Sound System. Espressione della terra cui appartengono, che difendono e amano, nel 2003 usciva un loro brano che li rappresenta in tutta la loro umanità e che a distanza di venti anni rimane uno dei loro maggiori successi: Le radici ca tieni. Un vero e proprio inno alle loro origini, ma anche all’orgoglio di un’appartenenza, che li vede attenti alla natura e alla società, temi cari che difendono da sempre. Loro sono Terron Fabio, all’anagrafe Fabio Miglietta, voce; Nandu Popu, Fernando Blasi, voce e armonica a bocca; Don Rico, Federico Vaglio, voce, ma soprattutto fondatore della band. Di sole, di mare e di vento ce ne sono stati, in tutti questi anni di carriera e di tantissima produzione musicale, così, in occasione, lo scorso primo luglio, dell’uscita del loro ultimo album, Intelligenza naturale, raggiungiamo, su una spiaggia della Sardegna, Terron Fabio alle prese con il surf.

So che siete in tour, dove vi trovate?

Siamo in zona Seneghe vicino Oristano, ma adesso siamo a Mini Capu per fare il surf da onda. Sì, siamo in giro da un po’ e continueremo tutta l’estate. Tutte le date si possono vedere sui social.

Pensavo foste alle prese con il soundcheck.

Direi, il surf check adesso (ride). Abbiamo queste passioni che riusciamo a mettere insieme. Siamo abituati al mare tutto l’anno, anche d’inverno. Facciamo surf e poi torniamo a casa e scriviamo canzoni. Noi viviamo di questo, siamo e ci nutriamo dell’attaccamento alla natura e a tutto ciò che ci circonda.

Infatti, da sempre siete impegnati sui temi dell’ambiente, della salute, un argomento che a livello sociale è impellente, pensiamo anche al movimento dei più giovani, i Fridays for future, che è nato intorno a Greta Thunberg.

Però, quando il movimento diventa politico, la gente forse non ci crede più. Io conosco il mio movimento del Salento che ha lottato tanto per il Gasdotto Tap (Trans Adriatic Pipeline, che dalla frontiera turco-greca arriva nei pressi di Lecce bdr), e anche lì si sono visti solo i manganelli. Il climate change ci preoccupa molto, ma non si può dare la colpa alla gente. Andrebbe data ai padroni che inquinano. Bisognerebbe bonificare le aree che sono state per anni martoriate da industrie che ci fanno ammalare. Se parliamo con la gente di Gela e di Siracusa dicono la stessa cosa: aprire un rubinetto e vedere uscire la benzina è assurdo. Ci sono problematiche più grandi che vengono represse dai media. Questo è il vero problema.

Sostenitori della natura tanto da aver dato il nome al vostro ultimo album: Intelligenza naturale.

È un nome che ci è venuto d’istinto. Abbiamo prodotto tantissimo in questi ultimi quattro anni durante il Covid, ma anche dopo, con la gente chiusa in casa, assoggettata a tante piattaforme. Adesso ne facciamo uso tutti: la digitalizzazione umana è già in atto. Per adesso è un controllo sulla massa, sulla società, questa è l’identità digitale che noi vogliamo smentire facendo musica in mezzo alla gente, con gli amici. Ci piace partecipare alle feste, fare concerti.

A proposito di gente, questo album vanta tantissimi featuring. Qual è il criterio della scelta per le vostre collaborazioni?

In tutti i nostri album abbiamo sempre collaborazioni. Lo facciamo attraverso amicizia, affetto e stima. Abbiamo “italianizzato” la nostra produzione, anche se Alborosie (cantautore beatmaker italiano naturalizzato giamaicano ndr) è un artista che è nato e cresciuto in Giamaica, è in linea con il nostro mondo; un italiano che va in Giamaica e si fa rispettare è una grande cosa! Con Guè, che canta in TQP, così come con i Club Dogo, siamo amici da tanto tempo e artisticamente abbiamo nutrito le stesse passioni: l’hip hop e il reggae fanno parte di noi e vederlo sul nostro disco è un valore aggiunto. Come la partecipazione di Ensi su Dance hall Arena, è davvero importante perché lui è il liricista numero uno in Italia, è un funambolico del rap, uno dei talenti più grandi che abbiamo. Tornando in Salento, abbiamo i grandi Negramaro: siamo riusciti a realizzare questa collaborazione; era il tempo giusto per tirare fuori una combination con loro. Per El sonido dell’alma, il singolo uscito per primo, abbiamo Puccia degli Après La Classe, anche lui grande artista, uno di quelli che portano avanti la cultura salentina del canto. Di quel canto gitano un po’ mischiato con le culture che arrivano dall’oriente. Poi arriviamo ad Antonio Castrignanò, altro rappresentante della nostra cultura, con lui cavalchiamo gli stessi palchi, portando la nostra cultura in diverse stesure musicali, e quando ci uniamo è fuoco come in questo caso.

Però, appunto, bisogna per forza fare i conti con quella artificiale di intelligenza, della quale adesso è impossibile non parlare.

Alcuni utilizzi vanno bene per il campo della medicina, per la scienza, per risolvere i problemi seri che riguardano le popolazioni, specie in quei posti in cui la povertà, la mancanza di cibo e di acqua fanno tantissime vittime. L’IA dovrebbe servire a cercare nuove strategie e non a rendere tutti automi e a farci stare sui cellulari, cioè senza creare niente di positivo. Nel campo nostro, la usiamo per comporre musica, perché ormai tutto è digitalizzato. Partiamo in digitale, ma poi affidiamo tutto ai nostri musicisti per farlo diventare naturale. Le cose devono andare di pari passo, senza che una influenzi l’altra o che l’IA faccia scomparire l’altra.

E come si può fare?

Noi cerchiamo di unire natura e musica, di fare musica che fa stare bene la gente come la natura ha questa influenza su di noi. Saremo sempre in prima linea nelle varie lotte che ci riguardano per il nostro territorio, cominciando da Taranto. A noi interessa qualsiasi problema che riguardi la gente, la società. Vogliamo dare un supporto morale e positivo a tutti coloro che non hanno voce e che, attraverso le nostre canzoni, possono averla.

Parlamentari che frugano nelle mutande

L’ultima giornata di luglio si è consumata osservando il vice presidente del Consiglio nonché ministro nonché leader (traballante) della Lega che ha rilanciato una notizia falsa su una pugile transgender che non lo è, seguito da un manipolo di parlamentari che ne hanno fatto addirittura un’emergenza politica. 

La pugile trans algerina che deve sfidare l’azzurra Angela Carini non esiste. Come hanno provato a spiegare alcuni giornalisti, Imane Khelif era stata squalificata dai Campionati mondiali femminili per gli elevati livelli di testosterone che violavano le regole della federazione internazionale di boxe Iba.

Le malattie che possono causare squilibri di testosterone nelle donne vanno dall’irsutismo, la sindrome dell’ovaio policistico e l’iperplasia surrenalica congenita. Come spiega Simone Alliva su L’Espresso la vicenda ricorda «Caster Semenya due volte campionessa olimpica degli 800 metri, esclusa da alcune competizioni sportive per essersi rifiutata di assumere farmaci che riducessero il suo alto livello di testosterone, causato da una disfunzione genetica che le provoca l’iperandroginia». La Corte europea dei diritti dell’uomo nel febbraio 2021 ha sentenziato che Semenya era “stata discriminata”.

Ma più che discutere del sesso dei pugili (nemmeno angeli) vale la pena sottolineare gli esponenti del governo e la loro stampa cameriera che per una giornata intera hanno frugato nelle mutande di un’atleta semplicemente per rilanciare le strampalate teorie di “gender” e “woke”. E come spesso accade Salvini è alla testa dei facinorosi. 

Buon giovedì. 

Nella foto: la pugile algerina Imane Khelif (Instagram)

“Il mondo di Berlinguer”, la mostra che rilegge i cruciali anni 70-80

«Noi siamo convinti che il mondo, anche questo terribile, intricato mondo di oggi può essere conosciuto, interpretato, trasformato, e messo al servizio dell’uomo, del suo benessere, della sua felicità». Queste potenti parole di Enrico Berlinguer campeggiano a lettere cubitali all’ingresso della mostra itinerante Il mondo di Berlinguer accogliendo i visitatori lungo tutto il percorso espositivo che traccia la vita politica del leader del Pci e il contesto storico-sociale in cui ha operato da segretario del partito, dal 1972 al 1984. L’esposizione, a cura di Adriano Chini, è partita, nella sua prima tappa, dai locali del Circolo Rinascita di Campi Bisenzio, in provincia di Firenze, storico circolo Arci e spazio che ha rappresentato uno dei principali luoghi di aggregazione politica di sinistra della rossa Toscana fin dagli anni 60.
Oltre 200 pezzi storici e materiali d’archivio, tra manifesti politici, articoli di giornale, fotografie immergono in maniera totalizzante in fotogrammi che a ritmo incalzante e cronologico, proiettano in quell’intervallo temporale di storia italiana a cavallo tra gli anni 70 e 80.

La mostra (progetto grafico e allestimento a cura di Mirco Bettazzi e Alessandro Innocenti) e il suo catalogo critico rileggono ed esplorano della storia italiana di quegli anni dal punto di vista di Enrico Berlinguer, indimenticabile segretario del Partito comunista italiano, ne ripercorrono il suo operato evidenziando come le sue azioni si inserivano nel contesto degli avvenimenti a lui coevi. Elementi di politica interna, ma anche politica internazionale, fatti di cronaca, dettagli storici, riferimenti socio economici offrono al visitatore un affresco puntuale e minuzioso di quel tempo.
La sezione dedicata al 1972 apre il percorso espositivo con documenti originali – riprodotti come gigantografia – del XIII congresso del Pci che eleggerà Enrico Berlinguer a capo del partito. Poi diritti verso le sezioni successive, una per ogni anno fino al 1984, ciascuna caratterizzata da eventi macro che forniscono gli strumenti base per la lettura e la comprensione della mostra, intervallati da un numero imponente di manifesti del Pci, immagini iconiche di Berlinguer e quotidiani o settimanali, tutti in originale. In quegli anni la comunicazione politica avveniva prevalentemente attraverso volantini e manifesti, oltre che tramite i giornali: il linguaggio lontano da quello contemporaneo e un’iconografia che tratteggia la storia del Pci sono gli elementi caratterizzanti dell’esposizione. Il sociologo Edoardo Novelli nel suo libro I manifesti politici. Storie e immagini dell’Italia repubblicana (Carocci editore) descrive proprio il percorso che ha avuto la comunicazione politica italiana e considerando i manifesti politici «una fonte primaria e privilegiata per l’analisi di ambiti e campi come le culture, gli immaginari, i linguaggi della politica e della società italiana».
Ampio spazio è dedicato alla politica internazionale, i fatti del Cile del 1973, la questione palestinese, la costruzione di un modello alternativo di sinistra europea fondata sulle interlocuzioni strettissime con il Pce (Partito comunista spagnolo) e il Pcf (Partito comunista francese) e i loro rispettivi leader Santiago Carrillo e Georges Marchais e gli altrettanto intensi legami con Willy Brandt e Olof Palme (icona della sinistra mondiale assassinato nel 1986): approfondimenti frutto di un lavoro di attenta ricerca.

Un colpo durissimo, dominato da un sentimento di angoscia che pervade il visitatore, sono le sezioni degli anni dedicati alla strategia della tensione che consegnano il quadro di un’Italia instabile e cristallizzata nella paura: decine di morti, un susseguirsi di stragi e di vittime con una cadenza quotidiana. Oramai i ricordi di quegli anni per molti sono ovattati, ai nostri giorni si ricordano forse con troppa retorica, lontani però dal reale e drammatico impatto che hanno avuto sul nostro Paese. Un manifesto su tutti colpisce, quello che ritrae Aldo Moro durante il suo sequestro per mano delle Brigate Rosse, con la foto strappata, e la sua immagine senza volto accompagnata dalle parole, «Condanne a morte, proclami di guerra, paura e intimidazione, carceri segrete, ricatti alla stampa, sequestri e assassinii. Il loro nemico: la democrazia. – Sparano contro la libertà di tutti. NON SI CEDE AI RICATTI DEI TERRORISTI».

In successione gli anni dei movimenti per la pace, le tante manifestazioni, un moto sentito e imponente ma assente oggi. E questa mancanza odierna stride tra le immagini in mostra, con la riflessione sottintesa: non vi è il coraggio di produrre, oggi in Italia, una pace fattiva da parte di una sinistra del tutto evanescente su questo tema e su molti altri.
Infine la sezione del 1984: la drammatica morte di Berlinguer, i funerali di Stato, la lenta agonia di una nazione e la fine, sì la fine del Partito comunista italiano.

Come si esce dalla mostra? Commossi, perché proiettati emozionalmente in un periodo storico e nei suoi avvenimenti e vicini a un uomo e a un politico più grande di come già lo immaginavamo. Le immagini ancor più dei testi creano un forte impatto nella mente del visitatore, riaccendono sentimenti contrastanti e rivelano l’umanità di un leader e allo stesso tempo la sua tensione etica e la forza propulsiva che ha dedicato al nostro Paese per la costruzione di un mondo migliore. La quasi totalità del materiale esposto fa parte dell’archivio privato di Adriano Chini, curatore della mostra e del volume, figura di rilievo della politica fiorentina degli ultimi 50 anni come dirigente politico e come amministratore pubblico.

La prima tappa della mostra si è inserita in una rassegna che per due settimane ha visto un susseguirsi di dibattiti, presentazioni di libri e momenti di approfondimento sulle politiche di Enrico Berlinguer. Hanno partecipato rappresentanti dei sindacati, il presidente nazionale dell’Arci Walter Massa, protagonisti e dirigenti politici della politica di quegli anni (fra i quali Lalla Trupia, ex parlamentare europea e deputata, membro della direzione del Pci, responsabile femminile nazionale del Pci; Michele Ventura, membro della direzione del Pci, segretario della federazione del Pci di Firenze; Ugo Sposetti, già deputato, presidente dell’Associazione Enrico Berlinguer). Fra gli approfondimenti ricordiamo quelli di Stefania Limiti e Giovanni Fasanella, giornalisti d’inchiesta e saggisti, che hanno portato alla luce contraddizioni della storia italiana, che hanno concesso una analisi sugli anni della strategia della tensione e sul caso Moro la prima e sull’attentato di Sofia a Berlinguer, fatto ancora sconosciuto ai più, il secondo. Nell’ambito della rassegna una nota spetta al film documentario, realizzato nel quarantesimo anniversario della morte di Berlinguer esclusivamente con materiale d’archivio in gran parte inedito, Prima della fine – Gli ultimi giorni di Enrico Berlinguer, di Samuele Rossi, un’opera d’arte frutto di una ricerca attenta di un talentuoso giovane regista. Il film è uscito nelle sale il 13 giugno (distribuzione OpenDDB – 2024) e testimonia con materiali video gli ultimi giorni di vita di Enrico Berlinguer.

Tra gli appuntamenti in calendario de Il mondo di Berlinguer ricordiamo quelli in provincia di Firenze a Calenzano, dall’1 al 15 settembre organizzato dalla Casa del Popolo cittadina, a Scandicci presso il Castello dell’Acciaiolo nella seconda metà di ottobre organizzato dall’Associazione Arco in collaborazione con il comune di Scandicci e quello a Torrita di Siena nella prima metà di novembre.

Già dal mese di agosto parte invece un lungo itinerario di presentazioni del libro (edito da Genius Loci), un calendario denso da Firenze, a Grosseto, a Pistoia e altre date in via di definizione (aggiornamenti sulla pagina FB ilmondodiberlinguer) con l’obiettivo «di rispolverare la memoria storico-politica che dovrebbe favorire la riflessione per capire, e interrogarsi sui valori, le idee e fin anche gli stili di vita di Enrico Berlinguer. Non per celebrarlo ma per seguirne le scelte etiche e politiche».

L’autrice: Serena Pillozzi, coordinatrice editoriale de “Il mondo di Berlinguer”

In apertura e nel testo foto della mostra “Il mondo di Berlinguer” a Campi Bisenzio

Contro le spese militari, il nazionalismo e la guerra. Il pacifismo di Matteotti oggi più che mai necessario

Nel centenario dell’assassinio, si sono sviluppate in tutt’Italia diverse iniziative per commemorare la figura di Giacomo Matteotti, culminate nella celebrazione ufficiale alla Camera alla presenza del presidente del Consiglio e del capo dello Stato. Il rischio sempre imminente nelle celebrazioni è quello di imbalsamare la memoria e relegare la testimonianza di Matteotti nell’archivio delle cose passate. Dei vari profili che hanno intersecato l’avventura umana e politica di Giacomo Matteotti, ce n’è uno che non può essere archiviato e disturba ancora oggi la nostra navigazione politica, il ripudio della guerra, la battaglia intransigente condotta contro la Grande guerra, considerata un male ingiustificabile, e contro il militarismo e il nazionalismo che l’avevano prodotta. Ripudio testimoniato energicamente con i suoi scritti e i suoi discorsi appassionati.
Il liberale Piero Gobetti così lo ricordava: «Matteotti parlò contro la guerra. Ripeté il suo discorso, anche quando non c’era più pacifista che parlasse. Conviene mettere a confronto l’esempio di Matteotti pacifista con la condotta degli uomini tipici del pacifismo italiano, pavidi e servili per non essere presi di mira. Matteotti non disertava, non si nascondeva, accettava la logica del suo sovversivismo, le conseguenze dell’eresia e dell’impopolarità: era, contro la guerra, un combattente generoso».
Su Critica sociale nel febbraio 1915 Matteotti scriveva: «Il Partito socialista ha il dovere di opporsi continuamente alla guerra, e al suo strumento e creatore, il militarismo, e vota contro le spese militari». Sul giornale La nostra lotta: «Quando a paladini della patria si ergono i clerico moderati, i nazionalisti, i militaristi, cioè tutti coloro che necessariamente si contrappongono all’idealità socialista, e si servono anzi a tale scopo dello straccetto patriottico – allora noi insorgiamo anche contro la patria».

Fra il 1914 è il 1915 oltre alle pubbliche prese di posizione in seno al consiglio provinciale in cui sostiene con determinazione la neutralità assoluta, Matteotti chiarisce da subito la sua concezione di patriottismo secondo la quale è la pace il vero bene della nazione e sostiene la sua radicale contrarietà alla guerra come strada per l’affermazione brutale di una patria sulle altre. Nello scritto Guerra di difesa ottobre 1914 afferma: «Quando la classe borghese parla di invasioni e minacce della patria noi gridiamo abbasso la vostra patria poiché la storia dimostra nulla esservi più facile che la finzione di assaliti quando si è assalitori, di invasi quando si vuole invadere e ogni esercito è un organo che richiede necessariamente la funzione di distruggere attaccare uccidere».

L’esplosione dei nazionalismi che aprì la strada all’abisso della grande guerra, investì il movimento socialista internazionale che ne fu travolto. I partiti socialisti europei si piegarono al nazionalismo e aprirono la strada alla discesa agli inferi della guerra.
Matteotti non si piegò, non ripudiò il principio della fratellanza fra i popoli, fulcro degli ideali socialisti, per abbracciare la febbre nazionalista che agitava tutte le piazze europee e spingeva i partiti socialisti a conformarsi e ad abiurare la propria fede. Nel socialismo italiano fu sempre un intransigente oppositore alla guerra, da lui percepita nella sua dimensione reale come evento disumano.

Scriveva nel 1915: «Una neutralità assoluta che fosse imposta al governo dal partito socialista avrebbe in questo momento un effetto immediato sull’internazionale di tutto il mondo, ne segnerebbe la rinascenza più florida. Ogni proletariato degli altri Stati saprebbe finalmente di avere nel proletariato italiano il fratello pronto a impedire la strage. Il gesto di Liebknecht diventerebbe l’azione potente di una massa e una nuova coscienza utile di forza pervaderebbe gli animi di tutto il mondo».
Il 2 dicembre 1914 Karl Liebknecht era stato l’unico parlamentare socialista tedesco a votare contro i crediti di guerra. Matteotti esaltò la scelta di Liebknecht e condivise in pieno la stessa visione manifestata da Rosa Luxemburg nelle sue lettere dal carcere.
Scriveva Rosa Luxemburg in una lettera alla redazione del Labour Leader a Londra nel dicembre 1914:
«Ciò che sarebbe più terribile per il futuro del socialismo, sarebbe vedere i partiti operai dei diversi Paesi decidersi ad adottare la teoria e la pratica borghesi, secondo le quali sarebbe del tutto normale ed inevitabile che i proletari delle differenti nazioni si scannino a vicenda durante la guerra, per ordine delle loro classi dominanti, per poi dopo la guerra di nuovo scambiarsi come se niente fosse abbracci fraterni. (..) Questo spaventoso massacro reciproco di milioni di proletari al quale assistiamo attualmente con orrore, queste orge dell’imperialismo assassino che accadono sotto le insegne ipocrite di “Patria” di “civiltà”, “libertà”, “diritto dei popoli” e che devastano città e campagne, calpestano la civiltà, minano alle basi la libertà e il diritto dei popoli rappresentano un tradimento clamoroso del socialismo».

Nel maggio del 1915 Matteotti scrisse: «Noi non auguriamo e non desideriamo la vittoria di nessuno, chiunque dei due grandi aggruppamenti dovesse vincere, vi sarà un popolo vinto che preparerà la rivincita per domani, e quindi nuove guerre e vi saranno vincitori che domineranno su città su campagne di nazionalità differente con la scusa della civiltà superiore, con la scusa del confine da arrotondare, eccetera. Noi desideriamo piuttosto che tutti e due gli avversari si esauriscano, non vincano; allora soltanto forse questa potrebbe essere l’ultima guerra, per i suoi stessi errori, per la sua stessa inutilità. Quindi non abbiamo scrupoli sulla coscienza, essi servirebbero soltanto a ungere le ruote del militarismo, del nazionalismo, del clericalismo; noi siamo partigiani e ora più che mai nella grande crisi sentiamo il dovere di irrigidirsi nei nostri principi» (“Scrupoli di coscienza”, in La Lotta).

Sono parole profetiche, Matteotti comprendeva che il miraggio della vittoria, che alimentava entrambi gli schieramenti era un mito ingannevole e pernicioso. La vittoria di uno schieramento su un altro non avrebbe portato beneficio a nessuno. L’umiliazione dei vinti avrebbe aperto la strada al desiderio di rivincita e a nuovi conflitti, come poi avvenne. Anche i Paesi usciti vincitori dal conflitto come l’Italia non riuscirono a superare il trauma generato dai lutti e dalle sofferenze enormi provocate dalla Grande guerra. La “vittoria” si rivelò come un bidone vuoto, per cui il fascismo ebbe facile gioco a cavalcare il malessere collettivo inventando il mito della “vittoria tradita”. Questa concezione di Matteotti che apre gli occhi sugli effetti nefasti della vittoria conseguita con le armi a danno dei popoli vinti, è diventata di estrema attualità, se pensiamo a quello che sta succedendo in Europa in questo momento, dove l’obiettivo consacrato nei vertici europei e nei proclami del Parlamento europeo è quello di perseguire la vittoria, costi quel che costi. In particolare nell’ultima Risoluzione del Parlamento europeo del 29 febbraio 2024 si argomenta che: «l’obiettivo principale è che l’Ucraina vinca la guerra contro la Russia, il che comporta l’allontanamento di tutte le forze russe e i loro associati e alleati dal territorio ucraino riconosciuto a livello internazionale; ritiene che tale obiettivo possa essere conseguito solo attraverso la fornitura continua, sostenuta e in costante aumento di tutti i tipi di armi convenzionali all’Ucraina».

Di fronte ad una “guerra di attrito” come fu la Prima guerra mondiale, la preoccupazione dei leader europei non è quella di arrestare la carneficina, far cessare lo spargimento di sangue spingendo le parti ad un negoziato, al contrario la parola negoziato è bandita, l’unica soluzione prevista è quella che si deve ottenere per via militare, attraverso l’incremento della fornitura delle armi, cioè l’escalation.
Stolti, direbbe Matteotti, la Storia non vi ha insegnato niente!
Il 5 giugno 1916 Matteotti partecipava come consigliere alla pubblica adunanza del consiglio provinciale di Rovigo ed avendo un altro consigliere proposto che una determinata somma stanziata dall’amministrazione provinciale a favore dei comitati di assistenza civile fosse erogata a favore degli abitanti dell’alto vicentino rifugiati anche in provincia di Rovigo causa offensiva austriaca, Matteotti intervenne con irruenza pronunziando queste frasi, che diedero luogo ad un tumulto: «Abbasso la guerra; questa è una guerra nefasta da noi socialisti ufficiali non voluta; siete degli assassini e dei barbari».
Fu denunziato e condannato dal Pretore di Rovigo il 5 luglio 1916 alla pena di 30 giorni di arresto per grida sediziose (contravvenzione all’articolo 3 della legge sulla pubblica sicurezza 30 giugno 1889 numero 6141). Il tribunale di Rovigo confermò la condanna con sentenza del 18 Aprile 1917. La Cassazione annullò la condanna senza rinvio con sentenza del 31 luglio 1917.

Nella sua autodifesa Matteotti ribadì le motivazioni dell’avversione alla guerra mondiale giudicandola contraria ai principi di cooperazione e collaborazione fra i popoli nei quali credeva affermando di essere favorevole a un’insurrezione popolare pur di fermare la partecipazione italiana al conflitto.
Dopo la guerra Matteotti, in coerenza con la sua fede internazionalista, si oppose all’umiliazione dei vinti e condannò Mussolini per l’appoggio dato alla Francia riguardo all’occupazione della Rhur. In un articolo su La Giustizia del 1923, così si esprime:
«[L’internazionale socialista dovrà] tentare o favorire ogni iniziativa che dirima i conflitti tra i popoli, li associ con vincoli pacifici, eviti o faccia cessare le opposte violenze e minacce. Dovrà favorire il formarsi di una vera Lega delle Nazioni, e più immediatamente degli Stati Uniti d’Europa, che si sostituiscano alla frammentazione nazionalista in infiniti piccoli Stati turbolenti e rivali».
Si è detto che i principi fondamentali della Costituzione sono stati scritti sotto dettatura della Storia. Non v’è dubbio che nel principio pacifista-internazionalista risuoni l’eco della coraggiosa battaglia di Matteotti contro la barbarie della Prima guerra mondiale e contro i nazionalismi che oggi hanno rialzato la testa e portano le Patrie di nuovo a combattersi, l’un contro l’altra armata.

L’autore: Domenico Gallo è magistrato, presidente di sezione emerito della Corte di Cassazione

Approfondimenti sul pensiero di Matteotti su Left 6/2024

Le cosiddette carceri

L’ultimo è un giovane di 25 anni in attesa di giudizio nel carcere di Rieti. Prima di lui un ragazzo di 27 anni, nella casa circondariale di Prato. Le statistiche dicono che si tratti del sessantunesimo suicidio in carcere dall’inizio dell’anno. 

Sono sempre i numeri a dirci che il tasso di affollamento è del 130,4% (al netto dei posti conteggiati dal ministero della Giustizia ma non realmente disponibili). Numeri: sono 4mila detenuti in più negli ultimi 12 mesi. Numeri: mancano almeno 18mila agenti di polizia penitenziaria rispetto alle necessità dell’organico.

Non si trovano invece statistiche ufficiali delle proteste quindi tocca contare quelle che finiscono nelle pagine di cronaca, soprattutto locale. A Rieti 400 detenuti per due giorni e per due notti hanno protestato per le alte temperature che rendono infernale la cella. 

Questa mattina arriva in Aula il cosiddetto Decreto carceri che non interviene sul sovraffollamento, non mette sul tavolo i soldi che servono per le assunzioni e non risolve l’annoso problema delle carceri usate come parcheggio di pazienti psichiatrici che avrebbero bisogno di cura più che di detenzione. 

Andrà come al solito, con un voto di fiducia che taglierà le discussioni e gli emendamenti. Nel frattempo ci si è inventati un nuovo corpo speciale per fronteggiare le rivolte in carcere e sedarle con le maniere forti sul modello dell’Eris francese. Il carcere come luogo emergenziale dove conta sedare gli afflitti. Ma anche quello è propaganda: c’è una direttrice ma non ci sono gli agenti. 

Buon mercoledì

L’affare Venezia

Pur in attesa delle conclusioni della magistratura, sembra assodato che il Comune di Venezia sia da anni infestato non da alcune mele marce, ma da un sistema coscientemente costruito al fine di mettere la pubblica amministrazione a servizio dei privati. Concetto, questo, più volte ribadito nella ordinanza della Procura della Repubblica dove si parla di «sistema criminoso [per far] pressione sugli uffici comunali ridotti al servizio del privato» e si accusa l’assessore Renato Boraso di avere «sistematicamente mercificato la propria pubblica funzione svendendola agli interessi privati».
In quanto a Luigi Brugnaro, solito vantarsi di avere rinunciato allo stipendio da sindaco e di lavorare per noi gratuitamente, la Procura cita documenti della Guardia di Finanza che rilevano «un vasto catalogo di anomalie nella gestione amministrativa del comune di Venezia, nelle ripetute frequenti interferenze, commistioni con gli interessi economici delle molte società appartenenti al reticolo facente capo all’imprenditore Brugnaro […] i cui sintomi prodromici si evidenziano nella collocazione al vertice della macchina comunale e di alcune partecipate comunali di dirigenti e amministratori prelevati dalle società private di proprietà di Brugnaro». Oggetto di indagine sono anche le laute sponsorizzazioni garantite da una serie di imprese alla squadra di pallacanestro Reyer, di proprietà del sindaco, perché «chi elargiva contributi alla Reyer aveva poi la strada spianata per avere appalti».

Di fronte a questo quadro devastante, colpisce la sorpresa con la quale molti hanno accolto la notizia dei provvedimenti restrittivi emessi nei confronti di alcuni esponenti dell’amministrazione comunale di Venezia. Una reazione strana se si tiene conto che, da anni, dei fatti di cui si tratta si trova ampia traccia nelle cronache locali, ma anche un segnale preoccupante del radicamento di un sistema di potere che ha trasformato l’amministrazione del bene pubblico in una lotta fra bande che si competono la conquista, la spartizione e la vendita del territorio.
«Tutti sapevano» ha opportunamente sottolineato Felice Casson, due volte candidato sindaco e due volte sconfitto (la prima da Massimo Cacciari e l’altra da Brugnaro), a cui parere «sarebbe il caso di riflettere su come queste persone siano arrivate al governo di Venezia, di riflettere su chi ha politicamente aperto loro la porta».
Se questo è il fulcro della questione, per capire il sistema di cui il Berlusconi della laguna, come è stato definito Brugnaro, non è l’ideatore ma piuttosto un accorto utilizzatore finale, bisognerebbe rileggere con attenzione le vicende veneziane partendo da almeno vent’anni fa.

Nel 2005 (erano da poco iniziati i lavori del Mose e ci si apprestava a costruire il ponte di Calatrava), Alberto Statera scrisse: «In questi giorni tutti, ma proprio tutti, sono sbarcati in laguna: immobiliaristi, palazzinari, architetti, finanzieri di primo e secondo pelo, speculatori, grandi gruppi, piccoli gruppi aggressivi e/o avventurosi per partecipare al business che si chiama opere pubbliche, trasporti, restauri, ristrutturazioni, calcio, scommesse e turismo». Nello stesso periodo l’allora sindaco Cacciari, intervistato da Elisio Trevisan, disse: «È naturale che in questa fase si facciano avanti imprenditori di grosso calibro, io ne vedo due o tre al giorno, Benetton, Caltagirone, Brugnaro e altri di cui per il momento non dico il nome». Ognuno di questi mecenati di se stessi è stato poi ampiamente ricompensato per il suo amore per la città, ad esempio Benetton con il Fontego dei Tedeschi e Caltagirone con lo Stucky Hilton.

In quanto a Brugnaro, con la motivazione che il Comune non aveva risorse per disinquinare i terreni, Cacciari rinunciò alla prelazione dell’area dei Pili, favorendone di fatto l’acquisto da parte dell’accorto imprenditore il quale, però, non intendendo usare soldi suoi per le bonifiche, ha ripetutamente sollecitato l’intervento del Comune, della Regione e del governo a «rivedere i protocolli» e ridurre gli oneri per i privati. Malgrado le promesse che «da sindaco non [avrebbe fatto] mai niente sui Pili», sembra ora che incontrando potenziali acquirenti Brugnaro abbia loro assicurato: «Qui è tutto edificabile, si può fare qualsiasi roba, fino a centro metri [di altezza]!». Le vicende dei Pili, assieme ad altre operazioni delle società del sindaco, sono al vaglio degli investigatori.

Di quello che è stato definito il patto Cacciari-Brugnaro non si hanno prove – in una delle sue ultime esternazioni Cacciari ha detto «fu lui a chiamarmi» -, è innegabile però che molti degli affari di Brugnaro siano stati resi possibili da giunte cosiddette di sinistra, che hanno governato con una visione filosofica sostanzialmente non diversa da quella dell’attuale sindaco, condividendone, anche senza lucrarne illeciti profitti, l’idea che la città, come qualsiasi altra merce, appartenga al mercato e sia a disposizione di chi riesce a impossessarsene.
Il risultato è che si è passati da un sistema in cui le amministrazioni comunali preparavano dei piani e poi, eventualmente, li modificavano sotto la pressione di interessi particolari, a quello attuale che vede gli imprenditori, o sedicenti tali perché i loro guadagni sono esenti da ogni rischio di impresa, offrirsi in prestito alla politica e, una volta scalate le pubbliche istituzioni, programmaticamente asservirle ai propri interessi.

Comune alle due fazioni è anche la tracotante rivendicazione della bontà delle loro scelte e il disprezzo per i cittadini non possidenti e/o non consenzienti. Fin dal 1993, al momento della sua prima elezione Cacciari si disse orgoglioso perché «stiamo stringendo tutta una serie di accordi con i privati […] questi progetti possono essere molto appetibili anche dal punto di vista della rimuneratività» e sono famose le sue invettive contro «la società civile che ti invade ogni mattina con problemi senza senso» ed i cittadini che «sono dei rompiscatole, ti impediscono di governare, ti rompono la palle, sono infanti incapaci di arrangiarsi».

Dal canto suo, Brugnaro, che ai giornalisti che gli pongono domande non gradite risponde “siete lo schifo d’Italia”, ha sempre rivendicato la privatizzazione e la svendita alla città. In più occasioni si è rivolto agli investitori ribadendo «noi come amministrazione siamo a disposizione» e perfino in questi giorni urla «non abbandonerò mai l’idea che i privati sono una risorsa per Venezia».
Mentre in città si moltiplicano le richieste di dimissioni di Brugnaro, come bastasse cambiare sindaco per cambiare sistema, condivisibile è la desolata e condivisibile riflessione di Casson: «Ci vorrebbe un salto etico, ma non è scontato, neanche a sinistra». E purtroppo non è nemmeno scontato che l‘operato della magistratura, ultimo baluardo contro la rapina del bene pubblico, non venga ostacolato dalle riforme che il governo nazionale si appresta a varare per garantire l’impunità di pubblici funzionari e amministratori corrotti e/o fedifraghi, e far sì che il sacco della/e città avvenga in modo formalmente legale, sancendo definitivamente il primato della cultura dell’(af)fare.

Il libro Privati di Venezia 

Paola Somma ha insegnato Urbanistica presso lo IUAV di Venezia ed è stata visiting professor all’Università Americana di Beirut. Svolge ricerca indipendente con attenzione ai rapporti tra l’organizzazione fisica e la struttura economica e sociale del territorio. È membro del comitato editoriale della rivista «Open House International». Per Castelvecchi, (collana Antipatrimonio diretta da Maria Pia Guermandi e Tomaso Montanari) ha pubblicato nel 2021, ai tempi della ripartenza dopo la pandemia, Privati di Venezia. La città di tutti per il profitto di pochi in cui ha compiuto un’analisi sui cambiamenti del patrimonio culturale e urbano veneziano e sulla presenza di gruppi di interesse. Fra le sue precedenti pubblicazioni Venezia Nuova (1983), Spazio e Razzismo (1991), Beirut: guerre di quartiere e globalizzazione (2000).

Nella foto:  Ca’ Loredan e Ca’ Farsetti sul Canal Grande, sedi del Municipio

 

Venezuela, dopo la contestata rielezione di Maduro proteste e vittime tra i manifestanti

Monta la protesta in Venezuela dopo le elezioni e la proclamazione della vittoria di Maduro. Questi risultati elettorali non hanno fatto altro che esacerbare il conflitto sociale. Si registrano disagi e tafferugli in diverse zone del Paese. Migliaia di persone nelle strade per sostenere che i risultati del Consiglio nazionale elettorale (Cne) non rappresentano la volontà espressa alle urne dalla maggioranza dei venezuelani durante le elezioni di domenica. Al momento, purtroppo, si registrano tre morti (tutti giovanissimi) e 46 arresti. Maduro getta benzina sul fuoco e parla di “atti terroristici”, veicolati dagli Stati Uniti. Allo stesso tempo, Machado, leader della Plataforma unitaria democratica, non si arrende: continua a rivendicare la vittoria di Urrutia, il candidato dell’opposizione e invita i venezuelani in piazza, di fronte alla sede delle Nazioni Unite.

La giornata elettorale

A Caracas da poco è scoccata la mezzanotte. Dopo tanta attesa, nella sala conferenza del Consiglio nazionale elettorale (Cne) venezuelano, il presidente Elvis Amoroso annuncia la vittoria di Maduro che, con il 51,2% dei voti, supera il candidato d’opposizione, Gonzalez Urrutia, che si ferma al 44,2%.
La giornata elettorale si è svolta in linea generale in tranquillità. L’affluenza si è attestata al 59%, un dato più basso rispetto a quello pronosticato dai sondaggi più accreditati (vicino all’80%). I problemi sorgono alla chiusura dei seggi, alle 18. Sostenitori della coalizione di opposizione denunciano intimidazioni da parte di gruppi di motociclisti vicini al partito di governo per allontanarli dai luoghi del voto. Altri, bloccati all’entrata direttamente dalle forze di polizia. Altri ancora, accompagnati alla porta direttamente dai responsabili dei seggi. L’obiettivo è non far partecipare le persone non allineate al chavismo allo scrutinio dei voti, requisito essenziale per verificare che il conteggio venga fatto nella maniera più corretta possibile. Da qui inizia a montare il sospetto che qualcosa non sta andando come dovrebbe andare. Successivamente ritardi inspiegabili nel trasmettere i dati. Delsa Solórzano, portavoce della coalizione di opposizione davanti al Cne, in quelle ore frenetiche spiega che «stanno ritardando la trasmissione dei dati al centro di computazione e la pubblicazione dei verbali. C’è un numero significativo di seggi elettorali da cui vengono allontanati i nostri testimoni e altri in cui si rifiutano di trasmettere i risultati della scheda di conteggio». In Venezuela sta accadendo quello che molte persone prefiguravano. Per questo, davanti alla stampa nazionale e internazionale, Gonzalez Urrutia e Machado, rispettivamente candidato presidenziale e leader della Plataforma unitaria democratica, gridano ai brogli elettorali. Urrutia dice che «i venezuelani e il mondo intero sanno cosa è successo oggi. Qui sono state violate tutte le regole, al punto che non sono stati consegnati tutti i verbali». Ma nello specifico, cosa denunciano?

Frode elettorale?

Per capire le ragioni alla base delle denunce dell’opposizione va spiegato come funziona il voto in Venezuela. Dal 2004 è stato introdotto un sistema automatizzato di votazione. Entri nel seggio, dai il documento, ti accompagnano davanti a questo schermo dove compaiono tutti i candidati. Clicchi su chi vuoi votare, la macchina registra il tuo voto ed emette una stampa (una papeleta) che poi il votante piega, chiude e inserisce nella classica scatola elettorale.
Questo sistema facilita il controllo perché si compareranno tot stampe con tot registrati sulla macchina. Il Cne ieri ha dichiarato la vittoria di Maduro, senza fare questo incrocio dei dati, ma pubblicando i risultati sulla pagina web dell’organismo. Riscrivo: pubblicazione dei risultati sul sito significa che qualsiasi persona può inserirli e quindi ci si può solo appellare alla fiducia. Non scherziamo: senza il confronto delle stampe emesse è difficile convalidare il conteggio. In una democrazia, per considerare valide le elezioni, non bisogna solo rendere pubblici i risultati, ma soprattutto verificabili.
Per questa ragione i vertici dell’opposizione chiedono trasparenza ed insieme a loro alcuni vicini latinoamericani, come Argentina, Cile, Costa Rica, Perù, Panama, Repubblica Dominicana e Uruguay, per cui è stato ordinato da Maduro il “ritiro immediato” del loro personale diplomatico.
Brasile e Colombia sono stati più cauti, chiedendo una commissione indipendente. Anzi, secondo quanto riportato dal quotidiano carioca O Globo, citando fonti diplomatiche, in un incontro con Celso Amorin, consigliere capo del Presidente Lula, Maduro avrebbe detto che «consegnerà le papeletas nei prossimi giorni». Nel frattempo monta la protesta.

Nella foto: frame del video delle proteste in Venezuela