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A tutti verrebbe un dubbio, a Meloni no

Cercate nelle pieghe dei giornali di stamattina la notizia che il governo Meloni ha incassato l’ennesimo sonoro ceffone sulla libertà della stampa per un “picco di segnalazioni su attacchi alla libertà di stampa” dopo il suo insediamento.

L’ennesima accusa arriva dal report del consorzio europeo Media freedom rapid response che, il 16-17 maggio scorso, ha fatto una missione speciale in Italia che non ha nulla a che vedere con la Relazione sullo stato dei diritti di qualche giorno fa. 

“Dall’arrivo al potere del governo”, è la denuncia che si legge nel documento, “la libertà dei media in Italia è stata sotto una crescente pressione, con attacchi e violazioni senza precedenti” e “spesso avviati da autorità pubbliche nel tentativo di emarginare e silenziare le voci critiche“.

La delegazione durante la sua missione in Italia aveva chiesto un incontro a esponenti del governo e della maggioranza senza ottenere nessuna risposta. 

“Tali rifiuti – si legge nel report –  illustrano la mancanza di volontà del governo di impegnarsi in discussioni costruttive su sviluppi chiave relativi ai media che alla fine influenzano la qualità della democrazia italiana”. 

Così mentre la presidente del Consiglio scriveva la sua lettera a Ursula von der Leyen per bollare come “fake news” gli allarmi della Commissione (creando “sconcerto” per il tono della sua risposta) nella sua cassetta della posta arrivava un’analisi sostanzialmente identica sulla compressione della libertà di stampa in Italia. 

A qualsiasi persona di “buon senso” (per citare gli esponenti di maggioranza) al secondo avviso sorgerebbe un dubbio. A Meloni no. 

Buon martedì. 

Nella foto: comunicazione di Giorgia Meloni al Senato, 26 giugno 2024 (governo.it)

Scandalosa Edna. Ricordiamo la grande ribelle della letteratura irlandese

Per ricordare la grande scrittrice Edna O’Brien, scomparsa il 27 luglio a 93 anni, pubblichiamo questa intervista rilasciata a Simona Maggiorelli e uscita su Left dell’8 dicembre 2013 in occasione di Più libri più liberi.

Il suo primo romanzo, Ragazze di campagna (1961), fu bruciato sul sagrato della chiesa nel piccolo paese, Tuamgraney, dove Edna O’Brien era nata nel 1930. Il ministro dell’Economia irlandese e il vescovo si trovarono d’accordo nel giudicare quel folgorante esordio un libro immondo, che non doveva stare in nessuna casa timorata di Dio. Sembra una storia quasi ottocentesca, quella che la scrittrice racconta nella sua autobiografia, Country girl (Elliot), ma accadeva agli inizi degli anni Sessanta nell’Irlanda cattolica e bigotta, dove le ragazze venivano mandate a studiare in convento dalle suore e, a parte le solite «angoscianti preghiere», le uniche pagine che si potevano leggere erano quelle del giornale Irish messenger, impegnato «a scongiurare l’influsso delle peccaminose orchestre da ballo e a contrastare l’avanzata del comunismo».
Anche in casa O’Brien gli unici libri che circolavano erano breviari e storie agiografiche. Per il resto la madre di Edna guardava alla parola scritta con grande sospetto. Ma lei da ragazzina, per caso, scoprì un dozzinale romanzo d’amore e lo leggeva in segreto, tenendolo nascosto dietro la cassa dell’avena per i polli. «La religione era pervasiva, condizionava i pensieri e perfino i sogni», ricorda.
Ma «a me piaceva andare a scrivere nei prati. Le parole correvano insieme a me». E se quasi tutta la letteratura di Edna O’Brien ha qualcosa di autobiografico, questa autobiografia ha qualcosa della scrittura icastica e cinematografica dei suoi romanzi. Come negli amati quadri di Jack Yeats, pieni di grumi di colore azzurro, verde e rosso, le sue pagine risuonano di colori e odori di un’Irlanda profonda: il profumo delle violaciocche, i colori della torbiera, l’ardesia bluastra dei tetti. Senza dimenticare quella strada azzurra del racconto The small town lovers che tanto fece infuriare un intellettuale raffinato e cosmopolita come Ernest Gébler che Edna aveva sposato giovanissima.
Sprezzante, lui rimarcava che non esistono strade azzurre. E non le perdonò mai di avere talento. Ernest l’aveva aiutata ad aprire gli occhi, a emanciparsi da quella famiglia cattolicissima che l’aveva denunciata alla polizia, minacciando di farla rinchiudere in manicomio e che voleva costringerla ad abortire in Inghilterra per espiare il peccato di essersi unita a un uomo divorziato. Eppure lui, dopo i primi successi, le preferì una donna più giovane, «gentile, premurosa, modesta, sana di mente e senza ambizioni letterarie», come Ernest annotò in una pagina del proprio diario. Ma intanto Edna aveva fatto in tempo a conoscere la Dublino di Maud Gonne, la coraggiosa compagna del poeta William Butler Yeats e lo humour sferzante di Flann O’Brien (pseudonimo di Brian O’Nolan) che smascherava un’Irlanda «fatta di scemi e creduloni ossessionati da Dio».
E, ancor più, a Londra aveva spiccato il volo verso un mondo culturale libero e non convenzionale. Nel memoir Country girl rievoca le collaborazioni più stimolanti nel cinema e in teatro e i suoi tanti incontri in Europa e negli Stati Uniti con autorevoli compagni di strada come Harold Pinter, Philip Roth, Norman Mailer, Gore Vidal, Peter Brook e mostri sacri del Novecento come Samuel Beckett.
«Lo incontrai per la prima volta a Londra e poi, spesso, a Parigi», racconta O’ Brien a Left. «Come uomo e, ovviamente come scrittore, era unico: molto alla mano, ma allo stesso tempo introverso. C’era qualcosa di imperscrutabile nel suo carattere e questo attraeva le persone». A legarla a Samuel Beckett e a James Joyce è stato anche il comune destino di irlandesi costretti ad andarsene per poterne scrivere liberamente. «È strano, ma l’Irlanda nutre l’immaginazione dei suoi autori e allo stesso tempo li fa scappare», commenta la scrittrice.
«Certamente – aggiunge – tutto questo accadeva in passato, quando l’Irlanda era un Paese religioso, claustrofobico e repressivo. Io sono cresciuta in quel clima e sono stata costretta ad emigrare per potermi esprimere liberamente. Ma devo anche ammettere di aver portato con me molto d’irlandese. Per James Joyce, nel 1904, fu ancor più necessario andarsene: l’Irlanda allora era, se possibile, ancor più rigida. Eppure permea profondamente il suo lavoro e la sua fantasia. Beckett scappò con una ferita altrettanto bruciante, ma i suoi testi, anche se in francese, hanno un ritmo e un modo molto irlandese. Insomma – sintetizza O’Brien – siamo davanti a un autentico paradosso».
Tanto più se pensiamo che fu proprio in quel clima da caccia alle streghe (in un’Irlanda che certamente non considerava la scrittura una faccenda per donne) che lei mosse i primi passi nella letteratura. «In realtà fin da bambina scrivevo e recitavo ad alta voce piccoli brani ispirati all’ambiente e alle persone che mi circondavano. L’impulso di scrivere e “la vocazione” cominciarono lì. Così come la ricerca incessante di parole che suonassero diverse. Finché, verso i 17 o i 18 anni, scoprii la poesia e la narrativa. Al villaggio non c’erano biblioteche o librerie. Il primo autore a cui mi avvicinai veramente fu Joyce, leggendo i Dubliners e un estratto da Ritratto di un artista da giovane in un’antologia curata da T.S. Eliot».
Ma non appena Edna trovò la propria voce originale, con romanzi come Ragazze di campagna (Elliot) e La ragazza dagli occhi verdi (edizioni e/o), subito si trovò a doverla difendere anche da chi le stava a fianco e, apparentemente, l’aveva incoraggiata. «Credo che per un uomo sia più duro accettare le ambizioni letterarie e progressi della propria compagna», commenta. «La gran parte degli scrittori che conosco hanno mogli che li sostengono e che non entrano in competizione. Hemingway, per esempio, sposò Martha Gellhorn ma la loro storia finì presto e poi lui espresse tutto il suo disgusto per le donne letterate e colte. Come scrittore, mio marito Ernest si irrigidì scoprendo che sapevo scrivere. Questo fece precipitare il nostro matrimonio, che era già traballante». «Un abisso si era aperto fra noi. Fatto di gelido risentimento» scrive O’Brien a questo proposito nell’autobiografia, ricordando che libri come August is a wicked month, giudicati una bomba contro l’istituzione famiglia, e addirittura additati come pornografici dalla critica benpensante, poi furono usati da Ernest nella causa di divorzio per toglierle l’affidamento dei figli.
Ma che cosa dei racconti di Edna O’Brien davvero spaventava e faceva scandalo? «La Chiesa, la mia famiglia d’origine, i vicini, i preti e i politici irlandesi, fin dal mio esordio, si scagliarono contro di me perché negli anni Sessanta i miei libri sembravano loro troppo audaci, irriverenti e addirittura scioccanti. Proprio perché scritti da una donna. Una critica che mi sono sentita ripetere per anni è che i miei romanzi erano uno sfregio e un affronto al modello femminile irlandese. A ben vedere, la stessa accusa che era stata rivolta a J. M. Synge per il suo Playboy or the western world: così quell’anatema passava da una generazione all’altra». Ma se l’establishment più conservatore non le perdonava l’indagine profonda sulla psicologia femminile, sulla passione, sul desiderio, ma anche sul senso di perdita e l’anaffettività, dall’altra parte le femministe non le hanno mai perdonato di raccontare la dialettica fra uomo e donna come vitale e ineludibile, nonostante talvolta possa essere sanguinosa. «L’uomo è diverso dalla donna. Trovo limitante e stridente l’idea avanzata da alcune femministe che l’identità di genere sia una prigione – commenta Edna O’Brien -. Non è una prigione. È un fatto evidente. Banalmente gli uomini non hanno le mestruazioni, non fanno figli. Ma su questo ci sarebbe molto altro da dire». E poi aggiunge: «L’unica cosa che riconosco alle femministe è l’aver ottenuto più libertà e più diritti per le donne nella sfera pubblica e sociale. Comunque la battaglia è ancora lunga. Come scrittrice impegnata in questo ambito da più di cinquant’anni posso dire che una donna deve faticare molto di più per essere riconosciuta per ciò che è e che vale». Una battaglia a cui né la psicoanalisi né certa antipsichiatria in voga nell’ambiente londinese anni Settanta hanno contribuito positivamente, sembra dire O’Brien. In cerca di aiuto, ad un certo punto, lei decise di rivolgersi a Roland D. Laing, che era molto presente nel mondo dello spettacolo e intellettuale che lei frequentava. In risposta lui le propose di assumere l’Lsd, presentandole poi un conto esorbitante per fantomatiche sedute. «Credo che fosse un cavallo pazzo», dice oggi Edna O’Brien. «Forse lui stesso amerebbe essere ricordato più come poeta, o per meglio dire come poeta allo stato embrionale, piuttosto che come analista e psichiatra».
In finale la nostra conversazione torna a vertere quasi inevitabilmente sull’Irlanda. Di cui O’Brien si è occupata anche sul piano del recupero delle tradizioni pagane e popolari con libri come Elfi e draghi, racconti irlandesi (Einaudi) e, sul piano politico, con reportage sull’Irlanda del Nord e con un libro come Uno splendido isolamento (Feltrinelli), ancora una volta la storia di una donna, ma stavolta sullo sfondo del conflitto. Una ferita ancora aperta, dice Edna O’Brien, mentre l’Irlanda del sud, a poco a poco, sembra avanzare verso un cambiamento positivo anche sul piano della laicità e dei diritti. «Trovo che il premier Enda Kenny abbia mostrato grande coraggio – sottolinea – nel denunciare finalmente lo scandalo della pedofilia del clero che il Vaticano e le gerarchie irlandesi hanno nascosto per anni. Più di recente ho apprezzato come ha sfidato le ire di frange conservatrici introducendo dei miglioramenti nella legge sull’aborto. Ma ovviamente c’è ancora molta strada da fare».

(Da Left, 8 dicembre 2013)

Nella foto: la copertina di Country girl, Elliot

Tagli ai fondi per l’università. Così il governo mette a rischio la ricerca pubblica

La Flc Cgil ha lanciato da oltre un anno un grido di allarme sullo stato dell’università pubbliche e degli effetti sui lavoratori sugli studenti e in generale sul nostro sistema formativo: non solo i costi e l’assenza di alloggi per studenti, un diritto allo studio troppo limitato, il nuovo rallentamento nelle iscrizioni, le sperequazioni tra atenei ma anche le rinnovate tensioni nei bilanci universitari per la crescita dei costi di funzionamento dovuti all’inflazione e le risorse stagnanti.
Oggi l’emergenza è resa chiara nella bozza di Decreto di riparto del Fondo di finanziamento ordinario (Ffo). Nel giro di un paio d’anni quasi due terzi degli atenei statali rischiano di non chiudere i conti, aprendo uno stato di crisi e di contrazione dell’università persino peggiore di quello che abbiamo visto tra 2010 e 2015. Il Ffo del 2024, infatti, prevede un taglio effettivo di oltre mezzo miliardo di euro, antipasto di una stagione che a partire dalla prossima legge di bilancio rischia di essere segnata da tagli profondi al sistema della infrastrutture sociali come l’istruzione l’università e la ricerca. Il Ffo rappresenta la maggior fonte di finanziamento per le 67 università statali del Paese: come indica il suo nome, fornisce le risorse per le attività istituzionali degli atenei (erogazione dell’offerta formativa, ricerca di base, la cosiddetta terza missione e le retribuzioni del personale). Il Ffo copre infatti oltre 2/3 delle entrate degli atenei: un cruciale 15% deriva dalla tassazione studentesca (in diversi atenei superando il limite del 20%, imponendo all’Università di Torino la restituzione di quasi 40 milioni di euro); la restante parte deriva da altri soggetti (in particolare progetti di ricerca europei e internazionali, conto terzi, finanziamenti da enti locali e fondazioni bancarie del territorio, scarsissimi contributi privati).

Questo cambio di passo è grave per l’università italiana. Si apre infatti una nuova fase di tagli e contrazioni che rischia di debilitare e scomporre il sistema universitario italiano. Il rischio è che si possano amplificare le divergenze tra territori e università, lasciando ulteriore spazio allo sviluppo alla giungla scarsamente regolata degli atenei profit e telematici.
Il governo ad oggi si è mostrato particolarmente generoso verso le telematiche che stanno determinato una competizione al ribasso nel sistema universitario. Le dimensioni che oggi hanno raggiunto gli atenei telematici, l’introduzione di modelli profit e la loro estensione anche agli atenei in presenza rischiano infatti di incidere progressivamente sulle strategie e le forme organizzative di tutte le università, da una parte introducendo nelle attuali condizioni di mercato o quasi-mercato soggetti che potrebbero esser spinti dal proprio scopo di profitto a derogare a livelli qualitativi minimi nella propria offerta, dall’altra innescando una spinta significativa a divaricare mission e offerte formative tra le diverse tipologie di ateneo, spezzando di fatto l’attuale impianto unitario dei titoli di studio. In questo contesto, anche in ambito accademico oltre che in quello politico, ci sembra mancare l’opportuna riflessione collettiva e istituzionale sulle dinamiche in corso, le loro conseguenze sistemiche e quindi la necessità di adottare provvedimenti urgenti.

Segnaliamo allora cinque fragilità che preoccupano nell’immediato: le possibili contraddizioni tra Funzione pubblica degli atenei e interessi profit, la Libertà didattica e di ricerca, la Qualità dei corsi di studio in relazione ai criteri di accreditamento e requisiti minimi, la Qualità degli studi e la legalità in relazione agli esami, le Lauree in ambito sanitario e per particolari professionalità. Su questi temi oltre ad una importante iniziativa della nostra organizzazione, occorre una azione politica volta ad arginare una deriva pericolosa nel sistema della formazione del nostro paese.
È in questo scenario, che il governo ha annunciato una revisione del pre ruolo ma con la finalità di moltiplicare le figure precarie e di mettere in campo un intervento complessivo per radicalizzare gli assi portanti della legge 240 del 2010. Oltre a ciò sottolineo l’incognita Autonomia differenziata che riguarda indirettamente il sistema universitario e che in generale avrà come effetto una ulteriore frammentazione e un aumento delle disuguaglianze tra territori.

Ci attende allora una fase di impegno e di lotta a cui chiamiamo l’intera comunità universitaria, rivendicando un cambio complessivo di politica economica e sociale che non solo salvaguardi il sistema universitario nazionale, ma che lo rilanci come elemento fondamentale della coesione e dello sviluppo sociale del paese. La Flc Cgil farà la sua parte, come sempre dalla stessa parte: la parte dei diritti, della tutela delle istituzioni pubbliche di istruzione e di formazione, dalla parte della Costituzione.

L’autrice: Gianna Fracassi è segretaria generale Flc Cgil

Nella foto: Politecnico di Milano (GioRan)

Cosa suggeriscono le migliaia di firme per il referendum

In meno di due giorni sono state raccolte più del 30% delle firme necessarie per il referendum sull’autonomia differenziata, la disastrosa legge che vorrebbe legittimare l’atavica spaccatura del’Italia. 

Gli ultimi dati dicono che online sono state raccolte circa 130 mila firme, un numero impressionante che fa il paio con i tradizionali banchetti in giro per l’Italia allestiti da partiti e comitati. Un attivismo e una partecipazione in controtendenza con l’astensione protagonista delle ultime elezioni. 

Certamente la pessima legge voluta dal governo per cristallizzare e aumentare le disuguaglianze tra le regioni più ricche e quelle più povere è una spinta importante. La legge uscita dal Parlamento non piace ai presidenti di Regione che pur fanno parte di partiti della maggioranza di governo. L’esultanza della Lega che ha deciso di intestarsi l’autonomia come vessillo del vecchio sogno secessionista è una prova, più che un indizio. 

Vi sono però altri due dati di cui tenere conto. La mancata partecipazione dei cittadini alle elezioni è spesso figlia – come sottolineano gli analisti – di una disperanza diffusa. Gli elettori non credono che il loro voto possa modificare il flusso degli accadimenti. E quindi perché quelli poi corrono a firmare? Avanzo un’ipotesi: perché il fine di un referendum è chiaro, senza fronzoli, immediato nei risultati e non richiede un’adesione valoraliale a una comunità politica. Insomma, non è il meno peggio. È quella roba lì, definita, senza bisogno di mediazioni e compromessi. Questo è un avviso ai partiti. 

Poi c’è il successo della raccolta firme sulla piattaforma online a dirci per l’ennesima volta che le persone si mobilitano quando sono messe nelle condizioni di farlo e quando hanno la possibilità di scegliere. E questo è un avviso per la prossima legge elettorale di cui non parla nessuno ma è l’elefante nella stanza. 

Buon lunedì. 

Foto da pagina Fb Contro ogni autonomia differenziata

Autonomia differenziata, ora anche la piattaforma digitale. Ed è boom di firme

È partita finalmente il 26 luglio la piattaforma pubblica digitale per la raccolta delle firme per il referendum abrogativo dell’autonomia differenziata. Qui il link: https://referendumautonomiadifferenziata.com Da qui si entra nel sito del ministero della Giustizia dove compare la schermata Contro l’autonomia differenziata. Una firma per l’Italia unita, libera, giusta e si procede alla firma tramite Spid o Cie.

Dopo solo un giorno il sito registra un numero di cittadini che fa ben sperare rispetto all’obiettivo finale: 500mila firme da raccogliere entro settembre e da depositare in Corte di Cassazione. Mentre scriviamo, hanno firmato 90.289 persone, ovvero il 18,06 del quorum richiesto. E poi ci sono le migliaia di firme che da una settimana vengono raccolte dai banchetti dai vari soggetti che hanno promosso la battaglia contro la legge 86/2024 (legge Calderoli) e che il 5 luglio hanno presentato il quesito referendario alla Cassazione. Tra questi, ricordiamo, Pd, M5s, i Comitati No Ad (che da 6 anni sono attivi contro l’autonomia), + Europa, Cgil, e molti altri. Partiti, associazioni, sindacati uniti contro lo Spacca Italia.

La piattaforma digitale pubblica e gratuita rappresenta un passo avanti notevole e di per sé è una conquista per il nostro Paese. È infatti la prima volta che viene attivata ufficialmente dal governo, dopo un’attesa, va detto, di anni. Un atto dovuto, non una gentile concessione. «È un servizio pubblico ai cittadini a servizio dei propri diritti politici e della democrazia», ha detto Riccardo Magi di + Europa intervistato da Lanfranco Palazzolo. Magi, insieme a Marco Cappato e all’associazione Coscioni, si è molto attivato perché si arrivasse alla piattaforma digitale per legge. L’associazione Coscioni, ricordiamo, su una piattaforma privata, aveva raggiunto 500mila firma sulla legge sulla cannabis in una settimana. Con l’attivazione della piattaforma digitale si aprono nuovi scenari per la partecipazione dei cittadini ai referendum e alle iniziative popolari. Sarà uno strumento che farà bene alla democrazia.

Il quesito è semplice ed è ovviamente per l’abrogazione totale:
Quesito referendario:
1. Volete voi che sia abrogata la legge 26 giugno 2024, n. 86, “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione”?

Chi firma può scaricare l’attestato “Sottoscrizione acquisita tramite piattaforma www.firmereferendum.giustizia.it ai sensi e per gli effetti della
Legge 30 dicembre 2020, n. 178, art. 1, commi 341-344 e del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 9 settembre 2022 in data 26/07/2024”.

Prosegue la raccolta delle firme tramite i banchetti e gli autenticatori. Nella settimana che si sta per concludere, tutte le occasioni sono state buone, dalle “pastasciutte antifasciste”, in memoria dei fratelli Cervi in tutta Italia il 25 luglio, agli spettacoli, mercati ecc. A Napoli in modo particolare la partecipazione è stata notevole, a testimonianza di quanto la legge Calderoli venga vissuta come una minaccia per i diritti costituzionali come la salute e l’istruzione, che al Sud sono già erosi da tempo. I banchetti naturalmente sono anche un momento per “fare” vera politica, con un dialogo costante tra i volontari e gli attivisti e i cittadini che magari non sono informati e vogliono saperne di più. In questo, ovviamente, la socialità e lo scambio interpersonale non possono sostituirsi al digitale. Ma l’unione delle due modalità può essere molto, molto importante per dare un segnale a chi vorrebbe gli italiani divisi in tanti staterelli in competizione tra di loro, con il ritorno delle gabbie salariali o con la scuola che insegna lingua e tradizioni venete.

Nella pagina facebook di Contro ogni autonomia differenziata le iniziative nei territori.

L’articolo su Left di Giovanni Russo Spena “Le nostre firme contro l’attacco allo stato sociale”

Chi vuole approfondire il libro di Left (qui, dicembre 2023)

Identificarsi: due pesi e due misure. Per capovolgere la realtà

Da osservatore abituato per deformazione professionale a individuare nessi tra fenomeni, anche a distanza e per contrasto, la cronaca di questi giorni mi ha dato di che riflettere, e faccio riferimento all’intervento del presidente del Senato, La Russa, in occasione della cerimonia del ventaglio, e alle sue parole sull’aggressione ai danni di un giornalista, Andrea Joly, da parte di esponenti di CasaPound a Torino. Ho già avuto modo di esprimere la totale distanza rispetto agli esponenti di questa maggioranza, per le inappropriate parole di Giorgia Meloni davanti all’inchiesta di Fanpage su Gioventù nazionale. Non voglio tornare su questi aspetti ora, anche perché la risposta alle bizzarre perplessità della premier sulla liceità del giornalismo d’inchiesta è arrivata l’altro giorno dal Capo dello Stato. Vorrei notare invece un elemento di disturbo: secondo Ignazio La Russa il giornalista si deve dichiarare come tale, deve dunque essere identificabile (prossimo passo una targhetta alfanumerica?), non si sa se per rischiare di meno o di più, visti i soggetti con tendenze criminali di vario genere tra il movimento giovanile meloniano e CasaPound. Intanto, si ribadisce indirettamente l’idea che il giornalismo sotto copertura non sia cosa buona… Ma poi, lui è esponente di quella stessa parte politica che si oppone al numero identificativo per gli agenti delle forze dell’ordine (proprio in questi giorni la bocciatura di un emendamento di +Europa per introdurre questa misura nel ddl Sicurezza): certo la polizia svolge un compito nobile e importantissimo, ma ha visto alcuni suoi membri lasciarsi andare ad abusi se non addirittura a violenze, in passato come oggi: basta pensare agli scorsi mesi e agli interventi nelle manifestazioni di protesta per la pace, e mi ricordo in particolare di Pisa.
Ecco che chi esercita l’ordine per conto degli apparati dello Stato, e dovrebbe farlo (come naturalmente accade nella maggior parte dei casi) con giustizia ed equilibrio, non deve essere identificabile, e se esagera non bisogna farne una questione di Stato. Invece il privato cittadino che assolve al compito costituzionalmente fondante di informare gli altri deve dichiararsi, e anzi deve stare attento e limitare i suoi comportamenti, a tutela di presunte libertà altrui (la privacy delle associazioni politiche giovanili) o per evitare danni a se stesso dovuti a comportamenti ‘non attenti’, che potrebbero – secondo La Russa – risultare provocatori.

l’autore: Matteo Cazzato è dottore in filologia, Università di Trento

L’irresistibile felicità che regalano i versi di Patrizia Cavalli

«La poesia di Patrizia Cavalli si presenta come un variopinto teatro di passioni- scrive il critico Filippo La Porta – come un sapere antropologico in musica, come una “commedia umana” che racconta meglio di tanti romanzi la contemporaneità». L’occasione per parlare con lui della poesia di Patrizia Cavalli è l’uscita per Einaudi della scelta di versi essenziale Il mio felice niente (1974 -2020) a cura di Emanuele Dattilo, ma anche la mostra che le dedica il Macro di Roma fino al 25 agosto.

Quella di Patrizia Cavalli è «poesia felicemente inclassificabile – approfondisce La Porta -. priva di modelli riconoscibili, diaristica, di aforistica densità riflessiva, di settecentesca grazia, incline alla messinscena. Una poesia ragionante e non “ragionevole”, perché sempre rovescia il senso comune». Come lei stessa ci ricorda: «Non sono nata per essere ragionevole…sono nata per essere felice».  Potremmo dire, approfondisce il critico e musicista che il suo è «Pensiero emotivo in versi (da tutti fruibili) entro una tradizione italiana in cui “ragionare” – notava Cardarelli – è sinonimo di “poetare”. Ha raccontato in versi di straordinaria cantabilità luoghi, case, amici, soldi, destino, piaceri e dispiaceri, amore e morte, intrecciando profondità “filosofica”, levità di tocco e apparente svogliatezza». Di tutto questo troviamo eco nella mostra Il sospetto del paradiso curata da Luca Lo Pinto, che ci invita a riscoprire il percorso di questa figura cardine della poesia del Secondo Novecento. Nata a Todi, in Umbria, nel 1947, arrivò a Roma a 21 anni. Durante gli studi di filosofia conobbe Elsa Morante, che scoprì in lei la vocazione per la poesia e dalla cui frequentazione sarebbe nata la sua prima raccolta, Le mie poesie non cambieranno il mondo (1974, a cui Annelana Benini dedicò un cortometraggio edito da Fandango). L’ultima, Vita meravigliosa sarebbe stata pubblicata nel 2020 da Einaudi.
Le poesie di Cavalli piacciono a tutti perché sono brevi, semplici, immediate, accessibili, parlano una lingua quotidiana, pur nascondendo metriche classiche e una tecnica poetica raffinata. Le ultime letture di Cavalli all’Auditorium di Roma (alcune si possono trovare su YouTube), erano gremite di gente che andava a sentirla leggere. In queste occasioni affiorava il romano evitato da Cavalli nella composizione poetica (“so’ rimbambita”; “ero ‘mbriaca”).
«Salivo così bene le scale / possibile che io debba morire? Ma adesso / che cazzo vuole da me questo / dolore al petto quasi al centro! Che faccio, muoio? / O resto e mi lamento?» (Datura, 2013).
Il percorso espositivo proposto dal Macro, che resta aperto al pubblico fino al 25 agosto, attraverso oltre 200 fotografie scattate da Lorenzo Castore, ricostruisce la storia della celebre casa di Via del Biscione, vicino a Campo de’ Fiori, importante luogo di incontro culturale della capitale dove Cavalli trascorse quasi 50 anni.
Le fotografie esposte sono state scattate nell’arco di una settimana, due mesi dopo la sua morte nel 2022, a 75 anni. Nell’ultima fase della sua vita, le cure per il cancro le avevano tolto le energie. Cavalli aveva dichiarato dolorosamente di non provare più amore da anni.
A documentare gli interni disabitati della casa, nel percorso espositivo, una selezione di scatti in bianco e nero e a colori, i cui protagonisti sono oggetti, ritratti, manoscritti, mobili, opere di amici artisti, conservati dalla poeta nel corso della sua vita.
La fotografia materica di Castore restituisce certamente il mondo domestico della poesia di Cavalli, fatto di odori, lenzuola, tovaglioli, gatti, sguardi, supplì.
Ma il percorso del Macro prevede anche una selezione di manoscritti e dattiloscritti, che rivelano la raffinata tecnica, caratterizzata da strutture metriche classiche e un lessico d’uso quotidiano. Viene mostrato e approfondito il processo poetico: dall’annotazione, alla costruzione, alla limatura. La mostra restituisce la ricerca metrica, stilistica e musicale di Cavalli. Una teca espone inoltre 105 ritagli di carta con annotate le liste della spesa e i pensieri della poeta.
L’esposizione propone anche i progetti editoriali a cui prese parte Cavalli; tra questi le collaborazioni con artisti visivi e gli scritti sull’arte. Nella mostra sono presenti infatti saggi per cataloghi di mostre, poesie o opere di prosa dedicate ad artisti, contributi autoriali e pubblicazioni nate da amicizie e conoscenze.
La proiezione del video di Gianni Barcelloni dalla serie “Il navigatore. Ritratti di scrittori”, permette inoltre di osservare Patrizia Cavalli mentre legge le sue poesie attraversando la casa romana e ci restituisce la poeta attraverso il dialogo con il regista: la sentiamo riflettere sulla noia, l’amore, la morte, la felicità e l’infelicità.
Su Cavalli c’è anche il documentario “Le mie poesie non cambieranno il mondo”, presentato in anteprima all’ottantesima Mostra del Cinema di Venezia, diretto da Annalena Benini e Francesco Piccolo e dedicato al racconto dell’ultimo tratto della sua vita.
Nel film riaffiora una provincia umbra odiata e “orribile”, da cui la poeta voleva fuggire il prima possibile, e un’euforia verso il gioco d’azzardo che rimane intatta nel racconto della sua incontrollata passione per il poker. A questo, nonostante le gravi perdite, si sarebbe dedicata fino al disgusto: perché stando alle sue parole “l’unico denaro degno di essere posseduto è quello vinto per sorte o regalato” mai quello sudato.
Quando le domande si fanno generiche o intrusive la poeta non si fa problemi a maltrattare i registi. Il documentario, alternando immagini del passato più o meno recente, ci mostra come effettivamente, nel corso del tempo, Patrizia Cavalli fosse cambiata ben poco e rimasta sempre fedele a se stessa, con la sua simpatia, il suo carattere spigoloso e pungente, e il suo immancabile caschetto, anche se rado e indebolito dalla malattia.
Nel film seguiamo Cavalli nelle stanze della casa che ci viene raccontata dalla mostra del Macro “Il sospetto del paradiso”, dove torniamo a vivere la sua poesia attraverso, gli oggetti, le immagini e i ricordi.

Stizza di Stato

La ministra al Turismo Daniela Santanchè contro il New York Times. Già scritta così la diatriba risulta imbarazzante. Che questa maggioranza, Fratelli d’Italia in testa, abbia dei seri problemi nel confrontarsi con i giornalisti è storia nota. 

Dell’idiosincrasia per il giornalismo del governo ne hanno scritto a Bruxelles quelli della Commissione europea, la denunciano le organizzazioni internazionali che si occupano di libertà di stampa e perfino il quieto Mattarella ha dovuto intervenire nel tentativo di raddrizzare la rotta e la credibilità nazionale. 

La ministra rinviata a giudizio per falso in bilancio e per truffa all’Inps ha messo nel mirino il quotidiano Usa per avere scritto ciò che è sotto gli occhi di tutti: la situazione siccità al Sud peggiora di giorno in giorno e la crisi è sempre più drammatica. In Sicilia solo il 17,31 per cento degli interventi per l’emergenza idrica in Sicilia è stato completato. 

Per Santanchè scrivere la verità “inaridisce il turismo” e procurerebbe un danno d’immagine. La ministra del resto ha una singolare idea del turismo basato sul marketing sfrenato, perfino bugiardo e truffaldino se serve per fare cassa. In questa visione distorta i giornalisti dovrebbero limitarsi a fare da cassa di risonanza della comunicazione utile, una sorta di pro loco diffusa al servizio dei desiderata del potere. 

Così ancora una volta l’attenzione si sposta dall’atavico problema della reta idrica al Sud – che non è certo responsabilità solo di questo governo – all’imbarazzo internazionale per le reazioni della classe dirigente politica nazionale. Contenti loro. 

Buon venerdì. 

Bye Bye Bibi, Bye Bye

Egregio primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, Tra pochi minuti entrerà nel nostro Congresso degli Stati Uniti per tenere un raro discorso di un leader straniero davanti a una sessione congiunta di senatori e membri della nostra Camera dei rappresentanti. Avvicinandosi al podio, potrebbe notare che la presidente del Senato non sarà seduto lì sopra di lei a presiedere, come da tradizione, la Camera. Questo perché la presidente del Senato è la vicepresidente Kamala Harris. Ha deciso di non partecipare. È estremamente raro che il presidente del Senato salti un grande evento come questo. Non sarà lì per applaudirla o stare con lei. Ha deciso invece di trascorrere la giornata a Indianapolis… In uno dei segreti peggio custoditi a Washington, Kamala Harris da mesi esorta silenziosamente il presidente Biden a porre fine alla sua guerra contro il popolo di Gaza. Biden ha finanziato questa guerra per lei e le ha fornito le sue armi di morte. E con quelle ha ucciso oltre 40mila civili innocenti che non avevano nulla a che fare con il massacro aberrante del 7 ottobre.

Harris è stata la voce della pace all’interno dell’amministrazione, chiedendo un cessate il fuoco e la fine dell’assalto alla popolazione civile di Gaza. Ha anche spinto per fornire ai palestinesi tutti gli aiuti umanitari di cui hanno bisogno immediatamente. Ma nulla è accaduto in oltre 9 mesi. La pioggia di morte continua ogni giorno. È in corso uno sterminio per fame. E gli addetti ai lavori del Partito democratico sanno fin troppo bene come questo abbia fatto calare i numeri nei sondaggi riguardo a Biden e abbia virtualmente garantito la perdita del Michigan a favore di Trump. Un articolo sul New Republic di oggi avverte che se Harris sceglie il governatore pro-guerra della Pennsylvania Josh Shapiro come suo vice, ciò potrebbe far affondare le sue possibilità elettorali, specialmente con i giovani elettori e la vasta ala progressista del partito. Questo dimostra quanto lei è tossico, signor Netanyahu: abbracciare il presidente Biden non gli ha portato alcun vantaggio… Caro Bibi, lei ha le mani insanguinate, lei è il criminale accusato di corruzione, frode e abuso di fiducia. Lei è il Trump di Israele, con il sangue incrostato sul viso, lei è il finanziatore di Hamas – sappiamo dei miliardi di dollari che gli ha fatto arrivare per seminare il caos che le avrebbe permesso di fare una pulizia etnica che ora lei sta attuando con gioia, immerso fino alle ginocchia nel sangue dei bambini che ha massacrato. Come osa entrare oggi nella nostra sacra Sala della democrazia, pulendosi le mani su politiche bipartisan che hanno finanziato la sua carneficina armandola fino ai denti. Si delizia al pensiero del numero di palestinesi morti che cresce ogni giorno – «animali» li ha chiamati il suo ministro della Difesa, Gallant – non c’è da meravigliarsi se molti del suo stesso popolo la disprezzano e vogliono vederla dietro le sbarre – lei, ironicamente, il carceriere di 2,3 milioni di abitanti di Gaza che li ha torturati e tenuti sofferenti in una prigione a cielo aperto per 17 anni. LEI, che la storia giudicherà come il distruttore di Israele, il vero nemico del popolo ebraico che amiamo così tanto, una religione che non vede nessun essere umano come un “animale” ma piuttosto come un dono di Dio. LEI che ha richiamato le forze di riserva dal confine con Gaza nei giorni prima del massacro del 7 ottobre, sapendo benissimo cosa sarebbe successo. LEI che ha sempre odiato i suoi stessi ebrei che vivono in quei kibbutz perché votano sempre contro di lei e il suo partito, perché molti di loro sono socialisti, pacifisti, atei, ex hippie, organizzatori di festival musicali all’aperto, marciando per le strade contro i suoi tentativi di distruggere il sistema giudiziario israeliano – sì, la disprezzano, e così come ogni buon autocrate o fascista, ha tolto loro la protezione e li ha lasciati al massacro. Costretti a nascondersi nelle “stanze sicure” delle loro case per 14 ore sperando che arrivassero i Cavalieri a salvarli, ma pochi lo hanno fatto, grazie a lei. Sono stati sacrificati sul suo altare del crimine e del razzismo – e le loro morti le avrebbero permesso di nascondere il suo imminente processo criminale, di formare il suo proprio consiglio di guerra, di giustificare la fame di milioni, di tagliare la loro acqua, di bombardare le loro case, i corpi decapitati, bambini senza arti, anziani e poveri offerti come un genocidio necessario in nome dell’odio, dell’avidità e della Grande Menzogna contenuta in un antico libro in cui è scritto che questa terra le era stata data da Dio! ….

Bibi, lei non appartiene al nostro sacro spazio della Democrazia oggi. Anche se, si potrebbe argomentare, che è venuto proprio nel posto giusto, poiché noi, una nazione fondata sul genocidio e costruita sulle spalle di esseri umani schiavizzati, una nazione di apartheid che si dichiarava una Democrazia ma non permetteva a un solo membro della maggioranza della popolazione – donne, persone di colore, indigeni, quelli che non possedevano proprietà perché erano donne, di colore, qui prima e poveri – e quindi non erano autorizzati a votare o partecipare nell’apartheid, il patriarcato cristiano bianco che governava tutto lo spettacolo americano. Non c’è da meravigliarsi se siamo il modello perfetto per la sua teocrazia segregata e brutale che si spaccia per una vera democrazia – proprio come non abbiamo mai veramente raggiunto la nostra piena e completa democrazia in 248 anni…

Ovviamente le abbiamo steso il tappeto rosso oggi! Benvenuto a casa, Bibi di Brooklyn! Ma non pensi troppo in fretta che i nostri leader la amino veramente. La sua nazione è stata istituita dai predecessori di questo Congresso per essere il nostro stato fantoccio in Medio Oriente, così potevamo tenere d’occhio la nostra sostanza preferita – il petrolio! E per favore ricordi che sta parlando nella Camera  di un Paese che ha rifiutato di lasciare attraccare le navi cariche di rifugiati ebrei in fuga dalla Germania nazista negli anni Trenta in qualsiasi città degli Stati Uniti, rimandando così migliaia di ebrei disperati alla loro morte in Europa. Lo stesso Paese che si è rifiutato di bombardare le linee ferroviarie tedesche che conducevano ai campi di concentramento (il che avrebbe salvato molte migliaia di vite). Lo stesso Paese che era pieno di stabilimenti che affiggevano cartelli che dicevano “No Ebrei. No N—–s. No Irlandesi.”

Ma la maggior parte degli americani non la pensava così. Furono gli organizzatori sindacali ebrei di New York che ci aiutarono a creare il sindacato United Auto Workers a Flint – lo stesso sindacato che questa settimana ha condannato ufficialmente la sua presenza nel nostro Congresso. La maggior parte degli americani è grata ai nostri fratelli e sorelle ebrei che hanno contribuito a guidare i nostri movimenti per i diritti civili, femministi e dei diritti gay. E sappiamo che l’America non sarebbe l’America senza Steven Spielberg, Gloria Steinem, Bob Dylan, Arthur Miller, Judy Blume, Lillian Hellman, Jonas Salk, i fratelli Coen, i fratelli Warner, i fratelli Marx, Barbra Streisand, Albert Einstein, Emma Goldman, e così via. Bibi, ha attaccato i suoi critici qui accusandoli di antisemitismo. Ancora una volta, ricordi – lei è l’antisemita”

 

Qui il testo integrale della lettera aperta di Michael Moore

Il criminale di guerra Benjamin Netanyahu al Congresso Usa

Se si dovesse tradurre l’intervento del criminale di guerra Benjamin Netanyahu al Congresso Usa in un’immagine si potrebbe partire dai familiari degli ostaggi israeliani che indossavano magliette con la scritta “Accordo subito” e sono stati allontanati dalla polizia per non disturbare. 

Nella retorica di Bibi gli ostaggi, così come le vittime del 7 ottobre del 2023, sono crudelmente la leva per incassare più armi e per garantirsi più stabilità politica. Un capo di Stato che si porta sulle spalle l’uccisione di 37 mila persone di cui un terzo sono bambini non ha il vocabolario cardiaco per empatizzare con gli essere umani, che siano “suoi” o che appartengano ai “nemici”. 

Se si dovesse tradurre l’intervento del criminale di guerra Benjamin Netanyahu si potrebbero prendere in prestito le parole dell’ex presidente della Camera Usa Nancy Pelosi – che non è certo Sanders – quando dice “di gran lunga il peggior intervento di qualsiasi dignitario straniero invitato e onorato del privilegio di rivolgersi al Congresso degli Stati Uniti”. 

Si potrebbe sottolineare che tra gli assenti alla ridda di applausi per il criminale di guerra c’era quella Kamala Harris che una parte di mondo vede come salvezza democratica del mondo occidentale. Si potrebbero sottolineare che a non presentarsi sono stati 80 deputati democratici e almeno sei senatori democratici. 

Per dare una cifra del senso del diritto di Netanyahu si potrebbe citare quel patetico passaggio del suo discorso in cui accusa la Corte penale internazionale (Cpi) di “voler mettere le mani su Israele”. Proprio lui che sogna di scippare la Palestina tenendone la popolazione sotto il tacco. 

Se si dovesse tradurre la cifra politica del criminale di guerra Benjamin Netanyahu al Congresso Usa si potrebbe scrivere che il capo di Israele ha colto l’occasione per soffiare sulla candidatura di Donald Trump. 

Il resto – la propaganda e la retorica – la potete leggere invece negli altri quotidiani in giro. 

Buon giovedì.  

Nella foto: frame del video sulle proteste di migliaia di manifestanti davanti al Campidoglio