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Il criminale di guerra Benjamin Netanyahu al Congresso Usa

Se si dovesse tradurre l’intervento del criminale di guerra Benjamin Netanyahu al Congresso Usa in un’immagine si potrebbe partire dai familiari degli ostaggi israeliani che indossavano magliette con la scritta “Accordo subito” e sono stati allontanati dalla polizia per non disturbare. 

Nella retorica di Bibi gli ostaggi, così come le vittime del 7 ottobre del 2023, sono crudelmente la leva per incassare più armi e per garantirsi più stabilità politica. Un capo di Stato che si porta sulle spalle l’uccisione di 37 mila persone di cui un terzo sono bambini non ha il vocabolario cardiaco per empatizzare con gli essere umani, che siano “suoi” o che appartengano ai “nemici”. 

Se si dovesse tradurre l’intervento del criminale di guerra Benjamin Netanyahu si potrebbero prendere in prestito le parole dell’ex presidente della Camera Usa Nancy Pelosi – che non è certo Sanders – quando dice “di gran lunga il peggior intervento di qualsiasi dignitario straniero invitato e onorato del privilegio di rivolgersi al Congresso degli Stati Uniti”. 

Si potrebbe sottolineare che tra gli assenti alla ridda di applausi per il criminale di guerra c’era quella Kamala Harris che una parte di mondo vede come salvezza democratica del mondo occidentale. Si potrebbero sottolineare che a non presentarsi sono stati 80 deputati democratici e almeno sei senatori democratici. 

Per dare una cifra del senso del diritto di Netanyahu si potrebbe citare quel patetico passaggio del suo discorso in cui accusa la Corte penale internazionale (Cpi) di “voler mettere le mani su Israele”. Proprio lui che sogna di scippare la Palestina tenendone la popolazione sotto il tacco. 

Se si dovesse tradurre la cifra politica del criminale di guerra Benjamin Netanyahu al Congresso Usa si potrebbe scrivere che il capo di Israele ha colto l’occasione per soffiare sulla candidatura di Donald Trump. 

Il resto – la propaganda e la retorica – la potete leggere invece negli altri quotidiani in giro. 

Buon giovedì.  

Nella foto: frame del video sulle proteste di migliaia di manifestanti davanti al Campidoglio

Storia a fumetti dell’editore che voleva cambiare il mondo

È stata forse l’intenzione di comunicare ai più giovani la storia di un periodo bruciante, pieno di eventi e trasformazioni sociali, che ha spinto due giovani sceneggiatori-autori e un famoso disegnatore tutti e tre di nazionalità spagnola, nella difficile creazione del graphic novel Feltrinelli , sottotitolo “ l’editore che voleva cambiare il mondo”. Usando un tipo di illustrazione vicina al fumetto d’autore, gli sceneggiatori Guillermo Gracia e Aitor Iturrita, con i magnifici disegni di Nacho Nava, hanno provato a ricostruire le imprese che hanno visto l’editore presente in fatti politici così importanti per il nostro Paese, e non solo. Pubblicati in Spagna da Altamura Ediciones, i testi sono stati tradotti ed editi dalla Pendragon editore di Bologna in un elegante formato bianco e nero di circa 200 pagine. Spicca il tratto pittorico di Nacho Nava, erede del disegnatore argentino Josè Munroz, allievo di Pratt, di cui ha conservato e trasmesso l’inchiostrazione marcata e la fantasia nella rappresentazione emotiva. Giangiacomo Feltrinelli viene narrato in prima persona, con una struttura circolare che ricorda Sunset boulevard,il film di Billy Wilder del 1950, da noi meglio noto come Viale del tramonto, in cui la voce della vittima ci racconta la sua vita fino al tragico finale. Nella vicenda si respirano la tensione e l’inquietudine, caratteristiche fondamentali dell’uomo, del grande editore, del “rivoluzionario” che «voleva cambiare il mondo» costruendo un documento tradotto in un racconto per immagini. Si va dalla creazione della grande casa editrice, alla diffusione dei romanzi “tascabili”, quelli che traghettavano la “cultura” alla gente meno abituata a leggere, facendo assumere ai libri un aspetto familiare. Questa visione portò alla pubblicazione delle Storie del movimento operaio, alla diffusione assai controversa del Dottor Zivago avversata da Togliatti, che segnò la rottura tra la Feltrinelli e il Pci; era il’57. L’intuizione dei successi come Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, a quel tempo ancora poco noto al grande pubblico, del Buio oltre la siepe di Harper Lee, dell’epico Cent’anni di solitudine di Marquez, ma anche, nel’58, degli Scritti politici di Imre Nagy, primo ministro in Ungheria, che nel 1956, si dimise protestando contro l’invasione dei carri armati russi. Vitale e inquietissimo, sempre in viaggi somiglianti ad una fuga, quasi da se stesso; le quattro donne entrate nella sua esistenza come compagne e sostenitrici, due le mogli effettive, Inge Schontal che ha condotto egregiamente per anni casa editrice ereditandone l’onere e gli onori, e Sibilla Melega, compagna di viaggi,di manifestazioni, vicina a lui nei quasi due anni di isolamento, messo in atto dal 1969 ,poco prima della strage di piazza Fontana, rifugiato in una delle sue lussuose abitazioni, in Austria.Questo è uno degli aspetti più imputati al personaggio Feltrinelli, la dicotomia tra l’appartenenza ad una delle famiglie imprenditoriali più ricche del nostro Paese e la tensione verso gli ultimi, le classi operaie che volevano lottare per il cambiamento. Ma, come dice Guillermo Gracia, uno degli sceneggiatori, «non ci interessava questa vecchia polemica sul ricco eccentrico che “giocava” a fare la rivoluzione, poiché nessuno sa cosa lo spingesse davvero. Piuttosto volevamo sottolineare il non riconoscimento di quanto la sua attività editoriale abbia cambiato e modernizzato la società italiana in un momento chiave come quello vissuto tra gli anni Sessanta e i Settanta. Un susseguirsi vertiginoso di avvenimenti i viaggi in Bolivia, per la pubblicazione degli scritti di Che Guevara, l’amicizia con Fidel Castro, la difesa dell’intellettuale e regista francese Regis Debray, accusato di aver tradito Guevara, e di averne causato la morte, i rapporti con Rudy Dutschke,i l leader del movimento studentesco berlinese, il dialogo con Israele, la pubblicazione degli scritti di Lin Piao, i diari dei Tupamaros. Tormentato e mai vinto, era convinto che la destra in Italia stesse preparando un colpo di Stato, e di esser seguito dai servizi segreti, specie dalla Cia, perché conosceva bene le attività di Gladio, l’organizzazione anticomunista che l’America aveva fondato in Europa. Una storia “ambiziosa” come dicono gli autori, che rispecchia il carattere dell’editore, uomo di ambizione smodata, come dice Aitor Iturriza, dovuto ad una «insoddisfazione vitale», aggiunge il disegnatore Nacho Nava.
Di Feltrinelli, della sua morte, liquidata come come imprudenza suicida o definita assassinio di Stato si sono occupati storici e giornalisti, non ultimo Ferruccio Pinotti che, nel suo Untold ( ciò che non è mai stato detto),uscito due anni fa per Round Robin scriveva: «quello della sua vita è un racconto che attraversa mezzo secolo, nel quale compaiono il Mossad, il Kgb, la Cia, il Sid. E di cui non sappiamo ancora tutto». Trascinato da una sincera passione politica, stretto fra forze probabilmente ingovernabili, che tuttavia voleva combattere.
Alle 15,30 di mercoledì 15 marzo 1972 sotto il pilone 71 della Azienda Elettrica Milanese, ai bordi di Segrate, viene rinvenuto il cadavere di Giangiacomo Feltrinelli, dilaniato da una bomba di fabbricazione rudimentale esplosa durante un attentato dimostrativo. Nella tasca del suo giubbotto aveva le foto della moglie Sibilla e del figlio Carlo.

Autonomia differenziata, le nostre firme contro l’attacco allo Stato sociale

È partita la raccolta delle firme per il referendum abrogativo della legge 86/24 (legge Calderoli) sull’autonomia regionale differenziata. I primi giorni sono stati entusiasmanti, con medie altissime di firme raccolte ai banchetti. È già apparsa molto positiva la collaborazione, che è andata anche oltre il mero raccordo politico, creata tra forze politiche di opposizione, parlamentari e non, insieme ad un vasto cartello di forze sociali, sindacali, costituzionali, giuridiche e, soprattutto, a decine e decine di forze del vasto mosaico che compone la partecipazione, l’autogestione, e la cooperazione, ovvero la rete e i valori della nostra Costituzione. Left ha sempre accompagnato e accompagnerà questo percorso che vede, finalmente, la politica vera irrompere nella vita quotidiana.

Stiamo costruendo spazi unitari dotati di una identità costituzionale e, insieme, che risponde alla richiesta di diritti delle classi sociali e del Mezzogiorno. Credo che l’opera di comunicazione debba essere incentrata su due assi fondamentali, che si intrecciano, proprio perché l’autonomia differenziata non è un espediente amministrativo, ma riguarda le vite e le condizioni materiali di quello che si potrebbe chiamare “proletariato allargato”.

il primo è evidenziare l’eversione costituzionale, il radicale revisionismo postfascista che ha l’intento di abbattere la Costituzione nata dalla Resistenza per costruire un altro modello di Stato e di società della disciplina e del controllo. Il secondo è far comprendere il collegamento dell’autonomia differenziata all’attacco frontale allo Stato sociale, alla pervasiva privatizzazione dei servizi, alla dilatazione delle disuguaglianze (al Sud, ovviamente, ma anche al Nord).

Ai banchetti, dovremo illustrare alle persone cosa accadrà nella sanità, distruggendo il servizio sanitario pubblico, nella scuola pubblica repubblicana, che è fondamento del sapere critico nazionale; cosa accadrà nel mercato del lavoro, con un attacco definitivo al contratto nazionale, con la legalizzazione del precariato, delle gabbie salariali. E poi ancora: cosa accadrà all’ambiente, con il capitale che diventa sempre più predatore di suolo, costruendo gigantesche infrastrutture, spesso inutili e dannose. Penso al Tav, al ponte sullo Stretto, agli hub energetici carboniferi e metaniferi che saranno il destino di piattaforma di transito del Mezzogiorno.

Il tema della nostra campagna è diretto: “Opporsi alla secessione dei ricchi, alla controriforma meloniana e ricostruire i diritti costituzionali distrutti”. Le migliaia di firme ogni giorno ai banchetti sono importanti anche politicamente, perché fanno percepire anche a Fratelli d’Italia, a Forza Italia il rischio di perdere consensi. Un’Italia a pezzi, frantumata in venti staterelli, feudi autarchici, non dovrebbe piacere nemmeno alle forze nazionaliste. Tra l’altro l’entusiasmo ai banchetti serve anche a rallentare i passi successivi delle intese tra singole regioni e governo, senza le quali la legge Calderoli non produrrà nessun effetto.

Credo che dovremo accogliere la raccomandazione dell’economista Gianfranco Viesti, uno dei massimi esperti che ha individuato, molti anni fa, il progetto leghista come “secessione dei ricchi“. Viesti ci ammonisce: «Appare opportuno che la raccolta delle firme si distingua chiaramente dalle posizioni regionali, che presentano anche quesiti referendari di abrogazione parziale. Dovremo procedere su un solo quesito, di abrogazione totale della legge Calderoli. Soprattutto confrontandosi con i cittadini su una posizione politica chiara, nettamente contraria alla secessione dei ricchi».

Nella foto: banchetti Anpi di San Lorenzo, Roma, 22 luglio 2024

Info raccolta firme in Italia qui

Per approfondire, il libro di Left di dicembre 2023, si può acquistare qui

Che ne dice La Russa, fa ridere anche così?

Sono convinto che in cuor suo Ignazio Maria Benito La Russa sia convinto di essere un politico brillante. La seconda carica dello Stato ha coniato la figura retorica del larussismo che consiste nell’esprimere solidarietà canzonando le vittime. Anche ieri La Russa probabilmente si è addormentato sornione pensando di essere riuscito a esprimere contemporaneamente la dovuta solidarietà al giornalista de La Stampa Andrea Joly e l’interessata simpatia verso i fascisti che l’hanno pestato. 

Le regole lessicale del larussismo ci sono tutte. Si comincia dal “condanna totale” a cui si aggiunge sempre un “ma”. Poi La Russa indossa la maschera del busto di Mussolini per aggiungere che non crede che «il giornalista passasse lì per caso» per poi aggiungere che ha «letto» che «non si è dichiarato giornalista». 

Usiamo la sua stessa figura retorica al contrario. Nel centro di Torino dei fascisti fuorilegge hanno occupato la strada con una festa non autorizzata sparando fumogeni mentre intonavano canzoni dedicate a Mussolini. Un cittadino – fingiamo che non sia un giornalista – è rimasto colpito dalla decadenza del Paese in cui vive e ha voluto raccogliere prove di un reato che si consumava in mezzo alla strada. 

I manigoldi, come al solito vigliacchi, gli hanno intimato di cancellare le foto del loro crimine in pubblico assalendolo per le vie della città, a dimostrazione degli effetti dell’invasione di clandestini della Costituzione che per colpa di un governo incapace di chiudere i porti e i tombini ai fascisti di ritorno. La seconda carica dello Stato se l’è presa con il cittadino per nascondere le responsabilità morali del governo di cui fa parte. 

Che ne dice La Russa, fa ridere anche così?

Buon mercoledì. 

Riccardo Alcaro (Iai): «Kamala Harris è in prima linea nel difendere il diritto all’aborto. E sarà un tema cruciale»

It’s Kamala time. Dopo la rinuncia di Joe Biden alla corsa per le presidenziali di novembre, è arrivato il suo endorsement per la sua vice. E a cascata quello di  governatori e astri nascenti come Newsom e Withmer.  Rappresentano una reale investitura per Kamala Harris? Qualcuno malevolo ha insinuato che sono il bacio della morte. Quali potranno essere i prossimi sviluppi? Lo abbiamo chiesto a Riccardo Alcaro, coordinatore delle ricerche e responsabile del programma “Attori globali” dello Iai.

«L’endorsement di Biden era già di per sé sufficiente a fare di Kamala Harris la prossima candidata presidenziale per i Democratici. Dopotutto è la candidata naturale alla successione, dal momento che Biden l’aveva confermata come nomina vice-presidenziale anche per quest’anno (e quindi è indirettamente legittimata dal voto delle primarie che Biden aveva vinto)», risponde Alcaro.

Quali sono i vantaggi di cui Kamala Harris dispone per la campagna elettorale?

Per esempio può avere immediato accesso alle finanze della campagna elettorale, un fattore decisivo visto che all’elezione non manca molto. E rappresenta una novità assicurando allo stesso tempo continuità con l’agenda di Biden, che è la cosa che preme di più al presidente. Gli endorsement che sono seguiti da parte dei vari governatori democratici considerati potenziali papabili – da Gavin Newsom (California) a Gretchen Whitmer (Michigan) a Josh Shapiro (Pennsylvania) – sono la naturale conseguenza di queste premesse. Senza considerare che la percezione di voler estromettere una donna nera dalla corsa presidenziale avrebbe comportato costi potenzialmente alti per chiunque. Infine, la priorità dei Democratici resta dopotutto quella di sconfiggere Trump e il Repubblicanesimo MAGA, e per farlo non sono evidentemente disposti a correre il rischio di una convention aperta che avrebbe mostrato le loro divisioni. Tutt’altro che bacio della morte, direi che gli endorsement per Harris certificano la candidatura più solida a disposizione dei Democratici oggi.

Sulla questione dell’aborto Kamala Harris potrebbe fare una battaglia che le valga il voto femminile, denunciando la scellerata cancellazione del diritto delle donne a livello federale?

Assolutamente sì. Anzi, bisogna dire che già lo sta facendo da tempo. Da quando la Corte Suprema nel giugno 2022 ha annullato 50 anni di precedenti e negato che l’aborto sia un diritto protetto dalla Costituzione, Kamala Harris è stata in prima linea nel difendere il diritto all’aborto, ed è anzi la questione su cui è stata più efficace. L’aborto è uno dei temi centrali di quest’elezione e Harris continuerà a insistervi fino allo sfinimento.

Harris come si pone rispetto a quel che sta accadendo a Gaza? Potrebbe recuperare una parte dei voti perduti da Biden, contestato dagli studenti nei campus, che in larga parte sono anche di origini ebraiche e dicono due volte “not in my name”?

Harris è stata la prima dell’Amministrazione Biden a invocare apertamente un cessate il fuoco a Gaza, e ha fatto in modo di non essere a Washington per presiedere il Senato il giorno dell’appello di Netanyahu al Congresso. Detto questo, la critica aperta a Israele resta un campo minato per i politici Usa e Harris non vorrà esporsi troppo sull’argomento in campagna elettorale. Senza contare che fino a gennaio la politica estera resta nelle mani di Biden.

Il passato da procuratrice di Harris, all’insegna di legge e ordine, e le sue non felicissime uscite riguardo agli immigrati ( “Non vi vogliamo negli Stati Uniti”) come la posizionano rispetto agli ispanici e alla comunità nera che, in particolare dopo l’uccisione di George Floyd, è scesa in piazza al grido Black lives matter?

Harris non è mai stata la candidata ideale dell’area progressista che ha posizioni più morbide sull’immigrazione, ma ci sono pochi dubbi che la stragrande maggioranza dei progressisti la sosterranno comunque in chiave anti-Trump. Non so dire se le posizioni di Harris sull’immigrazione possano avere un grande impatto sull’elettorato nero e ispanico, dal momento che anche in questi due gruppi la questione immigrazione è un tema controverso. L’opposizione all’immigrazione non è limitata all’elettorato bianco.

Pur fra mille contraddizioni Biden, da vecchio democratico, è stato al fianco dei sindacati e dei lavoratori, chi potrebbe proseguire su questa strada fra i democratici?

Tutti i maggiori sindacati hanno immediatamente spostato il loro sostegno da Biden a Harris. È lei quindi il loro riferimento in quanto rappresenta la continuità con Biden. È possibile che Harris scelga come suo vice un governatore dell’area del Midwest (Pennsylvania, Illinois o Michigan) o dell’Appalachia (Kentucky), e in questo caso si tratterà di qualcuno pro-sindacati.

Il comizio di Trump, dopo il suo tentato assassinio, è stato per una piccola parte  ecumenico e rassicurante, poi ha cominciato a parlare a braccio, con la sua retorica violenta e messianica, davanti a un partito repubblicano completamente trumpizzato. Quanta presa reale può avere questa sua narrativa sul Paese e su quali aree in particolare?

Trump ha innegabilmente una presa solidissima sull’elettorato conservatore, la maggior parte del quale si è convertito al tipo di conservatorismo populista, nativista, ipernazionalista e protezionista che l’ex presidente incarna. Per quanto grande, l’elettorato conservatore è lontano dall’essere la maggioranza assoluta tuttavia. Trump insisterà tantissimo su immigrazione, crimine e inflazione per allargare la sua base elettorale e vincere le elezioni.

Qual è il ruolo di quel furbacchione del suo vice, JD Vance, passato dal paragonare Trump a Hitler ad assumerne le idee più estreme? 

Trump in questo momento è favorito, sondaggi alla mano. Ma se la corsa si fa molto vicina Trump potrebbe scontare la scelta di JD Vance, che è una sua copia giovane e che è selezionato per dare continuità al progetto ideologico e programmatico del Repubblicanesimo MAGA invece che per aumentare l’appeal di Trump presso gruppi elettorali dove l’ex presidente non è particolarmente forte.

 

La letteratura palestinese che alimenta il nostro immaginario

Il ritmo incessante degli attacchi contro la striscia di Gaza e il popolo palestinese che continuano e si protraggono anche nonostante la storica sentenza dato dalla Corte Internazionale di Giustizia il 19 luglio scorso (e l’avvio dell’indagine sull’ipotesi di genocidio), ci catapulta drammaticamente nello sconforto sottraendo speranza ad un possibile “cessate il fuoco”. Tuttavia, nello sconcerto del presente e nell’amara incognita di un prossimo futuro, l’arma della letteratura ci restituisce quella sorta di resistenza per la quale è la memoria a farsi guida nei meandri di questo nostro tempo storico così tanto violento, buio e incerto. Con forza dirompente ma in continuità con un modo di esistere e di resistere, spazzando via ogni possibile dimenticanza, una antologia di testi a cura di autori palestinesi fa da contrappunto ad una realtà e ad una storia «invalidate dalla ideologia coloniale e razzista più potente mai esistita» che ha cancellato «attraverso una propaganda progettata ed eseguita nei minimi dettagli, la vita collettiva, le aspirazioni individuali, la terra e l’infanzia del popolo palestinese».
È la meritoria opera prima di Valeria Roma, Ignorare l’assenza. La letteratura palestinese nell’immaginario italiano (Meltemi Linee, 2024), corredata da una introduzione di Pietro Basso, che molto ha scritto di disuguaglianza e fondamenti sociali del razzismo. Sono temi delicati, ma non si può tacere su quel che si legge in filigrana dietro una certa ideologia sionista ma anche dietro una certa cultura italiana cattocomunista. Pensiamo per esempio a quando nel 1965, Pier Paolo Pasolini dirisse il film/documentario Sopralluoghi in Palestina per il Vangelo secondo Matteo «sfoggiando un repertorio concettuale di chiara matrice coloniale e velato di paternalismo», scrive Roma, in cui i palestinesi vengono ritratti tutti come sottoproletari o «contadini irrimediabilmente legati a modi di vita arcaici».

Per quanto la realtà sociale palestinese sia stata scompaginata e trasformata da un secolo di colonizzazione, espropriata non solo in termini territoriali ma anche di immagini e la quotidianità del presente sia punteggiata di «caserme, demolizioni, assassinii, pogrom, sofferenze, discriminazioni, pervase da un’ansia permanente che sconfina nell’angoscia, se non nella disperazione», il popolo palestinese continua a parlare di sé «a sé e al mondo intero, con la letteratura».

Brani di singole opere letterarie contemporanee, scelti a mo’ di preziose tessere musive vengono poste con cura in questo libro, facendo emergere l’unicità di quel mosaico umano che si erge a dimensione collettiva di un popolo, fatta di tradizioni culturali, di abituali e dignitose consuetudini, a testimonianza dell’esistenza di una quotidianità che è ancora desiderio di vita; creatività. Una sorta di racconto corale che aiuta a comprendere dove dimori e quale sia – oggi – la vera Palestina, grazie ad una letteratura che la rende viva, ponendola agli occhi del mondo come questione sociale e identità di popolo, ancor prima che nazionale.

La coperta, il pane, le penne di pavone, il baule, la bottiglia, i fazzoletti di seta, il caffè, il sapone, le chiavi … sono solo alcuni dei protagonisti dei racconti, segni identificativi di questo accurato percorso letterario. «Oggetti-chiave» scrive l’autrice «che puntellano l’analisi delle storie; segnavia, punti di riferimento simbolici nel percorso di ricostruzione della storia palestinese» dove «la frammentazione costituisce una cifra della ricerca. Ma chi scrive sa che questo è il prezzo da pagare per provare a stare in equilibrio nella complessità, cercando nuove soluzioni, formulando proposte impensate».
In questa raccolta si possono leggere scritti scelti di più autori di origine palestinese, immigrati in Italia che hanno adottato l’italiano come lingua originale di scrittura, o anche di autori di origine palestinese che hanno scritto nella propria lingua madre e sono stati tradotti poi in italiano.

Salwa Salem, oltre che essere voce autorevole della letteratura palestinese contemporanea, può di certo essere considerata una pietra miliare quando, nel 2009, pubblica Con il vento nei capelli per i tipi di Giunti editore. Il suo stile narrativo, dotato di rara profondità e bellezza, ripercorre gli eventi storici e le trasformazioni umane da essi provocate in terra palestinese e che l’autrice condensa sapientemente in immagini, idee e lotte da diffondere. Dalla strage del piccolo villaggio di Wadi al-Badàn del 1936 per mano degli occupanti inglesi, al massacro di Deir Yassin del 9 aprile 1948, uno degli avvenimenti storici più di altri scientemente occultato e oscurato, dove paramilitari sionisti violentarono ed uccisero oltre 250 civili palestinesi, in prevalenza donne, bambini e anziani. Il 1967 sarà poi l’anno della guerra dei sei giorni con la quale Israele, appoggiata e armata dal governo statunitense, occuperà totalmente la Cisgiordania e Gaza e i profughi palestinesi precedentemente fuggiti, perderanno il diritto di tornare nella loro terra. Scrittrice, insegnante, traduttrice nonché militante politica, le storie raccontante da Salwa Salem sono memorie preziose e, come tali, vanno difese con la scrittura per preservarle dall’oblio; «un tesoro da diffondere, e non da tenere chiuso e nascosto» in un baule.

Come anche scrive Murid Al-Barghuthi in Ho visto Ramallah (Ilisso,1997), fare poesia diventa quella imprescindibile risorsa che restituisce «il reale così brutalmente profanato. L’unica via per tornare ad essere da “figli dell’idea di Palestina” a “figli della Palestina”».
Ignorare l’assenza. La letteratura palestinese nell’immaginario italiano diventa così un prezioso strumento di conoscenza che contribuisce all’apertura di nuovi orizzonti, conferendo maggior valore ad una letteratura italiana che sceglie di restituire – anche se solo idealmente – qualcosa a chi, da lunghissimo tempo, ne è stato indebitamente privato.

Una metodologia di studio e di ricerca che vuole liberare la letteratura italiana dai ristretti confini di una identità nazionale ancora e fin troppo spesso ancorata e «ferma al modello nazionalistico e patriottico di epoca risorgimentale», ponendola in una ottica interculturale su suolo italiano. In una prospettiva cioè – oggi più che mai – urgente e necessaria.
Se l’età dell’umanesimo si è andata progressivamente perdendo a scapito di una visione solidale del mondo, e le drammatiche spaccature sociali pervadono in profondità tutte le società mondiali, viene allora naturale riflettere come la questione palestinese sia e sia stata facilmente investita da una sorta di forza simbolica riconosciuta da tutti coloro che non si arrendono ad una dolorosa ineluttabilità dei processi storici.

L’autrice: Esperta di intercultura, Clara Santini è vice presidente Carminella APS e docente di lingua italiana L2

Le accuse infondate contro Unrwa e i proiettili

Il Regno Unito, come molti altri Paesi nel mondo, aveva sospeso a gennaio i finanziamenti all’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite che garantisce gli aiuti ai profughi palestinesi. Erano i giorni in cui lo stato di Israele accusava alcuni dipendenti dell’agenzia di essere stati coinvolti nell’attacco compiuto da Hamas lo scorso 7 ottobre. 

Quelle accuse non sono mai state dimostrate se non addirittura smentite dai più autorevoli media del mondo. L’effetto di affamare ulteriormente i palestinesi profughi nella loro stessa nazione è stato ottenuto. 

Il ministro degli Esteri britannico David Lammy ha detto che il suo governo fornirà all’agenzia delle Nazioni Unite 21 milioni di sterline (circa 25 milioni di euro) spiegando che la malnutrizione a Gaza è ormai così grave che le madri non riescono più a produrre il latte per nutrire i loro bambini e le loro bambine: «gli aiuti umanitari sono una necessità morale di fronte a una tale catastrofe» e «l’Unrwa è assolutamente centrale per fornire aiuti ai civili sul posto».

Incurante della realtà e delle smentite lo stato di Israele si appresta a dichiarare Unrwa “organizzazione terroristica”, alla faccia del diritto internazionale. Dopo avere inventato accuse che non sono riusciti a provare il governo israeliano continua imperterrito sulla sua strada. 

Intanto un convoglio delle Nazioni Unite è stato colpito ieri dalle Forze di difesa israeliane (Idf) nella Striscia di Gaza. Lo ha annunciato Philippe Lazzarini,  commissario generale dell’Unrwa, con un post su X. Il veicolo blindato è stato colpito da “almeno cinque proiettili” mentre era in attesa a un posto di blocco a sud di Wadi Gaza, che divide il nord e il sud dell’enclave.

Buon martedì. 

Nella foto: quel che rimane dell’ufficio Unrwa a Gaza City (dalla pagina fb Unrwa)

Caro Giorgetti il piano strutturale di bilancio non sarà un gioco

«Quante gocce di rugiada intorno a me,
Cerco il sole, ma non c’è. Dorme ancora la campagna, forse no,
È sveglia, mi guarda, non so», cantava la Premiata Forneria Marconi nella prima strofa di “Impressioni di settembre” scritta, nel 1971, affidando il testo alla sapiente penna di Mogol.
È incerto l’uomo che, all’alba di un giorno di settembre, si avvia per i campi meditando sulla propria esistenza. Un po’ meno poetica, forse, ma senz’altro efficace, la meditabonda metafora calcistico-politica esternata dal ministro dell’Economia, Giorgetti, pochi giorni fa, alla fine della “partita del cuore”: “Meglio fare il portiere che il ministro”. Avendo fatto quel mestiere di ministro – al Lavoro e Previdenza sociale anziché all’Economia – posso anche capirlo. Perché il fatto è che governare non è un gioco. E dalle parti – politiche – di Giorgetti, in molti, per troppo tempo, hanno affrontato la politica come un gioco di società, da praticare tra uscite sui social, comunicati e partecipazioni a talk show. Gioca, gioca, però, arriva la realtà a presentare il conto. O meglio, i conti di finanza pubblica. I quali, per il 2025, non saranno affatto un gioco, bensì, come forse mai, un delicatissimo lavoro di equilibri. E per Giorgetti quanto per il Paese, settembre porterà ben altro che impressioni. Si tratterà di un violento impatto con la realtà. Realtà riassumibile in cinque parole: niente più spesa in deficit.

L’Eurogruppo, che è un organo dell’Unione Europea che riunisce i ministri delle finanze dei 20 Stati membri che adottano l’euro, che ha come obiettivo principale quello di coordinare le politiche economiche e fiscali nella zona euro, puntando a stabilità economica e sostenibilità della crescita, di parole per descrivere la realtà ne ha usate anche meno. La sua conclusione, all’incirca è: bisogna adottare politiche restrittive.
E, il 20 di settembre, Giorgetti dovrà presentare il Piano strutturale di bilancio: un documento strategico che ogni Stato dell’Unione deve redigere, in conformità con le norme sulla governance economica. Si tratta di un piano che ha un orizzonte di circa quattro anni, nel quale si delineano le politiche di spesa pubblica e, potendolo fare, le riforme che servono per implementarla.

Da quel documento nascerà la struttura della legge di Bilancio del 2025. E, senza poter far deficit ulteriore, si dovranno rintracciare oltre 10 miliardi per rifinanziare il taglio del cuneo fiscale. Norma sacrosanta, senza dubbio. Lo sarebbero anche interventi sull’anticipo pensionistico, a sostegno della sanità, dell’istruzione, della formazione. Vedremo come si svolgerà la camminata di Giorgetti, del governo e della sua maggioranza tra gli insidiosi campi della finanza pubblica. Sui quali, intanto, cadono, come foglie in autunno, le promesse elettorali sventatamente sbandierate dai partiti della coalizione oggi al governo: tra le quali, la più improvvida si è rivelata l’abolizione della legge Fornero, mascherata con i giochetti sulle “Quote” pensionistiche che Quote non erano affatto.
Ora è estate. Prepariamoci a un ben difficile autunno. Sperando che lo strumento per la ricerca dell’equilibrio di Bilancio, non sia una falce che si abbatte sul welfare per fare un po’ di cassa. Che, sia chiaro, non è un modo serio per governare.

L’autore:  Sindacalista e già ministro del lavoro Cesare Damiano è presidente di Lavoro & Welfare

Nella foto: il ministro Giorgetti alla “partita del cuore”, 17 luglio 2024 (mef.gov)

Lingua di Stato

«Io voglio essere libero di continuare a chiamare sindaco anche le sindache donne, voglio essere libero di chiamare “il presidente” anche la presidente». Ogni volta che qualcuno da destra spreca fiato, inchiostro e comunicati stampa per ribadire questo squinternato concetto alcuni sorridono e alcuni si preoccupano.

Quelli che sorridono ci spiegano con un certo snobismo che non sono certo questi i problemi che preoccupano gli italiani. Solitamente questi sorridono anche di quelli che si preoccupano ritenendoli allarmisti o comunque esagerati. 

Nei giorni scorsi il senatore leghista Manfredi Potente ha presentato il suo disegno di legge dal titolo “Disposizioni per la tutela della lingua italiana, rispetto alle differenze di genere” che vieta “in qualsiasi atto o documento emanato da Enti pubblici o da altri enti finanziati con fondi pubblici o comunque destinati alla pubblica utilità, è fatto divieto del genere femminile per neologismi applicati ai titoli istituzionali dello Stato”. C’è anche la multa: fino 5 mila euro. 

Il ddl molto probabilmente non diventerà mai legge ma contiene almeno due aspetti preoccupanti. C’è l’ignoranza di chi non sa che i femminili esistono dai tempi antichi – la sociolinguistica Vera Gheno si sgola da tempo per ricordarlo (lo testimoniano i suoi libri pubblicati da Einaudi come Grammanti e Potere alle parole)- e c’è la pericolosa idea di legiferare sulla lingua, segno particolare di ogni dittatura. Volendo ben vedere c’è anche la terza più significativa caratteristica: per libertà qualcuno intende il diritto di vietare agli altri ciò che non si condivide o ciò di cui non si è all’altezza. 

Buon lunedì. 

L’alchimia della memoria. Finissage della mostra di Anselm Kiefer

Anselm Kiefer, in Palazzo Strozzi, Firenze

Nel corpo a corpo con la struttura rinascimentale, elegantissima e inesorabile, di Palazzo Strozzi a Firenze, potremmo dire che Anselm Kiefer con la mostra Angeli caduti, curata da Arturo Galansino che il 21 luglio giunge al finissage, se l’è battuta quasi meglio di Anish Kapoor, artista amatissimo almeno per chi scrive, ma che nella pur bellissima mostra Kapoor Untrue Unreal, soffriva un po’ della rigidità razionale degli spazi.

Forse per la dimensione monumentale della sua arte, forse perché  Kiefer si era preparato a lungo nel suo studio di Croissy sur Seine, alle porte di Parigi, dove è stata realizzata una riproduzione in scala degli spazi fiorentini, o forse- guardando più a fondo – perché la sua arte, nel bene e nel male, è consustanziale alla tradizione occidentale, anche dal punto di vista filosofico religioso, benché ne voglia offrire una visione critica.

Sta di fatto che Anselm Kiefer è riuscito ad abitare pienamente gli spazi di Palazzo Strozzi disseminando nelle sale una sessantina di opere di dimensione colossale, dense di richiami alla lunga tradizione dell’arte sacra.  Fin dal cortile dove, contro lo spazio aperto del cielo, si leva la sua gigantesca ed epica Caduta dell’angelo, un dipinto di ben 7 metri di altezza in foglia d’oro, ma corrosa, screpolata, vissuta, che rappresenta il combattimento dell’arcangelo Michele e degli angeli ribelli, con cui l’artista tedesco celebra il dionisiaco, la ribellione romantica, contro l’ordine razionale.

L’opera di Kiefer è tutta dentro la tradizione e l’estetica giudaico cristiana ma anche- al contempo- provocatoriamente fuori, mettendo radicalmente in discussione la compagine metafisica con una inattesa vitalità della luce e del colore fisico, impastato, materico. Una luminosità e un colore – a volte sordo, bituminoso, elegiaco, eppure vivo- che catturano l’attenzione, che evocano qualcosa che va al di là della epica liturgica. Forse perché quel colore vibrante allude a una umanità non arresa, nonostante i temi della ricerca di Kiefer siano drammaticamente impregnati dal dolore dell’esilio, della memoria ferita, della cacciata.

Nato nel 1945 in Germania e cresciuto nella gabbia del cattolicesimo, Anselm Kiefer, come racconta anche nel docufilm che gli ha dedicato Wim Wenders e nel catalogo della mostra edito da Marsilio ha sempre cercato vie di fuga, di riscatto, interrogando criticamente le figure sacre, come fa anche in questa mostra fiorentina disseminata di ironiche sculture che rappresentano donne con millenari macigni sulla testa. Con le sue opere Kiefer contesta l’asettica immagine della madre madonna, icona priva di vitalità e di affetti. Ma forse non riuscendo a creare un’immagine femminile diversa, oseremmo dire, ne resta schiavo pur usando il registro corrosivo della dissacrazione.

L’altro importante filone che innerva la mostra fiorentina di Kiefer è il senso di colpa per le atrocità del nazismo, di cui in modo coraggioso e geniale l’artista riscontra radici nel logos greco. Provocatoria e potente è l’immagine del gesto nazista per antonomasia, la mano tesa, che nelle sue opere viene riprodotta e condannata a futura memoria, ricordando coraggiosamente quanto richiami gesti che si riscontrano nella statuaria greca. Ed è questa la parte della sua opera che solleva gli interrogativi più brucianti e radicali.

Interessante, nell’esplorazione che Kiefer compie della storia umana, anche la sua ricreazione di quella più antica, quella preistoria o storia profonda, che precede l’invenzione malefica dei monoteismi. In Palazzo Strozzi l’artista tedesco la evoca in una sala foderata di pitture su tutti i lati, soffitto compreso, e aperta a prospettive molteplici tramite l’uso di specchi. Quasi fosse la ricreazione di una grotta di arte rupestre. O una sorta di wunderkammer dove faustianamente e incessantemente l’artista trasforma la materia, creando immagini, impastando il pigmento con la terra. In questo teatro della luce, torna fortissimo il richiamo alla tavolozza scura e alla luce radiante dei dipinti di Tintoretto, con il quale Kiefer aveva giù ingaggiato un “dialogo” qualche anno fa con una mostra in Palazzo Ducale a Venezia.