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Tutte le colorescenze delle artiste in mostra al Pecci

Colorescenze, al Pecci di Prato

Colorescenze, artiste, Toscana, futuro è una mostra collettiva di artiste, aperta fino al 13 ottobre al Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato che raccoglie le opere di artiste, toscane di origine o di adozione, di generazioni diverse, che utilizzano i supporti e i materiali più disparati, ma che hanno in comune molte cose. Prima di tutto il legame con un territorio particolare, come quello della loro regione, che implica anche un inevitabile dialogo con la grande tradizione figurativa del rinascimento.

Il centro Luigi Pecci, è stato rinnovato con una ristrutturazione (completata nel 2016) che ha cambiato radicalmente il rendering dell’edificio. Il progetto dell’olandese Maurice Nio Sensing the Waves ha rivoluzionato il progetto razionalista originario firmato dall’architetto Italo Gamberini, e quindi di conseguenza anche il senso dell’intera struttura, non solo raddoppiando lo spazio espositivo, passato a 3000 mq, ma rendendo la visita del medesimo un’esperienza sensoriale differente. Il visitatore adesso non segue un percorso lineare, ma è chiamato a entrare in una struttura circolare, una sorta di “tubo digerente” nel quale i sensi vengono stimolati anche dalla insolita disposizione delle creazioni artistiche in uno spazio dalle proporzioni non geometriche, nel quale “contenitore” e “contenuto” quasi si equivalgono. A completare questa struttura. In cima all’anello, in posizione laterale rispetto all’asse di simmetria del complesso museale, si erge l’“antenna”, simbolo della missione del nuovo programma culturale: captare emergenze creative e segnalare la loro presenza sul territorio.

Quest’ultimo elemento architettonico dal forte significato simbolico rappresenta un buon punto di partenza per comprendere meglio il senso di questa mostra, che ha l’ambizione di raccogliere e dare visibilità alle artiste che vivono e lavorano in Toscana, regione nella quale la creazione artistica appare spesso decentralizzata (anche i borghi e le campagne spesso sono diventati veri e propri centri d’arte) e diffusa in modo capillare in tutto il territorio. Il richiamo del paesaggio, celebrato per le sue forme dolci e armoniose fin dai tempi del rinascimento, ha continuato a richiamare qui artisti da tutto il mondo. Vale la pena ricordare, tra gli altri, lo scultore Henry Moore, che soggiornava spesso in Toscana (a Prato è conservata la sua monumentale Forma squadrata con taglio, acquistata da un consorzio di industriali locali dopo la storica mostra di Forte Belvedere a Firenze nel 1972). In Colorescenze sono esposte anche opere Isabella Costabile nata a New York, nel 1991, che vive tra Grosseto e Milano, Christiane Löhr, nata a Wiesbaden, in Germania, nel 1965, che vive tra Colonia e Vernio, Prato e Helena Hladilová nata a Kroměříž, in Repubblica Ceca, nel 1983, che vive a Seggiano, in provincia di Grosseto, artiste che hanno saputo “rileggere”, ma con una chiave e una sensibilità radicalmente nuove, le tradizioni e il paesaggio locali.

Di Christiane Löhr sono esposte opere realizzate con l’uso di elementi organici come crini di cavallo, semi di piante, soffioni o gambi d’erba. «L’artista dà vita a sculture apparentemente fragili e vulnerabili, di estrema laboriosità costruttiva: le sue microarchitetture dipendono dall’ “autonomia del materiale”, il criterio geometrico della loro costruzione è assoggettato a regole che attingono direttamente all’intelligenza dei materiali utilizzati. Le sue opere sono di fatto microcosmi essenziali, vulnerabili ma allo stesso tempo radicali nella modalità attraverso cui abitano lo spazio, resistenti nel tempo nonostante la loro caducità», recita la didascalia.

l’artista statunitense Isabella Costabile presenta nove sculture, molte delle quali composte da elementi recuperati da luoghi industriali, rimesse agricole o dalle spiagge del grossetano, riassemblati secondo riconfigurazioni che complicano i significati simbolici o funzionali a loro solitamente attribuiti («L’artista ridiscute il concetto di object trouvé introdotto da Marcel Duchamp, per cui un oggetto trovato può diventare opera d’arte sulla base del semplice volere dell’artista, indipendentemente dal suo significato e valore culturale» si legge nella presentazione). Anche la monumentale opera di Giulia Cenci (nata a Cortona, Arezzo, nel 1988) Progresso Scorsoio (2021) si compone di frammenti di macchine agricole e rottami di automobili, ricomposti in una configurazione che ricorda l’esoscheletro di un animale, al contempo preistorico e futuribile. Con le sue braccia meccaniche, l’opera potrebbe accogliere o aggredire chi vi si confronta. Il titolo dell’opera presentata riprende l’idea del nodo scorsoio e del suo scorrere lento. La suggestione deriva dai versi del poeta Andrea Zanzotto: «In questo progresso scorsoio / non so se vengo ingoiato / o se ingoio». La artista, come il poeta, si interroga sullo sfruttamento della terra, sull’industrializzazione dell’agricoltura, sugli allevamenti intensivi che hanno mutato il paesaggio, intaccandone bellezza e l’equilibrio, producendo gravi dissesti ambientali.

Helena Hladilová, che aveva studiato all’Accademia di Carrara, attraverso la ricomposizione fantasiosa di spunti tratti dal folklore italiano e ceco, ha elaborato «sculture e installazioni ispirate a un suo personale storytelling materno»; le sculture di marmo proposte a Colorescenze rappresentano creature fantasiose, generate dalla fantasia personale dell’autrice, «creature sui generis, esseri deformati e metamorfici, animali ibridi, con innesti di pietre e metallo che ne moltiplicano organi e teste, o aggiungono arti umani alle loro forme animali». Analogamente possiamo ritrovare un uso “straniato” e deformato del mondo figurativo della tradizione in una artista locale, come Sandra Tomboloni, nata a Pelago, in provincia di Firenze, nel 1961. I suoi bassorilievi realizzati col plastilina inevitabilmente richiamano quelli della celebre bottega dei Della Robbia sparsi per tutta la Toscana realizzati nella tecnica della terracotta policroma invetriata inventata proprio da Luca Della Robbia. A differenza di quelli, nei bassorilievi della Tomboloni sono rappresentate creature metamorfiche, metà bestie e metà uomini. «Gli animali rappresentati da Tomboloni compongono una sorta di bestiario fantastico: in Disubbidire al padre, il dittico nero, il riferimento è al cane e alla sua proverbiale fedeltà; in Purezza, l’idea di candore e virtù, simboleggiata anche dal colore bianco, viene accostata alla figura del maiale, in netto contrasto con l’usuale connotazione dell’animale nella cultura europea».

Nei lavori presentati da  Daniela De Lorenzo, nata a Firenze nel 1959, il punto di partenza invece è  Melancholia di Lucas Cranach il Vecchio, un dipinto del 1532 da lei manipolato in una serie di collage fotografici. Uno di questi collage ha fornito lo spunto per la scultura centrale in feltro, materiale a lungo indagato dall’artista per le sue qualità plastiche e la sua relazione con la sapienza antica della manifattura del tessuto.

A guidare il plotone delle artiste di questa mostra è Lucia Marcucci, la decana del gruppo: nata a Firenze nel 1933, fu tra i fondatori del “Gruppo 70”, che a partire dagli anni Sessanta,  «indaga le modalità con cui il potere patriarcale modella la società attraverso il linguaggio e le immagini che circolano nei mass-media, riferendosi, in particolare, ai rotocalchi femminili e ai loro dettami repressivi di comportamento femminile». In Colorescenze sono esposti alcuni dei suoi storici collage, nei quali «l’artista utilizza cortocircuiti tra immagini e testi, offrendo alle osservatrici e agli osservatori l’opportunità di stabilire i propri percorsi di lettura e di scorgere nelle opere i significati legati alla loro esperienza», in sintonia con le istanze che il movimento femminista stava portando all’attenzione dell’opinione pubblica in Italia proprio in quegli anni.

L’occupazione dei territori palestinesi è illegale, sentenza storica della Corte Onu contro Israele

La Corte internazionale di giustizia (Icj), la più alta giurisdizione dell’Onu, ha affermato che l’occupazione di Israele, che dura da 57 anni, è illegale. Israele deve smantellarla immediatamente, insieme ai suoi insediamenti illegali. La Corte condanna l’apartheid che l’ha sostenuta e chiede di risarcire i palestinesi.
Dopo lo storico pronunciamento della Corte di Giustizia Internazionale sarebbe doveroso imporre subito sanzioni a Israele come a suo tempo al Sudafrica dell’apartheid.

Ora più che mai serve una iniziativa europea per la pace, non solo i vaghi impegni di Ursula von der Layen, nel suo discorso programmatico per il bis alla guida alla Commissione europea.

Ora gli Stati Uniti cessino di armare lo Stato di Israele. Si rispetti la legalità internazionale e si smetta di accusare di antisemitismo chi è solidale con il popolo palestinese.

Ecco il testo della risoluzione della Corte internazionale di Giustizia

Ecco quanto riporta Euronews: La Corte internazionale di giustizia dell’Aja ha stabilito che la politica di insediamento di Israele nei Territori palestinesi “viola il diritto internazionale”. Lo ha reso noto nella sessione di oggi il presidente della Corte Nawaf Salam. Nel parere consultivo richiesto dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite la Corte ha affermato che “lo Stato di Israele ha l’obbligo di porre fine alla sua presenza illegale nei Territori palestinesi occupati il più rapidamente possibile, di cessare immediatamente tutte le nuove attività di insediamento, di evacuare tutti i coloni e di risarcire i danni arrecati”.

Il presidente Salam ha aggiunto che “la natura degli atti di Israele, tra cui la frequente confisca di terreni a seguito della demolizione di proprietà palestinesi per la riassegnazione agli insediamenti israeliani, indica che queste misure non hanno carattere temporaneo e pertanto non possono essere considerate ammissibili ai sensi della Quarta convenzione di Ginevra”. Secondo il tribunale internazionale, “il trasferimento da parte di Israele di coloni in Cisgiordania e a Gerusalemme est, insieme al mantenimento di quelli già presenti sono contrari all’articolo 49 della Quarta convenzione di Ginevra”. Anche l’uso delle risorse naturali “non è coerente” con gli obblighi di diritto internazionale dello Stato ebraico “in quanto potenza occupante”. Il tribunale ha affermato inoltre che la violenza dei coloni contro i palestinesi e “l’incapacità di Israele di prevenirla e punirla efficacemente” contribuiscono a creare un “ambiente coercitivo contro i palestinesi”.

Ben Gvier e Smotrich all’Aja: annettere larghe parti della Cisgiordania I ministri dell’estrema destra che fanno parte del governo israeliano, Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, hanno chiesto “l’annessione” di larghe parti della Cisgiordania in risposta al parere espresso oggi della Corte internazionale di giustizia dell’Aja secondo cui la presenza israeliana nei Territori è “illegale”, lo riportano i mezzi d’informazione israeliani. Anche la risposta del primo ministro Benjamin Netanyahu non si è fatta attendere: “Il popolo ebraico non è conquistatore nella propria terra, né nella nostra eterna capitale Gerusalemme, né nella terra dei nostri antenati in Giudea e Samaria”, ha affermato. In un duro attacco alla Corte ha definito la decisione dell’Aja “falsa e incapace di distorcere la verità storica”. Netanyahu “la legalità dell’insediamento israeliano in tutti i territori della nostra patria”.

Le Nazioni Unite considerano illegali gli insediamenti israeliani nei territori palestinesi occupati. La presidenza dell’Autorità nazionale palestinese ha definito il parere della Corte “una vittoria della giustizia”. Abu Mazen ha poi chiesto alla Comunità internazionale di obbligare Israele, potenza occupante, “a porre fine completamente e immediatamente alla sua occupazione e al suo progetto coloniale, senza restrizioni o condizioni”.

Brevi dall’Ue

Breve riepilogo della giornata europea che ieri ha confermato Ursula von der Leyen alla guida della Commissione. 

Il capolavoro politico di Giorgia Meloni si è compiuto. Dopo una campagna elettorale incentrata sul rovesciamento dell’Europa e sull’Italia che avrebbe contato di più la presidente del Consiglio italiana è riuscita nella mirabile impresa di mettersi ai margini in tutto e per tutto. Il suo gruppo dei Conservatori e riformisti europei ha votato in modo sparso, gli eurodeputati di Fratelli d’Italia non hanno votato la candidata dei Popolari. Tutti in ordine sparso, sperando che cada qualche briciola. Ora Meloni è troppo moderata per i suoi amici di destra e troppo di destra per i suoi amici moderati. Sostanzialmente non esiste. 

La maggioranza italiana si sfalda nella strada da Roma a Strasburgo. Fratelli d’Italia, Forza Italia e Lega dalle parti di Bruxelles sono sigle elettorali una contro l’altra. È la fotografia di una maggioranza tenuta insieme solo dall’attaccamento al potere. Tre partiti che votano dissonanti su qualsiasi punto di politica europea e di politica estera. Buona fortuna. 

Il generale Vannacci fa schifo perfino a Bardella e ai Patrioti per l’Europa. La notizia che gli sarebbe stata tolta la vicepresidenza in Europa non era «un’invenzione dei giornalisti di sinistra» come scioccamente ripeteva qualche parlamentare della Lega. La figura di Vannacci esiste solo su certa stampa che lo usa come grimaldello perché nella politica – quella vera – è una macchietta a cui hanno messo una decima sopra. 

Buon venerdì. 

Nella foto: Ursula von der Leyen e Giorgia Meloni, Forlì, 17 gennaio 2024 (governo.it)

Fine vita. La sentenza della Consulta fa passi avanti

La Corte Costituzionale interviene ancora una volta sul fine vita. Mentre il Parlamento è silente dal 2018. C’era molta attesa per questo pronunciamento. La Consulta non elimina il requisito del trattamento di sostegno vitale per poter accedere al trattamento. Tuttavia  la sentenza segna importanti passi avanti secondo l’avvocata Filomena Gallo e Marco Cappato (rappresentante legale dell’associazione Soccorso civile) Qui la conferenza stampa.

La storia è purtroppo annosa. A seguito dell’udienza dello scorso 19 giugno La Corte era stata chiamata a esprimersi sul tema del suicidio medicalmente assistito, per la seconda volta dopo il caso di Dj Fabo. Questa volta all’attenzione della Corte c’era l’aiuto fornito a dicembre 2022 da Marco Cappato, da Chiara Lalli e Felicetta Maltese, che hanno accompagnato Massimiliano, toscano 44enne, affetto da sclerosi multipla, in Svizzera per poter ricorrere al “suicidio medicalmente assistito”. Massimiliano si era recato in Svizzera perché non era dipendente da un trattamento di sostegno vitale in senso classicamente inteso (come per esempio dispositivi, farmaci o macchinari sanitari con la funzione di rallentare il progredire della malattia e quindi il decesso), nonostante fosse dipendente totalmente da assistenza di terze persone per sopravvivere. Per questo avrebbe potuto incontrare ostacoli nell’accedere al suicidio assistito in Italia, reso legale, a determinate condizioni, dalla sentenza numero 242 del 2019 sul caso “Cappato\Antoniani” (Dj Fabo).

Oggetto della nuova pronuncia dei giudici della Corte c’è il requisito del “trattamento di sostegno vitale”, ossia quello che si presta a un’interpretazione più ambigua e con potenziali effetti discriminatori, a causa del quale tanti italiani sono costretti ad andare in Svizzera per accedere al suicidio medicalmente assistito oppure a dover subire, contro la propria volontà, condizioni di sofferenza insopportabile.
Ad oggi il suicidio medicalmente assistito è possibile grazie all sentenza 242 del 2019 della Corte costituzionale che delinea i confini di intervento con l’aiuto indiretto a morire da parte di un medico. Le condizioni richieste dalla sentenza sono: la richiesta deve essere di una persona che sia tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente.

Dal 2019 ad oggi, sono state 5 le persone, seguite dall’Associazione Luca Coscioni che hanno fatto richiesta di accesso alla morte volontaria in Italia. Tre di queste hanno poi deciso di procedere, due, invece no.
Ricordiamo per esempio che nel giugno 2022, Federico Carboni, 44enne di Senigallia, conosciuto durante la sua battaglia con il nome di fantasia “Mario”, è stato il primo italiano ad aver chiesto e ottenuto l’accesso al suicidio medicalmente assistito, reso legale dalla sentenza della Corte costituzionale 242/2019, dopo quasi due anni dalla prima richiesta alla azienda sanitaria e dopo una lunga battaglia legale, in cui è stato assistito dall’Associazione Luca Coscioni. La strumentazione per l’autosomministrazione del farmaco viene acquistata tramite una raccolta fondi organizzata dall’Associazione Luca Coscioni e la consulenza medica è di Mario Riccio, già anestesista di Piergiorgio Welby.

Ma c’è anche chi non ha ottenuto il via libera per accedere al suicidio assistito in Italia. Nel 2021. Il caso più recente è quello di Sibilla Barbieri, 58 anni, paziente oncologica, ha ricevuto nel 2023 un diniego da parte della propria ASL alla richiesta di accesso al suicidio medicalmente assistito, perché non sarebbe stato presente il requisito del trattamento di sostegno vitale. Barbieri, tramite i suoi legali, si oppone al diniego della Asl, senza avere alcun riscontro. Per questo, visto il progressivo peggioramento delle sue condizioni ha quindi deciso di autosomministrarsi il farmaco letale lontana da casa sua, dalla sua famiglia, e andare quindi in Svizzera.

Infine c’è chi è stato accompagnato in Svizzera, tramite azioni di disobbedienza civile a causa dell’ambiguità del trattamento di sostegno vitale: 6 persone hanno deciso di andare in Svizzera e di farsi accompagnare, tramite un’azione di disobbedienza civile, dagli attivisti dell’Associazione Soccorso Civile, il cui responsabile legale è Marco Cappato. Insieme agli iscritti a Soccorso Civile, Cappato è quindi indagato presso i tribunali delle 3 città dove sono avvenute le autodenunce, depositate nel 2023, ma sono ancora in corso anche 3 filoni giudiziari per altre azioni avvenute nel 2022. Per un totale di 6 filoni giudiziari aperti.

Nel frattempo aumentano le richieste di informazioni sul fine vita tramite il “Numero Bianco” (attivo tutti i giorni allo 06.99313409) dell’Associazione Luca Coscioni, coordinato dalla psicologa nonchè compagna di Dj Fabo Valeria Imbrogno, e che oggi conta 45 tra volontari, medici, giuristi e operatori altamente formati che rispondono a quesiti sul fine vita.

Negli ultimi 12 mesi sono arrivate 15.559 richieste di informazioni sul fine vita. Si tratta di una media di 43 richieste al giorno con un aumento del 28% rispetto al 2022. Nel dettaglio: 3.302 scambi di informazioni su eutanasia e suicidio medicalmente assistito (9 richieste al giorno, +43% rispetto all’anno precedente) e 823 scambi rispetto all’interruzione delle terapie e la sedazione palliativa profonda (circa 2 richieste al giorno, +27% rispetto l’anno precedente).

Gli italiani a favore dell’eutanasia (Sondaggio SWG del 2024)

Da un recente sondaggio commissionato dall’Associazione Luca Coscioni a SWG è emerso che l’84% degli italiani è favorevole a una legge che regolamenti l’eutanasia nel nostro Paese. Un sostegno che travalica le divisioni politiche tradizionali, con l’83% degli elettori di Fratelli d’Italia e di Forza Italia a favore e il 77% di quelli della Lega. Anche le opposizioni esprimono un pieno appoggio alla regolamentazione dell’eutanasia: il 92% degli elettori del Partito Democratico è favorevole, il 94% di Alleanza Verdi e Sinistra, 88% del Movimento Cinque Stelle, 96% di +Europa, 89% di Azione-Italia Viva.

Si dichiarano a favore dell’eutanasia, soprattutto i cittadini e le cittadine del Centro Italia (91%), seguiti da quelli del Nord Ovest (85%), delle Isole (84%), Nord Est (83%) e infine quelli del Sud (80%).

( l’integrale della scheda si trova sul sito dell’Associazione Luca Coscioni)

Il bis di Ursula Von der Leyen. E i cinque anni che ci aspettano

Con 401 voti a favore rispetto ai 360 richiesti nasce il Van der Leyen bis. Grazie al voto dei verdi una maggioranza più ampia dei soli 9 voti di scarto del 2019. A favore popolari, socialisti, liberali, verdi. Contro il gruppo The Left. Poi le varie destre, compresa, in ordine sparso, l’Ecr di Meloni. Si è dovuto aspettare lo spoglio perché non solo il voto è segreto ma mentre popolari, socialisti, liberali e verdi avevano preannunciato i loro sì ad esempio Fratelli d’Italia mandava a dire che avrebbe comunicato come aveva votato solo a scrutinio avvenuto. Sulla scia di un rapporto tra Giorgia Meloni e Ursula von Der Leyen assai controverso da ambo i lati e seguito assai provincialmente dai mass media “nostrani” sul leit motiv di “quanto conta l’Italia”. In realtà la partita era un po’più ampia e riguarda gli equilibri europei più generali. Ma andiamo con ordine.
A turbare la vigilia di Von der Leyen ci si era messa anche la Corte dei Conti europea dandole torto su come si era comportata in materia di trasparenza nell’affaire dell’acquisto dei vaccini. Cosa che aveva spinto il gruppo The Left a chiedere un rinvio della votazione.
Alle 9 Ursula von Der Leyen si è presentata in aula con le sue trenta pagine per l’Europa, il programma di legislatura. In continuità con quanto già fatto e facendo il possibile per avere i voti necessari tra la sua maggioranza storica di popolari, socialisti e liberali, l’apertura ai verdi, la non chiusura totale all’Ecr di Meloni, lasciando fuori le destre considerate estremiste e intrattabili.

Dunque le trenta pagine parlano di una Europa dall’Ucraina alla Georgia, che combatte ad oltranza con le armi e non con la diplomazia l’aggressione russa; fa qualcosa per il conflitto mediorientale ma non certo appoggiare le iniziative della Corte Internazionale contro il genocidio, si riarma massicciamente per stare nel nuovo mondo periglioso. Una Ue tutta industrie, competitività e mercato, la sacra triade che tutto sovrintende. Naturalmente puliti e innovativi. Il green deal, che vogliono i verdi ma che fa storcere la bocca ai popolari e all’Ecr, viene ribattezzato clean industry deal. Soprattutto massicciamente militari e infatti bisogna fare con le armi come con i vaccini.
Impegnati anche sul versante sociale dove il modello è il partenariato col pubblico. Resta l’armamentario monetarista, che col rientro del patto di stabilità sarà difficile da gestire. E poi i migranti dove la convergenza di fatto con le destre sui dossier può aiutare Von Der Leyen a trovare convergenze a lei utili. La democrazia è fatta di confronti ed ascolti ma non ci sono Costituzioni in vista. Insomma impianto “funzionalista”:cioè è la funzione che crea l’organo applicato ora a guerra e alla solita competitività. Retorica e un mix tra establishment e ruolo delle nazioni,una unità dall’alto ed intergovernativista.

Nel complesso gioco del riassetto delle figure apicali l’esordio era toccato alla conferma di Roberta Metsola a presidente del Parlamento europeo dove aveva sostituito lo scomparso David Sassoli nella precedente legislatura. In quel caso le erano state contrapposte candidature da The Left e Verdi. Stavolta è rimasta solo quella di The Left, con Irene Montero di Podemos a fare un bel discorso pacifista e a prendere qualche voto in più del numero dei componenti il gruppo. Il voto è segreto ma la cifra record vicina ai 600 voti dice di una convergenza amplissima su Metsola in un Parlamento abbastanza omologato dalla guerra in poi.
Omologazione confermata dall’ennesima risoluzione bellicista sull’Ucraina con tanto di via libera all’uso delle armi in territorio russo. Qui di positivo c’è che gli italiani eletti in AVS e Cinquestelle hanno votato contro. I verdi praticamente da soli nel loro gruppo. Astenuti i due pacifisti, Cecilia Strada e Marco Tarquinio, eletti nel Pd.
Il problema è che quella linea bellicista è quella degli apicali eletti. Metsola, Von der Leyen e, in attesa di esserlo, l’estone liberale Kallas, ultrà anti russa.
Ma dova andrà questa Ue con questi leaders e molti Paesi in crisi politica, economica e sociale, a partire dalla Germania in recessione dove Von der Leyen attacca il commercio cinese e il cancelliere Scholz cerca di frenare e dalla Francia senza governo? E con il caos delle elezioni Usa di novembre a rendere ancora più incerta la prospettiva? Quella che si vede non è solo la solita subalternità perdente alle politiche Usa, la cui economia tira mentre quella Ue ristagna. Appare una velleità di mettersi in proprio nella crisi della globalizzazione che, fatto salvo il dominus del capitale finanziario, porta tensioni crescenti gestite “orwellianamente”, in modi bellicisti militari ed economici, tra diversi suprematismi, accumulati dal privilegiare i ricchi e aumentare le disuguaglianze. Invece che proporsi come riferimento per il proprio modello sociale avanzato e la ricerca di un governo democratico e cooperativo del Mondo l’Europa in versione Ue si mette in competizione sui terreni, militari e capitalistici, contrari alla sua Storia migliore. Un’altra Europa è sempre più necessaria.

L’autore: politico ed ex parlamentare europeo, Roberto Musacchio collabora con Transform Italia

Fare finta di niente su Daniela Santanchè

Ieri l’ex compagno della ministra al Turismo Daniela Santanchè è stato condannato a due anni e mezzo oltre a una confisca di oltre 664 mila euro per sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte e dichiarazione infedele dei redditi. 

Secondo i giudici avrebbe venduto per finta a poco meno di 400mila euro lo yacht a Biofood Italia, società di Daniela Santanchè. Una singolare vendita in cui non risulta nessun passaggio di denaro. Una ventina di giorni dopo poi, Biofood vende la barca a 393mila euro a Flying Fish Yachting ltd, una società di diritto maltese che secondo il giudice sarebbe uno scudo per mettere al sicuro il bene. 

Per il giudice la ministra non avrebbe «avuto un ruolo attivo nell’acquisto e, quindi, nella successiva vendita dell’imbarcazione». Nel decreto di archiviazione il gip aveva però sottolineato come la ministra, visto il suo ruolo politico, non avrebbe dovuto accettare un ruolo «meramente formale» nella società, in considerazione di «tutti i rischi giuridici connessi». 

Siamo ovviamente solo al primo grado d giudizio di una vicenda che per al di là degli esiti giudiziari getta un’ombra sulla stessa ministra per cui la Procura di Milano ha chiesto il rinvio a giudizio insieme ad altre 16 persone per falso in bilancio della sua ex società Visibilia. A maggio la Procura ha chiesto per Santanché un altro processo per truffa all’Inps: per i magistrati Santanchè avrebbe lucrato oltre 126 mila euro di risorse covid da maggio 2020 e febbraio 2022 per 13 dipendenti che sarebbero però rimasti sempre al lavoro. 

La strategia di non parlarne non potrà durare ancora a lungo. Meloni lo sa, la ministra lo sa. Poi un giorno aprirete i giornali e sembrerà essere accaduto tutto all’improvviso. 

Buon giovedì. 

I morti per pena delle carceri italiane

Stefano Anastasia, tra i fondatori dell’associazione Antigone che si occupa dei diritti dei detenuti, scrive un commento per Il Manifesto in cui sottolinea il ritorno della teoria della rivolta coordinata nelle carceri italiane. 

I 58 detenuti suicidati nel 2024 – di cui due morti rifiutandosi di alimentarsi – oltre ai sei agenti di polizia penitenziaria suicidi dall’inizio dell’anno sono la fotografia di una pena di morte di fatto a cui da almeno 25 anni non si riesce a porre rimedio. «Morte per pena» la chiama Gennarino De Fazio segretario generale della Uilpa penitenziari. 

Per svicolare dal problema certa stampa si sta riempiendo, di nuovo, delle cronache di rivolte in alcune carceri come Sollicciano, Viterbo, Torino, Trieste. Protestare in un luogo che mette a rischio la sopravvivenza dovrebbe essere considerato naturale, perfino salubre. Non è certo l’ordine pubblico il tema preponderante: i detenuti italiani sottoscrivono con lo Stato un patto di responsabilità che lo Stato non rispetta, infliggendo pene che non sono previste. 

Anastasia sottolinea invece come il ddl del governo sulla sicurezza abbia voluto occuparsi delle rivolte, elevandole a reato a sé, perseguibile anche in caso di resistenza passiva di tre o più detenuti. Risultato? Saranno colpevoli “tre detenuti che rifiutano di rientrare in cella – spiega Anastasia – perché vogliono far vedere al responsabile della sezione una perdita d’acqua dal lavabo o l’intera sezione che vuole parlare con il direttore, il garante o il magistrato di sorveglianza”. 

Lo Stato violento che criminalizza le proteste non violente mentre in carcere si muore. Siamo messi così. 

Buon mercoledì. 

La violenza è un metodo, non è un autotrasportatore con la cinghia in mano

Alcune donne si nascondono in un camion per provare a superare le frontiere blindate dell’Unione europea. All’interno del rimorchio speravano di passare la frontiera francese, a Ventimiglia. 

L’autista se ne accorge, comincia a urlare intimandogli di scendere, poi con qualcosa che sembra una cintura, sicuramente con una parte in metallo, comincia a frustarle. Le donne chiedono di smetterla. 

Sono immagini del 15 luglio e il video fa il giro dei siti d’informazione. Parte il fremito dello sdegno a poco prezzo. Eppure le scene di violenza a Ventimiglia sono all’ordine del giorno, anche se non vengono riprese quasi mai e quasi mai meritano di entrare nel rullo delle agenzie e in pagine sui giornali. 

Basterebbe ascoltare le associazioni che lavorano al confine francese, l’Arci di Imperia, la Caritas, Associazione Popoli in Arte, Associazione Martina Rossi, Casa dei Circoli Culture e Popoli Ceriale, Pays de Fayence Solidaire. Volontari italiani e francesi sul confine di Tenda e Ventimiglia dicono da tempo che quel confine sta scoppiando. 

Ed è così su tutti i confini, italiani e europei. La violenza ai bordi interessa il Mediterraneo, la rotta balcanica, quasi tutti i confini interni. La notizia di ieri non è una notizia: l’Unione europea ha esternalizzato le frontiere e nel frattempo ha indurito le violenze interne. Ogni metro di chi prova a salvarsi deve essere una lezione per lui ma soprattutto un monito per tutti gli altri. 

La violenza è un metodo, non è un autotrasportatore con la cinghia in mano. 

Buon martedì. 

Attentato a Trump. La destra americana fa finta che il golpe di Capitol Hill non sia mai esistito

La lotta politica tra Trump e Biden è immersa in un contesto tossico di polarizzazione politica e sociale e di violenza che sarà molto difficile contenere e contrastare. L’attentato rafforza la tendenza in atto che vede estremisti politici (come i suprematisti bianchi) cercare di mettere a tacere i loro rivali politici attraverso la violenza, piuttosto che con le urne, ma potrebbe non avere necessariamente un impatto critico sul risultato complessivo. A meno di quattro mesi dalle elezioni, il risultato rimane incerto.

Nel pomeriggio di sabato 13 luglio, Donald J. Trump ha subito un attentato durante una manifestazione elettorale in Pennsylvania (uno dei 6-7 Stati in bilico) da parte di un ventenne che era riuscito a salire sul tetto di un capannone a circa 130 metri dal palco, armato di un fucile da guerra modello AR-15, senza che polizia e servizi segreti intervenissero. Nelle immagini, abbiamo visto l’ex presidente insanguinato ma non gravemente ferito, mentre una persona del pubblico e l’uomo armato sono stati uccisi e altri due spettatori sono stati gravemente feriti. È stata un’immagine immediatamente iconica in un momento cruciale della storia politica americana. È anche un segno dei tempi.
Per chi segue la politica e la società americana con continuità e attenzione, ha stupito la reazione sdegnata di gran parte dei media mainstream che hanno commentato l’attentato come se sia stato un fulmine a ciel sereno e hanno scoperto che la politica e la società americana è profondamente polarizzata (il divario tra ricchi e poveri si sta allargando, mentre la classe media si sta restringendo), e che la democrazia americana è in pericolo.

Purtroppo, polarizzazione, disuguaglianze socio-economiche, derive autoritarie e violenza politica sono caratteristiche che hanno sempre attraversato “il faro della democrazia” dell’Occidente e ancor più dall’inizio del XXI secolo (si veda il mio libro sul Suprematismo bianco). Quattro presidenti nella storia degli Stati Uniti sono stati assassinati mentre erano in carica, e due presidenti in carica sono sopravvissuti a tentativi di omicidio durante il loro mandato. Un recente sondaggio condotto dal Public religion research institute suggerisce che quasi un quarto degli americani sostiene l’affermazione secondo cui “i patrioti americani potrebbero dover ricorrere alla violenza per salvare il Paese”, compreso il 33% dei repubblicani e il 13% dei democratici. Gli atti di violenza politica e di terrorismo interno sono costantemente aumentati negli ultimi 10-15 anni.

Secondo i database dell’Fbi e del dipartimento per la Security Homeland, la maggior parte sono reati motivati da estremismo razziale ed etnico, in larga parte compiuti da singoli o gruppi legati a (e ispirati da) milizie del suprematismo bianco, ma in crescita sono anche azioni violente contro le istituzioni e le autorità governative. Il legame con un contesto politico polarizzato è evidente e a sua volta ampiamente studiato. L’avversario politico cessa di essere tale e viene trasfigurato in un nemico esistenziale e una minaccia per la democrazia o la patria, per cui tutto finisce per diventare lecito per difendere democrazia e patria, incluso il ricorso alla violenza.
I conflitti partigiani in corso si sono intensificati da una politica di veto reciprocamente contrapposta a una politica di ritorsione che prevede l’attacco agli oppositori come strategia primaria. Inoltre, queste elezioni comportano uno scontro tra il presidente in carica e un ex presidente, rappresentando essenzialmente uno scontro tra due Americhe, dividendo ulteriormente la società statunitense e alimentando l’emergere di atti politici violenti.

Nonostante Trump sia una vittima di questo tentativo di omicidio, è il candidato che è stato associato all’incoraggiamento alla violenza politica e al possesso e uso delle armi: dall’assalto dei suoi sostenitori a Capitol Hill durante l’insurrezione/tentativo di colpo di Stato del 6 gennaio 2021, che includeva appelli ad assassinare un vicepresidente in carica, e i cui autori sono stati acclamati come “prigionieri politici”, “martiri”, “eroi” e “guerrieri”, alla derisione dell’attacco quasi fatale contro il marito di Nancy Pelosi da parte di un intruso armato di un martello che voleva rapire l’allora presidente democratica della Camera dei Rappresentanti nell’ottobre 2022.

Poche ore dopo, in una breve conferenza stampa, il presidente Joe Biden ha condannato la sparatoria ed ha espresso solidarietà al suo avversario, chiamandolo “Donald” in una rara pausa dall’animosità tra i due uomini. Biden ha fatto un appello per “abbassare la temperatura” e moderare i toni della politica, sostenendo che «non c’è posto per questo tipo di violenza in America. Dobbiamo unirci come un’unica nazione per condannarlo». «Un tentativo di omicidio è contrario a tutto ciò che rappresentiamo come nazione», ha detto Biden domenica pomeriggio dalla Casa Bianca. Anche diversi personaggi politici mainstream ed esperti di tutto lo spettro politico hanno immediatamente espresso preoccupazione per Trump e le altre vittime e hanno condannato questo atto di violenza politica. Pelosi è stata una delle prime figure politiche a commentare la sparatoria di Trump, postando su X che «essendo una la cui famiglia è stata vittima di violenza politica, so in prima persona che la violenza politica di qualsiasi tipo non ha posto nella nostra società».

Sono auspici positivi, ma la violenza è oggi una parte centrale della vita politica americana, di cui sarà difficile liberarsene presto in un Paese in cui molti più cittadini possiedono armi (450 milioni quelle stimate), grazie all’aumento delle vendite negli ultimi anni; la disinformazione è dilagante; e Internet rende anche più facile per le persone malintenzionate organizzarsi.

Da questo punto di vista è interessante considerare l’uso ideologico che viene fatto dalla destra repubblicana del termine «unamerican», ossia «contrario ai valori americani». È diventato un dogma definire «noi» (cristiani bianchi conservatori) come gli unici sostenitori della «vera America» – e «loro» (Democratici, liberal, «la sinistra») come fondamentalmente illegittimi, una minaccia «contraria ai valori americani». Secondo questi suprematisti bianchi della destra – e il Partito repubblicano che li rappresenta – «noi» abbiamo il diritto di governare in America, mentre il governo dei Democratici è intrinsecamente illegittimo. La narrazione di questa destra è che i «veri americani» sono costantemente delle vittime, costretti a subire il giogo di una folle politica di sinistra, assediati dalle forze «contrarie ai valori americani» della sinistra radicale; per cui «noi» dobbiamo difenderci e combattere, con qualsiasi mezzo. Nella loro mente, non sono mai gli aggressori, ma sempre quelli assaliti e sotto assedio.

La costruzione di questa narrativa sulla presunta minaccia totalitaria e violenta da parte della «sinistra» e dell’agenda progressista promossa dal Partito democratico, consente loro di giustificare azioni sempre più sfrontate, provocatorie ed aggressive (non solo sul piano retorico, ma anche su quelli della violenza politica e dei comportamenti criminali) all’interno di un quadro consolidato di auto-vittimizzazione conservatrice. Si determina una spirale di paura, razzismo e pseudo-patriottismo sciovinista in continua accelerazione che minaccia l’assetto costituzionale democratico della repubblica di fronte alla quale i Democratici denunciano come «contrario ai valori americani» il «semi-fascismo» dei Repubblicani Maga, esortano a tornare alla «civiltà» e alla «decenza» nel confronto politico e riaffermano la loro fiducia nel sistema politico-istituzionale, ma appaiono incapaci di articolare una visione alternativa persuasiva che non sia quella della pura conservazione dello status quo, senza quindi riuscire a riconciliare e riunificare un Paese profondamente lacerato e iperpolarizzato.
Il termine “guerra civile” ha iniziato a fare tendenza sui social media dopo la sparatoria. Molte persone sui social media si sono affrettate ad abbracciare le teorie del complotto. I detrattori di Trump hanno ipotizzato che la sparatoria sia stata una messa in scena, mentre i suoi sostenitori sospettavano un attacco da parte della sinistra, anche dopo che l’Fbi aveva identificato l’uomo armato deceduto come Thomas Matthew Crooks, apparentemente un repubblicano registrato.

Lo scetticismo su entrambi i lati dello spettro politico rappresenta le profonde divisioni politiche che esistono negli Stati Uniti. Le due campagne presidenziali cercheranno senza dubbio di trarre il massimo profitto dall’incidente nei prossimi giorni. Ma, nell’opinione della stragrande maggioranza di analisti e commentatori, nella loro ricerca di vantaggi politici, i due partiti non dovrebbero ignorare la pericolosa escalation di violenza politica che deve essere contenuta con urgenza. Trump è uscito trionfante dall’incidente. Mentre gli agenti di sicurezza lo scortavano fuori dal palco sullo sfondo delle bandiere a stelle e strisce e di un cielo azzurro brillante, con la faccia insanguinata, lui alzava con aria di sfida il pugno in aria dicendo «Fight! Fight! Fight!» («combattere») e i suoi sostenitori cantavano “Usa, Usa!”.

Certamente, l’attentato attiverà la base Maga (come era cominciato ad avvenire dopo la condanna penale di Trump il 30 maggio), facendo aumentare significativamente le possibilità di vittoria di Trump. Soprattutto, ha spostato la narrazione dai suoi problemi legali e dalle sue carenze morali, rendendolo un martire, un eroe nazionale destinato ad essere assassinato che è pronto a difendere l’America tradita e abbandonata dalle sue élite e dalle sue istituzioni. Usa un linguaggio disumanizzante per parlare dei suoi antagonisti politici. La politica autoritaria di Trump è stata accompagnata da bigottismo, tribalismo politico virulento e dalla volontà di consentire che le sue preferenze fossero imposte e che i suoi nemici fossero puniti attraverso la violenza fisica. Il timore è che ora Trump approfitti di questo incidente per alimentare ulteriormente la violenza tra i suoi seguaci.

L’attentato è avvenuto solo due giorni prima della Convention Repubblicana di Milwaukee ( che si sta svolgendo dal 15 al 18 luglio), in Wisconsin (un altro Stato in bilico), in cui Trump è diventato ufficialmente il candidato del partito per le elezioni presidenziali del 5 novembre e ha indicato JD Vance come suo vicepresidente. Un oratore dopo l’altro si schiererà a Milwaukee per rendere omaggio a Trump, lodandolo come un uomo forte che è letteralmente a prova di proiettile – e deriderà Biden definendolo un debole, un 81enne fallito che sta contrastando le richieste dei colleghi democratici di abbandonare la corsa, e incolperà i suoi avversari per l’esplosione di violenza. «Quello di oggi non è solo un incidente isolato», ha twittato JD Vance, un senatore dell’Ohio indicato alla vicepresidenza di Trump alla Convention (sbaragliando il governatore del Nord Dakota, Doug Burgum e il senatore della Florida Marco Rubio). «La premessa centrale della campagna di Biden è che il presidente Donald Trump è un fascista autoritario che deve essere fermato a tutti i costi. Quella retorica ha portato direttamente al tentato assassinio del presidente Trump». Il repubblicano Mike Collins, della Georgia, è stato ancora più diretto, accusando il presidente Biden di aver ordinato l’assassinio del suo rivale. «Joe Biden ha inviato gli ordini», ha scritto.
I repubblicani hanno già nominato Trump alla presidenza due volte. Ma nel 2016 e anche nel 2020 ha dovuto affrontare critiche all’interno del suo stesso partito ed è stato l’underdog nella corsa per la Casa Bianca. Questa volta, tuttavia, Trump è in vantaggio nei sondaggi d’opinione dopo la disastrosa performance di Biden nel dibattito. E la sua presa del partito repubblicano è completa. Ed è stato incoronato, poco dopo che la giudice Aileen Cannon ha archiviato il caso contro Donald Trump per la vicenda dei documenti riservati della Casa Bianca sequestrati a Mar-a-Lago.

I dissidenti sono stati epurati, hanno perso i loro seggi al Congresso a favore degli alleati di Trump o sono andati silenziosamente in pensione. La co-presidente del Comitato nazionale repubblicano è la nuora di Trump, Lara. I circa 2.400 delegati e i cittadini americani ascolteranno Tucker Carlson, un conduttore televisivo che promuove il nazionalismo bianco; Franklin Graham, un cristiano evangelico che ha definito l’Islam “scellerato” e “malvagio”; Tom Homan, un sostenitore della linea dura sull’immigrazione che ha promesso di gestire la più grande forza di deportazione nella storia americana; Charlie Kirk, attivista di estrema destra e negazionista dei risultati elettorali; e Vivek Ramaswamy, un imprenditore biotecnologico che vuole aumentare la produzione di combustibili fossili. Anche i figli dell’ex presidente, Donald Trump Jr ed Eric Trump, avranno entrambi la possibilità di parlare, insieme alle loro partner Kimberly Guilfoyle e Lara Trump. Tutti sicuramente faranno la loro parte nello spettacolo di Trump.

La campagna di Trump ha delineato messaggi quotidiani con temi che si ispirano al suo caratteristico slogan “Make America Great Again”. Il tema di lunedì è l’economia: “Rendere l’America di nuovo ricca”. Trump ha delineato un programma di tariffe doganali radicali e di accelerazione della produzione di petrolio e gas, anche se ha già raggiunto un record sotto Biden. Martedì il tema sarà immigrazione e criminalità: “Rendere l’America di nuovo sicura”. Trump e i repubblicani ritengono che il dibattito sui confini sia tra i loro problemi più importanti. Hanno organizzato discorsi per i familiari delle persone uccise, presumibilmente da immigrati privi di documenti, come parte dei più ampi tentativi di Trump di incolpare la criminalità delle politiche di frontiera. Mercoledì sarà la giornata della sicurezza nazionale: “Rendere l’America forte ancora una volta”. I delegati e il pubblico possono aspettarsi di sentire argomentazioni secondo cui Biden è un comandante in capo e capo di Stato “debole” e “fallito”.

Il Partito democratico ha mostrato crepe nel sostegno al presidente Biden che Trump e i suoi alleati cercheranno di allargare. Questo è il giorno, in genere, in cui il candidato alla vicepresidenza si rivolge alla Convention. Infine, giovedì culminerà con lo stesso Trump: “Rendere l’America grande ancora una volta”. Il suo discorso di accettazione della nomina del partito sarà seguito attentamente per la tensione tra “carne rossa” per la base trumpiana e “moderazione” per recuperare voti negli Stati in bilico.

Per cui ora i riflettori sono tutti puntati su Trump ed è, ironicamente, ciò che vuole anche la campagna di Biden, dato che l’attenzione sull’idoneità del presidente in carica e sulle sue capacità cognitive ha eroso il suo sostegno. La speranza di Biden e dei Democratici è che, anche se l’attentato ha ridotto lo spazio per criticare personalmente Trump, tutta l’attenzione su Trump metta in risalto il suo estremismo, i problemi legali e l’agenda di estrema destra del suo partito, dettagliata nel vasto piano Progetto 2025 (922 pagine) elaborato dalla conservatrice Heritage Foundation con alcuni (almeno 140) dei più stretti alleati di Trump, dal quale ha tentato invano di prendere le distanze nelle ultime settimane.

La piattaforma di 16 pagine è fortemente influenzata dal nazionalismo bianco cristiano e condivide un significativo Dna ideologico con il Progetto 2025, che delinea una drammatica espansione del potere presidenziale e un piano per licenziare fino a 50 mila dipendenti pubblici, sostituendoli con i lealisti di Trump. Aleggia anche l’ipotesi che venga prospettata l’introduzione di un divieto nazionale sul diritto all’aborto senza eccezioni per lo stupro o l’incesto, con l’idea di imprigionare le donne e i loro medici. I democratici sperano che ciò possa incoraggiare gli elettori indecisi e più moderati ad allontanarsi da Trump.
Probabilmente Trump utilizzerà questa fase per trarre il massimo vantaggio dal tentativo di omicidio. La sparatoria si adatta bene alla narrazione secondo cui Trump è stato derubato del suo secondo mandato, attaccato e trasformato in una vittima da una politica corrotta, da una giustizia inquinata, da uno Stato controllato da élite pronte a tutto pur di bloccarne il ritorno al potere. Dopo la sua sconfitta per la rielezione nel 2020, si è presentato come il bersaglio dell’amministrazione Biden, avanzando accuse infondate di “interferenza elettorale” e dipingendo tutte le cause legali avviate contro di lui come persecuzione politica. Trump ha persino spinto la narrativa secondo cui il raid dell’Fbi del 2022 nella sua residenza di Mar-a-Lago per recuperare documenti riservati fosse un tentativo da parte dei federali di assassinarlo.

La base di Trump ha reagito rapidamente a qualsiasi atto percepito come un danno per lui. Ad esempio, dopo la sua condanna per 34 capi di accusa da parte di una giuria di New York a maggio, i sostenitori hanno auspicato attacchi ai giurati, la morte del giudice e disordini. I giornalisti presenti sulla scena della sparatoria alla manifestazione di sabato hanno riferito di minacce e insulti da parte della folla subito dopo l’incidente. Un giornalista di Axios ha addirittura assistito al tentativo di alcuni sostenitori di Trump di irrompere nell’area dei media prima di essere fermati dalle guardie di sicurezza.

Finora Trump ha scelto di moderare la sua retorica. Ha chiesto l’unità e di “non permettere al male di vincere”. Dato che si nutre di teorie del complotto e di messaggi polarizzanti, resta da vedere se scoraggerà la sua base dall’impegnarsi su queste strade dopo la sparatoria. Alcuni commentatori ritengono che Trump abbia l’opportunità di anteporre la pace e la sicurezza del Paese alle sue ambizioni personali: sostengono che forse arrivare così vicino alla morte cambierà la sua prospettiva sull’incitamento dei suoi sostenitori.
In caso contrario, la sparatoria di sabato potrebbe essere l’inizio di un periodo molto pericoloso per l’America. Abbiamo visto i suoi sostenitori impegnarsi in violenze di massa il 6 gennaio 2021 a causa di un’oppressione immaginaria. E ci sono stati altri attori, come organizzazioni di destra come i Proud Boys, che si sono impegnati nella violenza politica e vari fanatici individuali che hanno perpetrato sparatorie di massa e altri attacchi.
La diffusione delle teorie del complotto, del suprematismo bianco e della retorica apocalittica all’interno della destra ha incoraggiato tali atti violenti. Il tentato omicidio potrebbe gettare altra benzina sul fuoco del radicalismo violento. Ecco perché è fondamentale che Trump e i suoi alleati repubblicani, così come Biden e i democratici, affrontino la crescente polarizzazione nel Paese. La violenza politica rischia di diventare un punto fermo della politica americana.

Come nota il New York Times, il tentativo di omicidio contro l’ex presidente Trump sembra più destinato a dividere ulteriormente l’America che a riunirla. In un Paese in fiamme chi può guarire un Paese così minacciato dalla violenza e dalla divisione? La sparatoria di sabato è stata una tragedia che è stata a un passo dal diventare uno dei giorni più bui della storia americana. Potrebbe anche essere un punto di svolta per la corsa presidenziale di quest’anno e per la natura della politica statunitense. Sia l’attuale che l’ex presidente, insieme ai loro stretti alleati, hanno l’opportunità di fermare questa escalation di tensioni all’interno della società americana e di contribuire a garantire che la pace e la decenza prevalgano nella politica americana.

L’autore: Alessandro Scassellati Sforzolini è ricercatore sociale e attivista, collabora con Transform! Italia. Fra i suoi libri Suprematismo bianco (Derive e Approdi). Sulle elezioni americane v. anche dello stesso autore Cosa c’è dietro l’America bianca e arrabbiata che guarda a Trump

Nella foto: due frame di video sulla convention repubblicana di Milwaukee, 15 luglio 2024

Giorgia Serughetti: «L’ascesa al potere delle donne di destra non è femminismo»

I numeri sono sempre chiari, spesso impietosi. E fotografano un aspetto: meno di un terzo dei 193 Stati membri delle Nazioni Unite hanno avuto – nel corso della loro storia – una donna alla guida. Non solo. Attualmente, secondo l’ultima ricerca UN Women, pubblicata ad aprile scorso, il numero delle leader donne in carica è sceso dalle 17 del 2022 alle 12 del 2023. Questo lascia presagire che l’uguaglianza di genere in politica si allontanerà ulteriormente, slittando almeno di altri 130 anni. Negli ultimi dodici mesi, inoltre, alcune donne al governo sono state costrette a dimettersi o hanno lasciato per motivi diversi, personali e politici: dalla prima ministra neozelandese, Jacinda Ardern, alla premier della Moldavia, Natalia Gavrilita, fino al caso forse più noto di Sanna Marin, la leader del governo finlandese, uscita di scena all’indomani della sconfitta elettorale, frutto anche di una “bufera social” per alcune foto scattate ad una festa privata.

Analizzando le cose con troppa leggerezza, si potrebbe dire che in Italia la situazione potrebbe essere migliore, in controtendenza, poiché da quasi due anni a Palazzo Chigi siede Giorgia Meloni. E nell’ambito dell’Unione europea si potrebbe aggiungere l’esempio della presidente uscente della Commissione, Ursula von der Leyen, che corre verso il rinnovo della sua carica. E lo stesso potrebbe dirsi per Roberta Metsola, presidente del Parlamento europeo, in procinto di ottenere il bis. Accertato che le donne al potere nel mondo sono troppo poche, persino sempre di meno, possiamo stabilire che – laddove ci siano – si muovano realmente da paladine dei diritti femminili, contribuendo a far crescere politiche progressiste e una reale attenzione verso i temi più cari alle donne? Una risposta negativa a questo interrogativo arriva da Giorgia Serughetti, docente di Filosofia politica all’università Bicocca di Milano e autrice, tra gli altri, del saggio Potere di altro genere. Donne, femminismi e politica, pubblicato per Donzelli, nel quale la studiosa spiega perché «la vittoria di Meloni non è una vittoria di tutte le donne».

Serughetti si sofferma su una questione che ha tenuto banco negli ultimi due anni, il tema della rappresentanza, del rapporto tra donne e potere, alla luce di un fenomeno, giudicato dalla saggista come «piuttosto straordinario e a tratti paradossale», ovvero quello dell’ascesa delle donne al potere nel campo politico della destra. I recenti casi di donne ai vertici delle istituzioni, «ci permettono di riprendere questo tema e di rinterrogarlo alla luce di fenomeni piuttosto eclatanti e per molti aspetti nuovi» spiega la docente e scrittrice, sottolineando come «la salita delle donne al potere e la trasformazione delle condizioni strutturali che possono garantire il benessere e anche la libertà di tutte le donne non sono tra loro in un rapporto di causazione diretta».

Nel libro si sostiene l’esigenza di «abbandonare una comprensione ingenua del rapporto tra potere acquisito dalle donne nei luoghi decisionali e trasformazione della condizione delle donne. Senz’altro più donne che entrano nella sfera politica portano con sé anche una possibilità di allargare il campo di interesse della politica, maggiore attenzione alle questioni sociali, al sostegno alle famiglie, alla maternità e anche una sensibilità che gli studi rivelano essere maggiormente più femminile che maschile rispetto a questioni ambientali, o di inclusione della diversità» rimarca Serughetti. Però, aggiunge la saggista, «pensare che l’essere donna porti automaticamente con sé una visione progressista per le donne sarebbe un grandissimo errore. E lo è oggi, tanto più in modo evidente, nel momento in cui vediamo sempre più donne conquistare ruoli di potere», spiega ancora. Il caso di Giorgia Meloni è quello più rilevante, perché è la prima donna presidente del Consiglio nella storia italiana. E questo caso cade in un contesto in cui in Europa ci sono altre tre donne alla guida delle maggiori istituzioni dell’Ue: Ursula von der Leyen, che proviene dal Partito popolare europeo, verso la riconferma alla presidenza della Commissione europea; Christine Lagarde, economista di ispirazione neoliberista, al vertice della Banca centrale europea; e Roberta Metsola, cattolica e moderata, spesso su posizioni anti-abortiste, alla presidenza del Parlamento europeo.

Serughetti sottolinea come si tratti «di tre donne conservatrici, seppur in modo diverso, che non appartengono alla destra radicale ma sono conservatrici. Non stiamo parlando di figure che possono essere ‘apprezzate’ da chi invece si impegna per una trasformazione profonda della società. Questo innanzitutto ci deve portare a notare che le donne sono diverse. Non soltanto per condizioni sociali, culturali, status, ma anche diverse per le loro idee» sostiene Serughetti. La studiosa mette in evidenza come l’ascesa di donne di destra ai vertici della politica non abbia fatto crescere realmente i diritti delle donne, e finisca persino per diffondere una sorta di femminismo “distorto”.

«Oggi figure come Giorgia Meloni, in Italia, o come Marine Le Pen, in Francia, valorizzano il proprio essere donna, facendo anche uso in modo implicito ed esplicito di uno strumentario retorico, linguistico che è stato caratteristico del femminismo: cioè la forza delle donne, l’essere donne nel controllo della propria vita, capaci di competere in un mondo di uomini. E dicono in qualche modo di avere a cuore il destino delle donne, ma poi rivoltano la questione in funzione nazionalista, come fanno quando dicono che bisogna difendere le donne dal rischio che gli immigrati, in particolare i musulmani, portino indietro i nostri Paesi e introducano costumi retrogradi» è l’accusa mossa da Serughetti. Che aggiunge ancora: «Fanno un’operazione di partizione del collettivo delle donne, valorizzando soprattutto le donne e madri all’interno di famiglie tradizionali o eterosessuali. E il loro essere native. Fanno un’esaltazione dell’essere donna, ma con una commistione con l’ideologia della destra radicale, che è un’ideologia nativista, populista, tradizionalista e gerarchica» sottolinea ancora la sociologa.

L’esempio delle politiche per le donne può aiutare. «La destra ha parlato di proteggere le fasce più svantaggiate, di essere vicine alle persone mentre invece la sinistra si occuperebbe solo delle élite. Questa stessa destra, però, non ha protetto le pensioni delle donne, non ha fatto niente di quello che aveva promesso dal punto di vista dell’offerta di più protezioni, anche delle stesse madri di cui esalta il ruolo, perché in verità anche i sussidi per gli asili o i bonus sono sempre direzionati su un settore piccolo della popolazione, quello delle donne madri (e delle famiglie più numerose). Quindi si dimostra che la destra ragiona come fanno sempre le forze neoliberiste, cioè con la riduzione della spesa, vincoli di bilancio e direzionamento della spesa più che nella direzione della protezione sociale, piuttosto nel sostegno all’impresa o nella guerra. Su questo c’è anche una grande mistificazione ideologica» aggiunge Serughetti.

Eppure, già negli anni Ottanta, nel Regno Unito, anche in quel caso in ambienti conservatori e di destra, c’era già stata una donna primo ministro.
«Il caso di Margaret Thatcher ci presenta un importante antecedente, però porta con sé delle novità» rispetto a Meloni e Le Pen, sottolinea la docente. «Si pensi al fatto che queste donne vincano in contesti dove la leadership femminile è stata storicamente ostacolata e questo è il caso sicuramente dell’Italia, per cui dobbiamo interrogarci su che tipo di risorse poi queste donne riescano ad attivare, che consentano loro di conquistare la guida del Paese, che ne fa dei soggetti nuovi. In più, siamo di fronte a uno scarto rispetto a protagonisti del passato come Thatcher, dato dal fatto che donne come Marine Le Pen, in Francia, o Giorgia Meloni qui in Italia, semplicemente indossano il proprio essere donna come un vestito, che non nascondono ma nemmeno valorizzano. Questo è un po’ il caso di Thatcher, che non indossava abiti maschili: restava una donna nella sua immagine pubblica e tuttavia non valorizzava il suo essere donna, tendeva a rimuovere la differenza tra donna e uomo. Ossia siamo uguali, la mia competenza è pari a quella di un uomo: questo era il messaggio. Quindi essere donna era indifferente» sostiene ancora Serughetti.

E a sinistra, invece? Secondo la saggista, «c’è un’apertura dei partiti della sinistra alle parole chiave, ai motivi che provengono dai movimenti femministi, forse anche maggiore rispetto al passato. Elly Schlein vince la competizione per le primarie nel Partito democratico parlando di intersezionalità, della necessità di tenere stretti il tema dei diritti civili e sociali. Sta facendo un’operazione anche di grande vicinanza al lessico dei movimenti, in particolare del movimento transfemminista, del femminismo intersezionale. C’è un terreno di incontro e qualche volta l’acquisizione, da parte dei partiti politici, di parole d’ordine che provengono dai movimenti. Al tempo stesso, la divaricazione sembra grande per quanto riguarda la capacità effettiva di lavorare insieme, di trovare dei terreni di deliberazione comune, di elaborazione di idee e di proposte», aggiunge Serughetti, secondo la quale quello che è stato uno dei grandi fenomeni degli ultimi decenni, cioè la divaricazione tra partiti e società, resta vera anche per quanto riguarda i partiti della sinistra e il rapporto con il femminismo.

«Il caso Schlein è più rappresentativo di un tentativo di ricostruire un ponte, che però è molto fragile e la catena di trasmissione tra le domande che provengono dai movimenti e la rappresentanza politica sembra arrugginita, se non addirittura spezzata. Grandi manifestazioni femministe, come quella del 25 novembre scorso, non è stata solo la più grande manifestazione tout court. Ci mostra che lì ci dovrebbe essere un’attenzione speciale della politica, nel vedere dove si stanno muovendo i desideri delle persone e in particolare dei più giovani. Però, da una parte, chi milita nei movimenti condivide con la gran parte della popolazione un grande scetticismo, una grande diffidenza nei confronti della politica e dei partiti, in generale verso i meccanismi della rappresentanza, e quindi preferisce lavorare ad autorappresentare le proprie istante nelle piazze, invece di costruire dei legami con i partiti. E dall’altra parte, i partiti sono sempre un po’ in difficoltà per aver disappreso proprio la pratica dello stare nella società».

Serughetti anche nel libro mette in evidenza che questa diffidenza reciproca rende molto difficile un dialogo. «Nelle ultime pagine cito due testi che sono entrambi della fine degli anni Settanta, e precedono di poco quel reflusso che poi sarebbe stato caratteristico degli anni Ottanta e ha aperto la strada al grande ritorno al privato con il berlusconismo. Quello che non era risolto allora, non lo è neppure oggi. i partiti non si sono trasformati per rendersi più aperti, più capaci di accogliere nuove istante che provengono dai movimenti, se possibile sono soltanto peggiorati. Hanno piuttosto investito sulla leadership invece che sull’apertura alla partecipazione. Questa democrazia ha bisogno di un profondo rinnovamento, ma ancora oggi è difficile capire come può sopravvivere senza dei corpi intermedi. Se i partiti, se i sindacati servono, è essenziale che si contaminino con il femminismo ma è anche essenziale che le femministe li contaminino. È un’esigenza di ritrovare nuove connessioni».

Ma quali sono le istanze prioritarie del femminismo che bisognerebbe mettere nell’agenda politica? Secondo Serughetti, le questioni importanti sono il diritto all’aborto e il contrasto della violenza. «Sono al centro della mobilitazione femminista, su cui si giocano tante partite politiche. La violenza è un tema che tende a mettere d’accordo le diverse forme politiche, mentre sull’aborto la situazione è più polarizzata».
Serughetti, continua approfondendo il ragionamento: «La violenza sulle donne è sia un risultato sia uno strumento di perpetuazione di un ordine del dominio, che in verità coinvolge tutte le dimensioni di oppressione, quella economica, persino quella razziale. È un grande terreno di incontro di diverse istanze. L’aborto è una grande frontiera di scontro con il fronte reazionario, che vorrebbe sottrarre parti del diritto di autodeterminazione della donna. Io penso che dare un peso nuovo e centrale alla questione economica e materiale delle donne sia una priorità, anche per evitare usi parziali e persino superficiali delle battaglie femministe». Secondo Serughetti, «la battaglia contro la violenza non si può combattere dimenticandosi le differenze socio-economiche tra le donne, di status migratorio o del colore della pelle o differenza di sessualità. Sono tutte dimensioni che vanno tenute insieme. Le lotte per il lavoro sono fondamentali».
Partiti politici e dibattito nei media, però, spesso trascurano le questioni di genere, com’è successo nell’ultima grande consultazione, le Europee di giugno scorso. «I programmi elettorali dei candidati europei non hanno tenuto in considerazione le questioni di genere. I temi che riguardano l’agenda femminista sono stati trascurati. La destra dei conservatori e degli identitari ritiene che le materie culturali che riguardano l’identità nazionale, le politiche che riguardano la famiglia, la sessualità e la riproduzione debbano rimanere di competenza nazionale, e che l’Europa limiti le proprie prerogative di carattere comunitario a pochi temi: l’economia, la difesa e poco altro. Questo significa ridurre di molto il ruolo dell’Europa, nel dare indicazioni forti sulla tutela dei diritti. Non a caso, i diritti dell’aborto sono stati contrastati dai parlamentari delle forze di destra e dai Paesi che sono governati dalle destre» sottolinea ancora Serughetti.

La distanza temporale rispetto ai libri precedenti ha consentito all’autrice di affrontare un altro tema, altri interrogativi possibili intorno alla libertà delle donne, visto che in questi anni l’argomento del potere e della rappresentanza è tornato ad essere di particolare rilievo. Nel 2017 c’era stata la pubblicazione per minimum fax di Libere tutte (con Cecilia D’Elia), adesso c’è la necessità di riprendere il tema a distanza di anni, con un diverso focus tematico. Libere tutte affrontava principalmente i nodi relativi al corpo, quindi la sessualità, la maternità, l’aborto. Grandi dilemmi del femminismo che riguardano la libertà delle donne ma restava fuori il dibattito intorno alla rappresentanza, che viene affrontato in Potere di altro genere.

«Ci sono tanti tipi di femminismo. E ancora: l’antirazzismo, il femminismo nero. E poi è stato anche una grande congiunzione tra istanze antisessiste, antirazziste, il femminismo post coloniale che oggi possiamo chiamare decoloniale, perché nasce anche dall’incontro di donne che provengono da Paesi che hanno subito la colonizzazione e che oggi la subiscono in modi diversi attraverso l’imperialismo economico e culturale delle potenze occidentali e degli attori economici del nord del mondo» spiega Serughetti. «Anche nel nord del mondo i nuovi femminismi si ispirano a parole nuove del femminismo – che ancora sopravvive nel senso che sopravvivono le protagoniste – rispetto al femminismo degli anni Ottanta. Ci sono parole nuove, come intersezionalità, che mettono al centro l’interconnessione tra i sistemi di dominio e quindi tra sistemi di oppressione. E per alcune, ad esempio per le femministe radicali più legate alla tradizione degli anni Settanta, sembra mettere in ombra la specificità delle lotte femministe. C’è un dibattito interno al femminismo che poi genera grandi controversie, come quella intorno all’identità di genere, al rapporto intorno ai movimenti LGBT+, grandi questioni come quelle che hanno spaccato il femminismo italiano, come quella della gestazione per altri, delle tecnologie riproduttive. Il femminismo possiamo ancora chiamarlo al singolare, nella misura in cui troviamo che ci sia una matrice comune nella lotta all’oppressione delle donne in tutte le sue forme, però dobbiamo anche riconoscere che assume forme e strategie differenti» conclude la saggista.

Nella foto: Manifesti anti Marine Le Pene, 2017 (Celette)