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L’Elba book festival compie 10 anni. All’insegna dell’incontro con l’altro

Elba Film festival

Tra i protagonisti della decima edizione dell’Elba Book festival che si apre il 16 luglio c’è Niccolò Nisivoccia. Con “la storia di ognuno” punta a riportare la scrittura a un approccio empatico e inclusivo. Lo abbiamo intervistato

Scrivere è prestare attenzione alla realtà, è prendersene cura attraverso l’uso della parola. Su questo tema interviene il 16 luglio, alle 21:30, lo scrittore e giurista Niccolò Nisivoccia inaugurando il primo dibattito del festival dedicato all’editoria indipendente, “Alla ricerca di un’attenzione collettiva”, insieme al graphic journalist Gianluca Costantini e a Laura Paracini, attivista di Ultima Generazione, moderati dal giornalista Stefano Biolchini. Oltre alla conoscenza interiorizzata del paesaggio isolano, aspro quanto rigoglioso, a portare nuovamente Nisivoccia sul Tirreno è stata la pubblicazione de La storia di ognuno, edito di recente da Castelvecchi. Si tratta di dieci vissuti accomunati dal soggiorno nella Casa della Carità di Milano, della metropoli più frenetica del nostro Paese, avendo trovato in essa un luogo di accoglienza. Uomini, donne, giovani, anziani, famiglie intere, italiani, stranieri, profughi, richiedenti asilo: abbandonando qualsiasi posa o barriera stilistica per abbracciare un approccio empatico, l’autore ha passato in rassegna «un’umanità composita e dolente», ossia chiunque abbia avuto bisogno di essere accolto e ascoltato, al di là di qualunque categoria o classificazione superficiale del dolore e delle difficoltà.

«Alla base della della nostra casa c’è la capacità semplicemente umana e umanitaria di mettersi dalla parte dell’altro. Difatti la struttura potrebbe offrire anche solo un letto, una doccia, un pasto, un supporto psicologico o legale, un’assistenza diurna. Ma anche qualcosa di più, a chi lo volesse, a chi fosse disponibile a riceverlo; potrebbe offrire sostegno nella ricostruzione di un futuro, ad esempio, nello studio o nella frequentazione di un corso professionale, o nell’apprendimento di un mestiere», racconta Nisivoccia.
Da subito si palesa un libro di incontri, che ha composto con la necessità di elidere il suo “io”, per quanto illusorio. «Ho tentato di farlo scomparire affinché affiorasse solo l’io di chi di volta in volta si espone. Tuttavia l’io di chi scrive è comunque sempre presente, sebbene contro la sua volontà; perciò mi sono concentrato su una forma di riscrittura, il più possibile neutrale e aderente alla versione orale dei miei protagonisti. Ogni storia è frutto di svariati incontri con chi me l’ha riportata: loro parlavano, io prendevo appunti – cercando di rispettare persino la consecuzione delle parole che mi venivano riferite, come se le stessi registrando – ma senza anteporre uno strumento fisico, un gesto meccanico e lontano dalle sensazioni che il ritmo delle singole voci mi avrebbe trasmesso a presa diretta. È una serie di testimonianze che andavano salvate dall’oblio per il grado di coinvolgimento che producono nel lettore».
Vite che non sono la mia (Adelphi, 2011) è un celebre titolo di Carrère. E anche queste sono vite distanti, spesso estreme, ma che potrebbero riguardarci. Certo, il suo punto di vista rimane esterno. Dunque in cosa consiste questo avvicinarsi con l’altro da sé?
«L’identificazione nella vita di un altro non è mai veramente possibile, e lo è ancora meno quando le culture di appartenenza sono diverse. Pensarlo sarebbe non solo illusorio, ma anche ipocrita, e addirittura arrogante. Non a caso, nella premessa cito una pagina di un giornalista canadese, Matthieu Aikins, che ha viaggiato per mesi dall’Afghanistan all’Europa insieme a un migrante fingendo di esserlo a sua volta, e traendone poi un volume illuminante, Chi è nudo non teme l’acqua (Iperborea, 2023). Aikins avrebbe il diritto di rivendicare un’identificazione nell’esistenza di un migrante costretto a lasciare il suo Paese: ha viaggiato non solo con uno di loro, ma come loro, mettendo in pericolo il suo corpo e il suo presente».
Eppure il premio Pulitzer è il primo ad ammettere che un’identificazione non sia possibile…
«Cito testualmente le sue parole quando dice che non può pretendere di essere stato davvero un rifugiato, tantomeno di capire cosa significhi esserlo, e quando ribadisce che la sua epica inchiesta intende mostrare tale impossibilità. Riconoscerla è doloroso, poiché vorremo fossimo riconosciuti come tutti uguali, e che uguaglianza e solidarietà alla fine vincessero su tutto. Ma i confini esistono anche dentro di noi e non possiamo trascenderli con un atto di volontà.
Il concetto di attenzione presuppone che l’ascolto non sia sottovalutato. Ma in assenza di esso come potrebbe l’incontro con l’altro toccare l’interlocutore sotto pelle e misurarne i limiti?
Finendo per scompaginare il suo ordine precostituito e, ahimè, pregiudiziale. In primis, è una questione di rispetto: ascoltare significa riconoscere al prossimo che abbiamo davanti una sua autonoma e singolare dignità di essere, offrendogli il tempo e lo spazio per manifestarsi oltre le apparenza. E senza pretendere di sovrapporle intellettualismi, manierismi, interpretazioni di sorta. Ma soprattutto senza sovrapporle né il nostro sguardo, né il nostro vocabolario, né i nostri registri. Da un certo punto di vista, raccontare una storia altrui con parole nostre rischia sempre di essere anche un gesto violento. Il nostro sguardo sugli altri, a maggior ragione se provenienti da situazioni o contesti diversi dai nostri, quali che siano, è sempre uno sguardo non solo presuntuoso, ma pure invadente e di matrice coloniale.
In sostanza, ascoltare significa predisporsi al dialogo, restituendosi un senso a vicenda, nell’alternanza fra parole e silenzi. Ecco, lei rimarca un desiderio di condivisione e di vicinanza; il desiderio di sporgersi verso il mondo che aveva già messo nero su bianco con Il silenzio del noi (2023). Perché persevera nel recupero di un soggetto comunitario e aggregante?
Raccontare è un modo per fare i conti con i propri traumi. In arabo il termine “parola” proviene da “ferita” e parlare diviene un metodo per cui si curano ferite con altre ferite, sentendosi lacerati e purificati al contempo. I segmenti privati che ho raccolto nel volume condividono fragilità e disperazione. Sono vicende di guerra, esilio, abbandono e dipendenza dalla droga: ognuna contiene una luce, però, motivata dagli scarti del destino. Non sono trame di romanzi e per le persone che ho avuto di fronte, rivelarsi è valso per riconciliarsi con il proprio passato.

 

Elba book festival 2024

Da martedì 16 a venerdì 19 luglio, dopo il tramonto, nelle piazzette e lungo i vicoli di Rio nell’Elba, si svolgerà la decima edizione dell’Elba Book Festival. Scrittori, giornalisti, artisti e operatori culturali e tanti editori, Quest’anno gli stand saranno ventitré, tra cui Mimesis, Bietti, Le Plurali, Edicola Ediciones, Exòrma e Red Star. Tantissimi gli ospiti del direttore artistico Matteo Bianchi: da Carlo Lucarelli a Tomaso Montanari ( autore del recente, bellissimo Le statue giuste edito da Laterza)

 

 

Trump e l’elefante nella stanza del dibattito italiano

Il dibattito politico italiano a pochi minuti dal fallito attentato in Pennsylvania ancora una volta brilla per provincialismo e malafede, a testimonianza dell’infimo livello raggiunto.

La richiesta di non trasformare gli avversari politici in nemici fatta da chi qui da noi ha trasformato la politica in guerra permanente è la prima caratteristica che salta agli occhi. La stessa intitolazione dell’aeroporto di Malpensa all’ex presidente Silvio Berlusconi è stata usata come un randello contro l’opposizione, lasciando intendere una soddisfazione più legata alla vendetta che alla memoria.

L’elefante nella stanza della politica italiana dopo gli spari contro Trump lo indica Più Europa che ricorda come l’AR-15, il fucile usato dall’attentatore dell’ex presidente del Consiglio, sia una vecchia conoscenza dei fatti di sangue americani. È stato usato nel 2018, il giorno di San Valentino, da un 19enne per il massacro di 17 persone alla Marjory Stoneman Douglas High School in Florida; è stato usato il 25 maggio 2022, per il massacro alla Robb Elementary Schooldi Uvalde, in Texas; e il 28 marzo 2023, nell’istituto Convent School di Nashville, con questo fucile sono stati uccisi tre bambini di 9 anni, la preside, il custode e una supplente.

Negli Usa un ventenne ha acquistato tranquillamente quel fucile, si è appostato su un tetto poco prima di un comizio del candidato presidente e ha sparato. Sarebbe interessante sapere cosa ne pensino quelli che da anni spingono per la libera circolazione delle armi anche qui da noi, come il ministro Matteo Salvini e i suoi compagni di partito nella Lega oppure come i dirigenti di Fratelli d’Italia sotto l’ombra del loro parlamentare Emanuele Pozzolo, con una pistola in tasca alla festa di Capodanno.

Niente di tutto questo. Anche le pallottole contro Trump sono solo micce per le guerre di cortile.

Buon lunedì.

Non si salva la Sanità con i fichi secchi

Il decreto sulle liste d’attesa per ora non ha ridotto di un centesimo le liste d’attesa. In compenso ha fatto infuriare le Regioni e le Province autonome che l’hanno bollato come propaganda. 

Regioni e Province scrivono quello che fin dall’inizio era sotto gli occhi di tutti: illudersi di riformare la sanità pubblica senza aggiungere soldi è puro marketing sanitario, anche perché, scrivono i presidenti, “il Fondo sanitario nazionale è già largamente insufficiente”. 

Secondo la segretaria confederale della Cgil Daniela Barbaresi «Questa bocciatura dovrebbe preoccupare molto il ministro della Salute e indurlo ad occuparsi seriamente del servizio sanitario nazionale abbandonando la strada dello smantellamento – dice -. È sempre più evidente la volontà del governo Meloni di privatizzare la salute. Non c’è nessuna vera risposta alle persone che attendono di essere curate e i roboanti annunci pre-elettorali si sciolgono come ghiaccio al sole». 

La Conferenza delle Regioni e delle Province autonome ritiene “imprescindibile lo stralcio dell’articolo 2 la cui attuale formulazione è quanto meno lesiva del principio di leale collaborazione” che demanda all’Organismo di verifica e controllo sull’assistenza sanitaria la gestione delle segnalazioni di cittadini, enti locali ed associazioni di categoria, scavalcando le Regioni. Le Regioni e le Province Autonome valutano dunque “che l’attuale formulazione, ove non emendata, presenti dei profili di illegittimità costituzionale”. 

È l’elastico dell’autonomia differenziata che diventa indifferenziata alla bisogna. Sono le famose “nozze con i fichi secchi”. 

Buon venerdì. 

 

Silvio ne sarebbe felicissimo

C’è un chiaro indizio dietro l’abolizione del reato di abuso d’ufficio che dice tutto quello che c’è da dire. Ieri il festante viceministro Francesco Paolo Sisto ha dedicato il voto della Camera che ha approvato in via definitiva il cosiddetto ddl Nordio (199 sì e 102 no) a Silvio Berlusconi. «Con questa approvazione inizia per l’Italia un “new deal” teso a restituire ai cittadini la fiducia nella giustizia. Non possiamo che dedicare il traguardo al nostro presidente Silvio Berlusconi. La guida di Antonio Tajani ha rilanciato il Dna di Forza Italia», ha detto il vice ministro. 

La riabilitazione di Berlusconi (con annesso tentativo di aeroporto dedicato) è il passaggio fondamentale per la tenuta della narrazione rovesciata, quella secondo cui la fiducia dei cittadini nella giustizia sarebbe alimentata dalla cancellazione di un reato. È curioso sottolineare che un governo che risponde con il panpenalismo agli atti dimostrativi degli ambientalisti o al disagio strutturale di zone periferiche come Caivano nel caso di un tipico reato da colletti bianchi agisca al contrario. Se sono dei poveracci o dei soggetti deboli ci si inventa un reato su misura come deterrente, se invece si tratta dei livelli superiori allora si cancellano i reati in cui potrebbero inciampare. 

Non è un caso che ieri sia passato anche un emendamento della Lega che propone un’aggravante di reato (se «la violenza o minaccia a un pubblico ufficiale è commessa al fine di impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di una infrastruttura strategica») che sembra cucito addosso al progetto di costruzione del Ponte sullo Stretto. 

Non ci sono dubbi, Silvio ne sarebbe felicissimo. 

Buon giovedì. 

Genocidio di Srebrenica, il negazionismo serpeggia nei Balcani

Quando il 23 maggio scorso le Nazioni Unite hanno approvato la risoluzione che riconosce ufficialmente il massacro di Srebrenica come “genocidio” e istituisce la “Giornata mondiale della memoria” ogni 11 luglio, diversi Paesi hanno levato gli scudi opponendosi con il proprio voto: «Aprirebbe un vaso di Pandora di vecchie ferite, creerebbe un caos politico» sono stati i commenti del presidente serbo Aleksandar Vučić, che ha invitato gli Stati membri a votare contro. Oltre alla Serbia e Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina, si sono espressi contro la risoluzione 19 Paesi tra cui Russia, Cina, Ungheria.
Un intero fronte (lo stesso che si è dimostrato favorevole a Putin negli ultimi anni di guerra) si oppone al riconoscimento della più grande uccisione di massa dopo la seconda guerra mondiale: l’11 luglio del 1995 più di 8mila uomini e ragazzi bosniaci sono stati torturati, uccisi e gettati nelle fosse comuni dai miliziani serbi nei pressi di Srebrenica, territorio montuoso della regione bosniaca, in una zona protetta dai caschi blu olandesi dell’Onu: una tragedia i cui responsabili sono stati accertati e puniti solo di recente.
Nel 2019, la Corte suprema olandese ha confermato la responsabilità parziale dei Paesi Bassi per la morte di circa 350 musulmani bosniaci assassinati dalle forze serbe a Srebrenica.
La condanna di Ratko Mladić, capo militare dei serbi e tra i responsabili del massacro, è arrivata solo nel 2021 dal Tribunale Internazionale dell’Aja mentre quella di Radovan Karadžić, ex presidente della Repubblica serba di Bosnia-Erzegovina, è arrivata nel 2016. I capi d’accusa: crimini contro l’umanità e genocidio.
Ad oggi, per molti, i due sono eroi nazionali, secondo le testimonianze del Srebrenica Memorial Center, che nel 2021 ha analizzato in un report gli episodi di negazionismo del genocidio. Non è raro trovare scritte e disegni sui muri in questi anni che inneggiano ai capi militari serbi.
Un revisionismo istituzionalizzato: il presidente serbo Aleksandar Vučić, con una bandiera addosso, immediatamente dopo la risoluzione Onu di maggio, ha dichiarato: «Coloro che volevano umiliare il popolo serbo hanno fallito e non ci riusciranno mai. Volevano colpirci, ma non ci sono riusciti e non ci riusciranno mai. Viva il popolo serbo, viva la Serbia!»,
opponendo il nazionalismo alla memoria di un genocidio.
La risoluzione istituisce la giornata internazionale della memoria, condanna ogni negazionismo, esorta i Paesi a intraprendere azioni educative per commemorare e sensibilizzare contro i crimini di genocidio.

La marcia della morte ora marcia della Pace

«Risoluzione che avrebbe dovuto essere ratificata molto prima», sostengono gli organizzatori della marcia della pace, Mars Mira, una commemorazione che ripercorre quella che fu la “marcia della morte”, la fuga nei boschi intorno a Srebrenica che circa 15mila bosniaci (tra cui donne e bambini) intrapresero per più di 100 km per cercare di mettersi in salvo. Due terzi di loro furono catturati e uccisi.
La “morte” ha lasciato spazio alla “pace” nelle intenzioni degli organizzatori, che raccontano di una marcia partecipata ogni anno da 5-6mila persone e che richiede un lungo lavoro annuale di advocacy per la riconciliazione e la pace.
Solo lo scorso luglio il governo della Federazione di Bosnia ed Erzegovina ha dichiarato l’11 luglio Giornata nazionale di lutto per le vittime del genocidio di Srebrenica ma la memoria della tragedia collettiva è viva ogni giorno nel Paese e non trova pace. Continua infatti periodicamente l’identificazione di cadaveri nel Podrinje identification project di Tuzla, uno dei più grandi e attivi centri di identificazione delle vittime al mondo. Il progetto, patrocinato dall’International commission on missing persons (Icmp), utilizza tecnologie all’avanguardia con le quali è stato possibile negli anni il ritrovamento di 23mila persone delle 30mila scomparse durante la guerra di Bosnia. È il maggior numero di persone scomparse recuperate e identificate a seguito di un conflitto armato in qualsiasi parte del mondo, fatto che ha reso il Paese uno dei più avanzati nel settore della ricerca forense.
Le fosse comuni in Bosnia ed Erzegovina hanno richiesto approcci unici per identificare le vittime recuperate da esse. Più di 90mila persone hanno donato il proprio sangue alla Commissione internazionale per le persone scomparse, sperando di scoprire il destino dei loro cari.
Ogni anno i resti di alcune vittime identificate vengono seppelliti al cimitero di Potočari che ospita le 6.751 vittime del genocidio riconosciute finora. Durante il corteo commemorativo di quest’anno, verranno sepolti i resti di 14 persone, di cui il più giovane aveva 17 anni, il più anziano 68.  Furono uccisi per la maggior parte giovani tra i 20 e i 40 anni. Al cimitero di Potočari ad oggi sono ancora senza nome 1.700 persone disperse, i cui resti devono ancora essere trovati e identificati.
Tra le raccomandazioni, la risoluzione Onu del 23 maggio «sottolinea l’importanza di completare il processo di ricerca e identificare le restanti vittime del genocidio di Srebrenica e accordare loro sepolture dignitose». La questione delle sepolture è, infatti, una ferita aperta nella memoria. «L’esercito serbo si accanì sui cadaveri con la collaborazione delle società dei servizi pubblici che accettarono di fare a pezzi i corpi e spostarne i resti dalle fosse comuni primarie in luoghi secondari, a volte a centinaia di chilometri», raccontano da Mars Mira.

La tragedia negata

La risoluzione Onu è stata definita dalla Serbia e dai Paesi che si sono espressi contro, “politica”. Ma politico è il negazionismo che si accanisce contro le atrocità di cui un intero popolo porta ancora addosso le conseguenze.
Gli organizzatori della Marcia raccontano che, dopo la legge del 2021, il negazionismo tra la popolazione civile è diminuito, o diventato meno esplicito. La legge, fortemente voluta da Valentin Inzko, Alto Rappresentante Onu per la Bosnia-Erzegovina, mette al bando la negazione pubblica, l’apologia, la banalizzazione o la giustificazione del genocidio, dei crimini contro l’umanità o dei crimini di guerra quando ciò avviene in un modo che «potrebbe incitare alla violenza o all’odio».
Inzko all’epoca affermò di aver preso questa decisione perché la negazione del genocidio e dei crimini di guerra creava «una notevole difficoltà» per l’attuazione civile dell’accordo di pace di Dayton (l’accordo che sancì la fine della guerra in ex Jugoslavia e l’intangibilità delle frontiere).
In realtà, fino al 2021, quando il Sebrenica Memorial Center pubblica il suo dossier, la propaganda negazionista imperversa a vari livelli e lavora ai fianchi della memoria su più fronti: mettendo in discussione il numero e l’identità delle vittime, con teorie del complotto che diffondono dubbi sulle sentenze dei tribunali internazionali, e con un revisionismo storico nazionale trionfalista.
Durante il periodo di riferimento, dal 1 maggio 2020 al 30 aprile 2021, sono stati identificati 234 atti di negazione del genocidio nel linguaggio dei media della Bosnia-Erzegovina e della regione circostante. La maggior parte di questi incidenti (142) sono stati registrati in Serbia, 60 in Bosnia-Erzegovina (di cui 57 nella Republika Srpska) e 19 in Montenegro. La maggior parte dei negazionisti opera proprio nella politica: si tratta di leader e membri di partiti, nonché funzionari pubblici. In decine di casi sono persone che ricoprono cariche pubbliche nell’esecutivo del governo. Dopo la politica vengono i media: non sono rare le pubblicazioni di articoli e resoconti negazionisti nei settimanali e opuscoli diffusi in questi anni nei Covid hospital di Belgrado. E ancora, manifestazioni che glorificano i criminali di guerra, graffiti che celebrano Ratko Mladić e il nazionalismo serbo. Nei racconti serbi del genocidio le condanne vengono considerate “politiche”, con la stessa argomentazione con cui si archivia la decisione Onu, mentre vengono diffuse teorie su una cospirazione internazionale antiserba e si assiste a episodi di vandalismo e razzismo nei confronti delle comunità musulmane bosniache. Perfino l’arte e la creatività vengono messe al bando dai negazionisti: il film Quo vadis, Aida? di Jasmila Žbanić, la storia di un’interprete bosniaca che lavora alla base Onu di Srebrenica, presentato nel 2020 alla Mostra del cinema di Venezia, è stato criticato e denigrato perfino per la scelta del nome Aida, considerato non sufficientemente musulmano. Il film fu definito dal negazionismo serbo “film di propaganda”. Gli attori che hanno recitato nel film bollati come traditori.

Accade anche che la storia scritta dai vincitori, quando non nega, nasconde. O racconta parzialmente. Circa due anni dopo l’accertamento delle responsabilità dei caschi blu olandesi che si ritirarono da Srebrenica, zona protetta, di fronte all’esercito serbo nel luglio del 1995, l’Olanda, a febbraio 2021, decide di risarcire i veterani per i traumi conseguenti all’aver assistito al massacro. Nonostante l’ammissione di un evento così tragico, il genocidio di Srebrenica nei Paesi Bassi non viene raccontato, o descritto en passant sui libri di storia come un episodio delle guerre jugoslave conseguenti alla guerra fredda, o  tasmesso ai giovani dal punto di vista dei soldati olandesi senza che si parli di genocidio, o di pulizia etnica.
Nei Balcani l’odio etnico, la retorica nazionalista, e gli scontri all’interno del governo tripartito in Bosnia ed Erzegovina, acuiti dall’invasione russa dell’Ucraina, minano ancora il fragile equilibrio costruito dagli accordi di Dayton.
Lo scorso marzo il Consiglio europeo ha approvato l’avvio dei negoziati di adesione della Bosnia ed Erzegovina all’Unione, mentre la Serbia dovrebbe fare ancora molta strada in termini di riforme democratiche per concretizzare il proprio percorso di adesione all’Ue. Percorso che probabilmente non interessa poi così tanto a Vučić, visto il legame sempre più simbiotico con la Russia di Putin.
Dopo il genocidio e il suo devastante impatto sulla società civile e sui sopravvissuti, non ci sarà riconciliazione possibile in Bosnia ed Erzegovina che prescinda dal riconoscimento unanime del genocidio di Srebrenica, da parte della società civile e della comunità internazionale. La risoluzione Onu, in definitiva una specie di ammenda delle responsabilità delle Nazioni Unite, è solo il primo passo.

Nella foto: Il muro con i nomi delle vittime di Srebrenica (Michael Büker)

Una nuova base militare incombe sul parco di San Rossore

Mezzo miliardo di euro di spesa per un’opera caratterizzata da «un elevato grado di complessità progettuale, da una particolare difficoltà esecutiva o attuativa, da complessità delle procedure tecnico amministrative» che comportano «un rilevante impatto sul tessuto socioeconomico a livello nazionale, regionale o locale». Sono queste alcune delle caratteristiche (come si legge nel testo del decreto-legge 29 giugno 2024, n. 89 Infrastrutture) della nuova contestata base militare che da più di due anni “aleggia” sul territorio pisano, fra il parco di San Rossore, Pisa e la vicina città di Pontedera, al centro di una procedura autorizzativa agevolata dalla natura “strategica” e atta alla “difesa nazionale”, blindata e vincolata dalla nomina di un commissario, identificato nel presidente del Consiglio superiore dei Lavori pubblici Massimo Sessa, da sempre impermeabile alle richieste di rendere pubblici i dettagli del grande progetto.

Nebbie che si sono diradate grazie all’opera d’indagine della sinistra radicale pisana e del suo consigliere comunale della lista “Una città in Comune” e Rifondazione Francesco Auletta, che documenti alla mano ha potuto snocciolare gli impressionanti numeri di una mega-struttura destinata ad ospitare il  Gruppo intervento speciale del 1° Reggimento Carabinieri paracadutisti «Tuscania» e del Centro cinofili, due reparti d’élite da sempre impegnati in varie missioni militari all’estero. «Ancora una volta tutti sapevano e tutti hanno finto di non sapere – dice Auletta –. Ma ancora una volta li abbiamo smascherati, grazie alla determinazione propria delle lotte che nascono dall’amore e dalla difesa del territorio, e che vincono sulla patologica omertà e mancanza di trasparenza delle forze di centrodestra e centrosinistra che governano a livello locale e nazionale».

Le previsioni di spesa circolate negli ultimi due anni, che parlavano al tempo di 190 milioni di euro da pescare peraltro nel Fondo sviluppo e coesione e non nelle spese militari dirette, altra nota dolente, erano alquanto ottimistiche: per la nuova base adesso si parla infatti di una cifra pari a 520 milioni di euro. Solo le strutture, che avranno il loro centro operativo nella località di San Piero a Grado, richiederanno una spesa di 400milioni di euro. Senza considerare i 120 milioni destinati alla bonifica del reattore nucleare dismesso e mai bonificato presente all’ex Centro interforze Studi per le Applicazioni militari (Cisam). Soldi «già previsti e dovuti da oltre 20 anni come ribadito anche in una recente relazione della Corte dei Conti» fa sapere Auletta.

«Come era stato ampiamente previsto e denunciato dal Movimento No Base e dai tanti che come noi si sono sempre mobilitati contro quest’opera, il nuovo progetto della base militare nel cuore del Parco di San Rossore e per una parte anche a Pontedera, frutto dell’intesa bipartisan, è ancora più impressionante di quello pensato da Draghi e Guerini nel 2022 nell’area di Coltano – spiega il consigliere Auletta –. Non solo sono più che raddoppiati i costi e quindi le risorse sottratte ai bisogni sociali, ma sono raddoppiate anche le superfici verdi che questa opera bellica occuperà con un devastante impatto ambientale. Di questi, come abbiamo denunciato già negli scorsi giorni, 92.5 milioni sono già stanziati per il primo lotto: 72.5 con il Dpcm del 9 maggio 2022, e 20 milioni con DL infrastrutture. I primi vengono dal Fondo di Sviluppo e coesione, mentre i secondi dal ministero delle infrastrutture, con l’intento non dichiarato, ma evidente, di avviare i cantieri entro la fine dell’anno. Per i restanti 400 milioni di euro ad oggi previsti, ma che lieviteranno ulteriormente, non è specificato da dove saranno presi».

La mappa del progetto (dal testo del decreto-legge Infrastrutture)

I costi lievitano anche per l’imponente aumento delle superfici: dai 70 ettari previsti inizialmente sull’area di Coltano si passa, guardando le superfici indicate nella mappa presente nei documenti disponibili alla commissione, a circa 130 ettari: 40 ettari destinati ai Gruppo intervento speciale, 20 ettari dedicati al I reggimento Tuscania in aree che sono boscate all’interno del Parco naturale di Migliarino San Rossore Massaciuccoli e altri 40 ettari circa per il poligono di tiro da 500 metri e la pista di addestramento intorno all’area della tenuta Isabella a Pontedera, area oggi completamente verde e che ha già mostrato la sua fragilità dal punto di vista della tenuta idraulica e su cui un’opera del genere non farà che peggiorare la situazione. Il resto, circa 30 ettari, lo si vorrebbe destinare alla parte alloggiativa, alle parti comuni e agli impianti sportivi, in un’area già parzialmente edificata del Cisam della Marina Militare.

Più chiara la partita delle compensazioni come anche quella di Pontedera. Nella città della Piaggio, dove i verbali dei tavoli inter istituzionali dei mesi scorsi fanno curiosamente coincidere le compensazioni e le stesse infrastrutture militari, si prevede di realizzare «una pista addestrativa» ed «un poligono da 500 metri». Anche Denise Ciampi, neoeletta consigliera comunale della lista Pontedera a Sinistra annuncia battaglia: «Il primo atto che depositerò chiederà conto del coinvolgimento del territorio della Valdera e impegnerà il sindaco Franconi (Pd, ndr) ad esprimersi in maniera nettamente contraria all’installazione di queste infrastrutture così impattanti».

Per Pisa e la sua frazione di Coltano invece, al netto della partita tutta aperta dei reali finanziamenti dedicati, nel documento si parla di «opere complementari a beneficio anche dalla collettività», fra cui rifunzionalizzazione Villa Medicea, Stazione Radio Marconi, Stalle del Buontalenti e Borgo ‘ex Bigattiera’. «Quest’ultima, una novità – dicono dalla lista di sinistra – di proprietà dell’Università di Pisa, istituzione fino ad oggi silente sulla base, nonostante siano suoi i terreni vicini alla nuova infrastruttura militare».

Tema caldissimo e tutto politico, poi, è quello della sostanziale trasversalità delle decisioni. Tutte le opere contenute nell’ultimo documento redatto, il decreto-legge n. 89, il cosiddetto decreto Infrastrutture approvato il 24 giugno scorso dal governo Meloni poi assegnato alla VIII Commissione (ambiente, territorio e lavori pubblici) per essere convertito in Legge entro il prossimo 24 agosto, parla chiaro: un progetto che nasce “d’intesa con gli Enti territoriali interessati Regione Toscana, Provincia di Pisa, Comune di Pisa, Ente Parco Regionale Migliarino San Rossore Massaciuccoli”. «Il documento illustrativo del provvedimento era a disposizione di tutti i gruppi parlamentari di governo e di opposizione  presenti in commissione (segretario per l’opposizione anche il leader verde Angelo Bonelli, ndr) e l’opera è dichiaratamente commissionata d’intesa fra i vari enti. Seguendo questo iter abbiamo scoperto quello che veniva tenuto volutamente nascosto alla cittadinanza da tutte le forze politiche. – commenta Auletta –. Anche il Presidente della Regione Giani del Pd dunque sapeva benissimo di tutto questo, così come il sindaco Conti, che proprio nei giorni scorsi si è rifiutato di rispondere ai nostri quesiti dicendo che non era di sua competenza, nonostante appartenga alla Lega, uno dei partiti  del governo da cui arriva l’iniziativa legislativa».

Il tutto, lo ricordiamo, in un’area che già oggi, fra Livorno, Pisa, La Spezia e Firenze, rappresenta uno degli hub militari più importanti dell’intero centro Italia. Intorno e dentro al parco ci sono infatti già due poligoni, il Nono Reggimento “Col Moschin” e le Forze speciali dell’Esercito. Appena fuori, alle porte della città, c’è l’aeroporto militare. Senza dimenticare Camp Darby, la grande base deposito di armi delle unità statunitensi che si estende per quasi mille ettari lungo la costa, recentemente al centro di un potenziamento logistico che per il trasporto di armi e munizioni verso Livorno necessitava di un asse ferroviario da farsi in mezzo al bosco dichiarato Riserva Unesco. Contro l’intero progetto della nuova base, nel 2022 erano scese in piazza quasi 10mila persone, mentre nell’ottobre scorso sotto la pioggia a manifestare a San Piero a Grado furono oltre 5mila.
Anche di fronte alle nuove rivelazioni, gli esponenti del Movimento No Base, che hanno partecipato numerosi alla conferenza stampa, rilanciano: «Invitiamo la città a partecipare alla mobilitazione per il 20 e il 21 luglio, nuovamente ai Tre Pini, dove nelle scorse settimane abbiamo inaugurato un presidio di Pace e che sarà il centro dove costruire collettivamente le azioni per bloccare questo ingranaggio della guerra, e definire un’alternativa di pace e disarmo, a partire dallo stralcio della previsione della Base dal disegno di legge in discussione in commissione».

Immediata, invece, la richiesta di dimissioni lanciata dalla lista di cittadinanza per tutti i vertici degli enti coinvolti, a cominciare da quelli targati Pd (Giani ed il presidente della Provincia di Pisa Massimiliano Angori) per giungere al sindaco leghista di Pisa Conti ed il presidente del Parco Lorenzo Bani. «Come nel caso del primo Dpcm hanno tenuto nascosto alla cittadinanza queste informazioni e sostengono il progetto attivamente – dicono dalla sinistra. – Noi chiediamo a tutte le realtà sociali, associative e sindacali di schierarsi apertamente contro questo mezzo miliardo di euro per la guerra, che tutte le risorse fino ad oggi destinate alla base siano immediatamente stralciate, che questi fondi siano impiegati per le vere priorità sociali del nostro Paese, come casa, scuola, lavoro, transizione ecologica, e che il progetto sia definitivamente cancellato».

Nella foto: conferenza stampa di Una città in Comune (dalla pagina fb)

L’autore: Nilo Di Modica è giornalista e attivista

Pistoleri d’Italia

Nello Trocchia sul quotidiano Domani riporta stralci dell’interrogatorio di Emanuele Pozzolo, il deputato sospeso di Fratelli d’Italia che a Capodanno è stato protagonista di una vicenda su cui sta indagando la Procura. Quella notte uno sparo ha ferito Luca Campana, genero di Pablo Morello che è il caposcorta del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove. Delmastro era presente alla serata. 

Sul colpo partito dalla sua arma la Procura di Biella ha chiesto il processo per “reati di omessa custodia di armi, accensioni ed esplosioni pericolose, porto illegale in luogo pubblico e/o aperto al pubblico della pistola revolver North american arms e di cinque cartucce”. Le perizie balistiche e lo stub confermerebbero che il deputato eletto nel partito di Giorgia Meloni avrebbe sparato, forse accidentalmente.

Pozzolo durante il suo interrogatorio invece avrebbe accusato il caposcorta del suo compagno di partito, raccontando la sua versione dei fatti. Alcuni passaggi sono particolarmente significativi. Dice Pozzolo di avere avuto bisogno di una pistola perché «appoggia un movimento di resistenza iraniana» e «soggetti di rilievo politico che hanno appoggiato tale movimento hanno subito degli attentati ed anche, recentemente, un politico spagnolo». 

Quando il caposcorta del sottosegretario Delmastro ha visto l’arma del deputato avrebbe detto «che è sta cosa da finocchio?». Pozzolo ha spiegato di avere portato l’arma alla festa partecipata anche da bambini perché, dice, «potevo portarla fuori. In virtù del porto da difesa personale. Inoltre non ritengo sia un’arma particolarmente insidiosa».

Buon mercoledì. 

Nella foto: Emanuele Pozzolo (da facebook)

Fronte comune contro l’autonomia differenziata, per una abrogazione totale, non parziale

Qualche giorno fa il popolo francese ha dimostrato cosa sia la dignità della Repubblica; che un voto dato per fermare qualcosa è un voto profondamente politico; che si può lavorare insieme (associazioni, comitati, sindacati, partiti) per arginare un pericolo immediato, violento, funesto. In queste ore mi chiedo se anche noi italiani saremo in grado di fare altrettanto. Perché tirare una sberla all’Autonomia differenziata è mettere un’ipoteca per sconfiggere il premierato: e quindi, in poche parole, cominciare a smontare il “patto scellerato” alla base della compravendita tra i due contraenti principali di maggioranza, tutto sulla pelle di cittadine e cittadini. Per farlo bisogna però essere coraggiosi e leali; avere il coraggio di liberarsi di ogni ambiguità e di ogni calcolo; lavorare sguardo, cuore, pelle, cervello, gambe su un obiettivo che si individua come giusto e imprescindibile; abbandonare protagonismi, doppi tavoli, stanze segrete o riservate a pochi. Ce la faremo? Io spero tanto di sì, anche se non tutto sta andando come potrebbe.

È passato quasi un anno e mezzo da quando, il 29 gennaio 2023, l’assemblea nazionale congiunta di Comitati per il Ritiro di ogni autonomia differenziata, l’unità della Repubblica, l’uguaglianza dei diritti e il Tavolo Noad chiamavano tutte le forze sindacali, politiche ed associative a convergere in uno sforzo comune per contrastare quella che allora sembrava essere un’offensiva repentina, il ddl Calderoli, quale di fatto è stata. Oggi il testo del ministro degli Affari regionali è legge, nel dissenso generale, persino all’interno di alcune delle forze che lo hanno approvato, prima al Senato e poi alla Camera. L’8 luglio il segretario di Forza Italia, Antonio Tajani, ha incontrato i presidenti delle Regioni governate dal suo partito; tema: autonomia differenziata. Le dichiarazioni del presidente della regione Veneto, Luca Zaia, che chiede di riscuotere immediatamente la cospicua dose di potere che la legge gli concede, hanno prodotto un certo allarme. In quella stessa data monsignor Savino, vicepresidente della Cei, ha dichiarato: «Con l’autonomia differenziata l’Italia sarà un Far West», rilanciando l’impegno della Chiesa contro la legge.

Da quel 29 gennaio abbiamo assistito a una lenta ma costante convergenza di forze: il più grande sindacato italiano – la Cgil – si è significativamente assunto la responsabilità di unire il dissenso contro l’Autonomia differenziata, dando vita alla Via Maestra, che si è fatta promotrice di un referendum abrogativo del progetto eversivo. Il 5 luglio un’ampissima delegazione, dalla Cgil alla Uil, dall’Anpi al Wwf, dai Comitati per il Ritiro di ogni Autonomia Differenziata al Coordinamento per la democrazia costituzionale a Libera, insieme a tanti altri e a tutti i partiti di opposizione parlamentare (tranne Azione) e non, hanno depositato un quesito abrogativo totale della legge 86.

A fronte dei grandi passi avanti che sono stati fatti da partiti politici, dal Pd (che oggi, non a caso, risulta essere il primo partito del Sud Italia) e dal M5s nella direzione che noi auspicavamo, quella del mutamento della propria interpretazione e linea politica sul tema autonomia differenziata, abbiamo nei giorni scorsi accolto con soddisfazione la notizia di un contemporaneo referendum totalmente abrogativo da parte di 5 regioni governate da queste forze politiche (Sardegna, Emilia Romagna, Toscana, Campania, Puglia). La sorpresa è stata, poi, apprendere che tali regioni affiancheranno al quesito abrogativo totale anche un quesito parziale, con l’idea – non certo convincente e sicuramente non coerente – che, essendo la ammissibilità del quesito abrogativo da parte della Corte costituzionale in forse, si individuerebbe – attraverso questa strategia – una possibile via d’uscita. Una sorpresa certamente non positiva: che fine hanno fatto l’intransigenza, i toni fermi, le parole inequivocabili, le dichiarazioni di inemendabilità del ddl Calderoli, che abbiamo ascoltato dai massimi esponenti dei partiti dell’opposizione parlamentare (compresi quelli di Avs, Italia Viva, Psi, che hanno eletti nei consigli regionali; o di Più Europa) negli ultimi mesi e persino il 5 luglio, all’entrata della Corte di Cassazione per sottoscrivere il quesito del referendum popolare? Sarà difficile – molto difficile – quando faremo i banchetti e poi – dopo aver raccolto almeno 550mila firme – durante la campagna di sensibilizzazione per andare a votare contro l’autonomia differenziata, spiegare agli elettori ed elettrici che si troveranno davanti a più quesiti; inoltre, con quale convinzione i partiti dell’opposizione parteciperanno alla raccolta, che dovrebbe vedere tutti i soggetti che fanno parte del comitato promotore pancia a terra, per sconfiggere il “generale estate” e totalizzare almeno il numero di firme necessario entro il 30 settembre? Il deposito entro quella data garantirebbe infatti di celebrare il referendum nella primavera del 2025, quando ancora la macchina innescata dalla legge Calderoli non avrà condotto alla ratifica delle intese tra singole regioni e Governo: alla sostanziale concretizzazione, cioè, dell’autonomia differenziata.

La nostra lotta di quasi 6 anni, finalizzata a contrastare qualunque autonomia differenziata, che porterà alla rottura dell’unità della Repubblica e all’aumento delle già straordinarie diseguaglianze che affliggono il Paese, non ammette vie di mezzo: il quesito non può che essere abrogativo totale. Un obiettivo che abbiamo sostenuto con costanza ed energia, in maniera inflessibile: quello di riunire il maggior numero di forze democratiche del Paese per dire No, senza alcun indugio o ambiguità, all’autonomia differenziata. Lo abbiamo fatto con la granitica convinzione della fondatezza delle nostre ragioni, che si basano sugli artt 2, 3, 5, 119 della Costituzione. Lo abbiamo fatto formando e (contro)informando, girando l’Italia in più di 250 assemblee territoriali, creando nessi, legami, dialogando convintamente, senza alcun calcolo strategico, se non quello di raggiungere quello che dovrebbe essere lo scopo di tutti/e: salvare, appunto, la forma e la dignità della Repubblica. L’unità di intenti e di comportamenti è ciò che serve al Paese, come deve necessariamente accadere nei passaggi fondamentali della storia, quelli che segnano un prima e un dopo, quale l’autonomia differenziata è.

Per questo invitiamo tutti e tutte coloro che si riconoscono nella Costituzione repubblicana del ’48 a contattare le Camere del Lavoro e/o i comitati locali che si occuperanno della raccolta delle firme. Il tempo è pochissimo, la convinzione deve essere contagiosa: contiamo sulla partecipazione convinta di tutte e tutti; nonostante l’estate, insieme, per salvare l’unità della Repubblica e l’uguaglianza dei diritti, contro ogni autonomia differenziata.

Si abbia – almeno ora – il coraggio di abbandonare la retorica della Costituzione e salviamola, questa Costituzione, dall’oltraggio peggiore che le sia mai stato intentato. È il momento di decidere senza tentennamenti e calcoli da che parte si sta. Le soluzioni di mediazione non potranno indorare la pillola di un passaggio da un prima a un dopo, dal quale non si potrà più tornare indietro: la legge Calderoli prevede infatti un tempo minimo di 10 anni per recedere dalle intese, e su iniziativa della regione interessata. È qui ed ora che dobbiamo dire senza infingimenti e tentennamenti in quale Paese intendiamo vivere: se in una Repubblica democratica fondata sul lavoro, che deve garantire l’uguaglianza formale e sostanziale, la solidarietà e promuovere le autonomie, mantenendo la propria unità ed indivisibilità. O se in un Paese balcanizzato, lasciato in mano a potentati locali che – oltre a scompaginare le fondamenta del patto repubblicano – faranno registrare al Paese un declassamento politico a livello internazionale, mettendo in serio pericolo il già traballante bilancio dello Stato, come autorevolissimi enti hanno certificato. Non vogliamo lasciare al centro destra la responsabilità di questo disastro annunciato?

Se vogliamo raggiungere le firme necessarie, ottenere il quorum e vincere il referendum, ai cittadini e alle cittadine va indicata una soluzione netta e chiara: abolire la legge Calderoli, senza e senza ma.

L’autrice: Marina Boscaino è portavoce nazionale Comitati NoAd

Nella foto: sit-in in piazza Montecitorio contro l’autonomia differenziata, Roma, 13 giugno 2024

Sollicciano, il carcere non rieduca, annulla le persone. E il decreto del governo è solo un palliativo

Il 4 luglio, Fedi Ben Sassi si è suicidato nel carcere fiorentino di Sollicciano. Aveva vent’anni e arrivava dalla Tunisia. È il cinquantaquattresimo recluso che decide di togliersi la vita negli istituti penitenziari italiani nel 2024. Sappiamo della sua breve vita solo che è trascorsa nella marginalità urbana.
Per mille motivi di varia natura, non sono così disinibito da mettere un suicidio in carcere in relazione causale con i grandi problemi legati alle condizioni di vita negli istituti penitenziari italiani. Nel formarsi della decisione di suicidarsi c’è tutto, anche il degrado carcerario, certo, ma c’è anzitutto un mistero, che obbliga al silenzio e al rispetto. Un dovere assoluto della coscienza.
L’indifferenza generale ai drammi della carcerazione si nutre della visibilità che un suicidio offre al dibattito politico. Quei drammi e quei problemi che scorrono quotidianamente invisibili, si scoprono soltanto quando qualcuno decide di farla finita. Qualche giorno di normale indignazione e tutto rientra nei ranghi, l’indifferenza riprende il suo cammino.
Sollicciano è piegato dai suoi due principali problemi da tantissimi anni: il sovraffollamento e le condizioni strutturali fatiscenti. Un mix ad alta tensione distruttiva.

Qualche anno fa, in un torrido agosto, l’allora sindaco di Firenze, Dario Nardella, visitò il carcere di Sollicciano. In contemporanea, c’ero anch’io con un’ampia delegazione che organizzammo con l’associazione Progetto Firenze, rimanendo fino al tardo pomeriggio. Nardella, invece, uscì dopo poco. Non eravamo insieme e non c’incontrammo. Una volta fuori si disse “sconvolto” e tirò fuori dal cappello la proposta “demolizione & ricostruzione”. Noi, invece, cercammo di far capire le urgenze, quelle che dovevano e potevano essere affrontate hic et nunc, subito, senza applicare la clausola del tempo infinito. Tale, infatti, era il sottointeso palese della proposta di Nardella. Una sorta di appello agli Dei per far retrocedere il caos e far coincidere il giusto per legge con il giusto per natura.
Aristotele argomentava di giustizia commutativa, quella cieca con la bilancia per capirsi, contrapposta ad altri modelli: distributiva, compensativa, correttiva. Dopo il suicidio di Fedi Ben Sassi, molti sono tornati alla carica chiedendo di demolire e ricostruire Sollicciano, anche lo stesso Nardella, ora parlamentare europeo. E ancora viene da chiedersi a quale sorta di giustizia si stia facendo riferimento con codeste invocazioni.

Si è appreso poi che il sottosegretario Delmastro ha annunciato il trasferimento di ottanta detenuti di Sollicciano in altri istituti. Guarda caso ottanta è proprio il numero dei reclusi che il giorno successivo al suicidio di Fedi, avevano protestato. Ancora il Decreto sicurezza non è in vigore, ma se lo fosse gli ottanta rischierebbero grosso. Il nuovo reato di rivolta in carcere parla chiaro: anche la sola resistenza passiva è punita da due a otto anni. Perfino protestare pacificamente in carcere diventa un reato. Carcere che chiama carcere. Giustizia correttiva?

Si parla sui giornali anche dei lavori infiniti e dei fondi per la ristrutturazione del carcere fiorentino – che, chissà perché, non sarebbero andati a buon fine – e di tante altre questioni aperte che fanno di Sollicciano un fenomenale cantiere di visibilità mediatica, dove si dice tutto e il contrario di tutto, poiché è così che funziona. Il suicidio di Sollicciano ha dunque provocato l’usuale nubifragio di parole buone, sdegnate e sensate. Si è tornati, come il solito, al rito dell’attesa di cambiamenti, ritenuti essenziali ma che mai arriveranno a compimento. Dopo qualche giorno l’emergenza comunicativa termina sempre. L’elaborazione del lutto civico collettivo è sostituita dal ritorno alla normalità dell’emergenza carceraria permanente.

Il problema, invece, è l’aristotelica giustizia commutativa, che si è persa, cieca com’è, nei rivoli della repressione e della rieducazione. Se tornassimo a discutere insieme di quest’aspetto, forse la soluzione si troverebbe. Anche se la strada è tutta in salita.
La notizia più interessante l’ho letta in un articolo di David Allegranti su La Nazione. Vi si dice che Emilio Santoro, dell’associazione Altro Diritto, ha ricordato che Fedi Ben Sassi aveva presentato un reclamo senza ottenere alcuna risposta. Riferisce Santoro: «Il giovane detenuto aveva provato a chiedere alla magistratura di sorveglianza di ordinare all’amministrazione penitenziaria il ripristino delle minime condizioni accettabili di vita all’interno del carcere». «Se c’è il rischio che una persona indiziata commetta un reato il magistrato si deve muovere entro 48 ore, se un detenuto dice sono in condizioni inumane si può prendere 4 mesi». Il presidente di Altro Diritto conclude: «Vorrei che la gente provasse a mettersi nei loro panni prima di giudicare la reazione. Se vengono chiamati i pompieri per un pericolo e i pompieri non vengono, e poi vedo il mio vicino morire, avrò diritto di arrabbiarmi?».

Quello descritto da Santoro è l’aspetto più grave della crisi del diritto penitenziario, perché la procedura dei reclami e dei ricorsi è l’unica via per dare un senso compiuto all’esecuzione di pena e alla tutela dei diritti dei detenuti. La magistratura si chiama, appunto, di Sorveglianza. Sorveglia, o almeno dovrebbe. Ed è anche l’unica forma di compensazione alla rabbia che monta all’interno degli istituti.
Scopro l’acqua calda, lo so. I diritti dei detenuti sono di natura affievolita, lo status detentivo modifica in peius le necessarie piene tutele dei loro diritti e la Costituzione non riesce a superare i cancelli di un carcere. Ma è questo il punto su cui battere, la via giurisdizionale: interna, amministrativa ed esterna penale. Altro onestamente non vedo se non il solito, inutile, nubifragio di parole e di buone intenzioni. I pompieri, però, nel caso del suicida di Sollicciano, non sono arrivati.

L’inutile decreto “Carcere sicuro” del governo, che nel frattempo ha iniziato il suo iter, non ce la farà a “umanizzare” la carcerazione, che è disumana in sé: un principio teleologico. L’aspetto positivo del decreto è che finalmente pare sia stata abbandonata l’idea bislacca di costruire nuove carceri o utilizzare a scopo detentivo vecchie caserme dismesse. I principi ispiratori del decreto sono la detenzione alternativa ma sicura in luoghi di comunità a predeterminate condizioni, la velocizzazione delle procedure per la liberazione anticipata ordinaria (quella che prevede lo sconto di pena di 45 giorni per ogni sei mesi di detenzione in regime di buona condotta) e l’estradizione attiva dei reclusi stranieri. Nel decreto poi c’è anche, a mo’ di ciliegina sulla torta, l’assunzione di mille agenti di Polpen, che è certo necessaria, ma non c’è proprio nulla sul fronte degli operatori sociali e sanitari – educatori, mediatori, psichiatri, eccetera.

Queste descritte sopra sono le principali misure ipotizzate dal governo per risolvere il sovraffollamento carcerario. Potrebbero essere più che sufficienti per allontanare lo spettro di una nuova sentenza pilota della Corte Edu sulle politiche carcerarie italiane oberate dal sovraffollamento cronico, ma non a risolvere i problemi che affliggono i nostri istituti di pena.
Tentare altre vie ora è pressoché inutile, l’unica agibile è testimoniare la lontananza politica dall’impianto del decreto. Il problema principale è il tempo. Il decreto non risolve il più importante problema del nostro sistema carcerario: il sovraffollamento cronico. Lo potrebbe soltanto addomesticare se si realizzassero le condizioni descritte, ma per sperare che ciò avvenga ci vuole anzitutto una buona dose di fede nell’utopia carceraria. L’altra faccia della luna, infatti, si palesa con la concretezza di una produzione industriale di nuove fattispecie di reato e con l’innalzamento delle pene per molti di quelle esistenti.

Il carcere giacché tale non è “illegale”, non viola la Costituzione. Il carcere non ha personalità giuridica. Dire che il carcere è illegale perché non rispetta la dignità e i diritti fondamentali dei detenuti è una figura retorica. Sono i responsabili istituzionali, le persone fisiche, eventualmente a non rispettare le leggi dell’ordinamento. In questo caso però, diventa sempre più difficile anche ipotizzare una via giurisdizionale di resistenza. Il Decreto carcere sicuro è strutturato in maniera tale da resistere a qualsiasi attacco. Il populismo penale si è nel frattempo perfezionato.

Si deve prendere in esame, in conclusione, un altro e decisivo elemento. Il concetto di punizione è lo stesso per entrambi gli schieramenti: i populisti penali e i garantisti. La punizione retributiva e rieducativa, farcita di buona condotta e infantilizzazione del detenuto, è alla base dei ragionamenti teorici di entrambi. Gli schieramenti rappresentano due scuole di “Ventisettisti”, interpreti fedeli dell’articolo 27 della Costituzione, eredi delle grandi Scuole del diritto penale del nostro Paese: la Classica e la Positiva. Uscire da questa dialettica è una delle possibili vie da seguire. Il suicidio allora non è soltanto un mistero, perché nel tempo si è trasformato in emergenza permanente. Misteriosi, se mai, sono i ritardi politici nell’affrontare l’emergenza, che è emergenza da quando esiste il carcere, da quel “Bisogna aver visto” di Piero Calamandrei almeno. Ci vuole poco, infatti, a trasformare il suicidio in carcere in fenomeno di natura inevitabile, dimenticandosi che la vera emergenza è proprio il modello di esecuzione di pena in carcere. Un modello che non rieduca, non punisce, non riabilita, non ripara, non previene. Il carcere semplicemente oscura, allontana, opacizza, annulla, e trasforma una persona in rifiuto solido detentivo.
Attenzione però: è quello che tutti, o quasi tutti, vogliono.

Per questa ragione il silenzio e il rispetto per chi ha deciso di andare via disegnano un preciso obbligo morale, perché allo stesso tempo si ha un analogo e contrario dovere per chi in quegli istituti sopravvive tra mille difficoltà. L’anomalia è questa: c’è ancora qualcuno che ha deciso di sopravvivere. A questi dobbiamo rivolgere la nostra attenzione. E non solo dentro gli istituti, perché i problemi “dentro” nascono di solito “fuori” dal carcere.

Il libro

Massimo Lensi, presidente dell’Associazione Progetto Firenze è anche l’autore del saggio Delitti & Castighi. Per una nuova funzione della pena (The Dot Company edizioni), in uscita a settembre 2024. Nel libro si affronta la necessità di arrivare a un nuovo concetto di “punizione” che non sottragga dignità a chi la subisce, in nome di quel principio di autodeterminazione valido ovunque, anche in carcere. E che sia utile alla vittima del reato (o ai suoi familiari), al reo e alla società.

Pasquale Tridico: «Entrare nel gruppo The Left al Parlamento europeo è stato lo sbocco naturale»

Pasquale Tridico, economista, docente universitario, già direttore dell’Inps, è stato eletto alle recenti elezioni europee nella Circoscrizione Sud, col M5S, ottenendo oltre 118 mila preferenze. In totale sono stati 8 gli europarlamentari eletti nelle liste del Movimento. Nella sua intensa attività intellettuale e politica si è sempre caratterizzato per una attenzione forte alle tematiche sociali, rifiutando le logiche neoliberiste che imprigionano ogni tipo di giustizia ed equità. Con lui inevitabilmente partiamo dal risultato del secondo turno delle elezioni legislative in Francia e del suo sorprendente esito, almeno in Italia.

«Mi pare che ci sia stata una chiara manifestazione di volontà. Si sono contrapposte una destra reazionaria, un centro liberista e una sinistra popolare e progressista. Il popolo ha scelto quest’ultima. Non voglio lasciarmi prendere dall’ottimismo ma questa è un’indicazione per il nostro Paese. Piacerebbe vederla replicata da noi anche perché ci sono molte similitudini di prospettiva con l’Italia».

Il M5S ha scelto di entrare nel Parlamento europeo nel gruppo “The Left”, anche incontrando il parere favorevole delle forze politiche nostrane come Sinistra italiana e Rifondazione Comunista. Quali sono le ragioni che vi hanno spinto a chiedere di aderire a questo gruppo e quali sono gli elementi di affinità più importanti?

Il M5S ha un substrato di riferimento negli strati popolari. Parliamo di una parte di elettori che a volte non ha votato e si è rifugiata nell’astensione. Nel 2022, ad attrarre alla base, c’era la rappresentatività di una voce popolare simile a quella parte della sinistra a sinistra del Pd. Un blocco sociale simile al nostro che avanzava una proposta politica simile. Proponevamo e proponiamo tre pilastri: giustizia sociale, equità uguaglianza, lotta alla povertà redistribuzione; giustizia ambientale, fondamentale per il pianeta e, come terzo pilastro, una politica di pace. Per noi fa testo l’articolo 11 della Costituzione. Sono gli stessi pilastri che abbiamo ritrovato in The Left, con un simile blocco di riferimento sociale. In sintesi entrare in The Left mi è sembrato uno sbocco naturale.

Nel gruppo The Left le posizioni rispetto alla prospettiva di un’ “Europa Sociale”, sono molto vicine fra i rappresentanti dei diversi Paesi. Si opera per un’istituzione attenta ai diritti di chi è più svantaggiato. A vostro avviso esiste la possibilità di una riforma così radicale nell’Ue?

Se non ci fosse questa prospettiva non avrebbe neanche senso il nostro fare politica, il nostro impegno. L’Europa sociale è necessaria. Finora abbiamo costruito solo un’Unione economica, fondata sulla moneta, sulla finanza. Finché non tocchiamo la carne vera non sarà mai possibile modificare le coscienze e portarle ad avvertire l’utilità di istituzioni europee. Dobbiamo realizzare un progetto che metta al centro la pace e la libertà come cuore della politica Ue. Dobbiamo agire per garantire prosperità per tutti, proteggere il welfare e difendere un lavoro che non è mai stato adeguatamente rappresentato da Maastricht in poi.

In che modo?

Dobbiamo ragionare su tre pilastri che vadano a smontare i fondamentali economici neoliberisti. Il primo è quello del combattere la svalutazione del lavoro in nome della competitività, che si traduce nel pesare soprattutto su chi lavora. Il secondo è quello legato alla necessità di una politica monetaria indipendente che non salvaguardi soltanto la moneta ma ponga al centro le politiche occupazionali, anche pensando a come agisce la Federal Reserve. Il terzo pilastro è una politica fiscale degna di questo nome che invece di pensare solo ad una riduzione della spesa pubblica e alla riduzione del debito in regime di deflazione, cambi registro. Questo modello, che ha imposto l’austerità, non ha neanche portato la crescita che prometteva il vecchio impianto liberale. L’Ue non è cresciuta più degli Usa, l’Italia è uno dei Paesi che ha più pagato le spese di queste politiche. L’austerità ha portato ad un aumento delle diseguaglianze senza crescita. E parliamo di trent’anni di politiche sbagliate seguendo le sirene del neoliberismo. Addirittura il Fondo monetario si era ispirato ad un modello che prevedeva un aggiustamento strutturale. Invece si è scelto di devolvere meno nella spesa pubblica e di lasciarsi governare dalla logica della competitività che rende strutturali le diseguaglianze. È stato annientato anche il tradizionale approccio liberale.

Il patto di stabilità è un altro punto critico in Ue, come pensate di intervenire per modificare un impianto che di fatto obbliga paesi come l’Italia ad un profondo  taglio della spesa pubblica?

Alla luce della vittoria della sinistra in Francia la situazione può cambiare. Avevamo una proposta liberista che ha perso e una destra nazionale che, con il patto di stabilità in Italia, deve affrontare forti contraddizioni. Difficile spiegare come il ministro Giorgetti approvi il patto mentre nel Parlamento Europeo, Lega, FdI e persino il Pd, si siano astenuti. C’è una scarsa consapevolezza di cosa si va a votare. In campagna elettorale non hanno fatto altro che annunciare che andavano a “cambiare questa Europa”. Poi non lo hanno fatto dimostrando una totale incoerenza. Penso che ci sia la possibilità da parte del Parlamento di proporre e votare scelte diverse. Il Consiglio si muove in una direzione che spesso è diversa dal Parlamento. Lo vedo dalla sinistra, noi che vogliamo l’integrazione europea non possiamo tagliare 13 miliardi di spesa pubblica.

Quali sono a suo avviso le proposte su cui puntare?

Servono nuove proposte progressiste per favorire l’integrazione. Occorre aumentare la spesa sociale e istituire un reddito minimo di cittadinanza europeo pagato col bilancio dell’Ue. Così facendo, in caso di condizione di crisi in uno degli stati membri, soprattutto i più poveri, il divario viene compensato dal fatto che ad erogare le risorse è l’Unione attraverso un bilancio centrale. Dovremmo comportarci come durante la crisi della pandemia, in cui si è realizzata una risposta positiva. Si pensi al fondo Sure con cui si è pagata la Cassa integrazione per chi non poteva andare al lavoro e che è stata erogata collettivamente. Si tratta di un modello che dovremmo seguire facendo il contrario di quelli che sono i dettami del Consiglio. Se si crea una coalizione forte e aperta della sinistra che ponga al centro la questione sociale, si potranno ottenere importanti risultati. L’Europa può essere questa.

Consiglio e Commissione rischiano di mantenere l’orientamento del passato. Quindi confermate la vostra opposizione alla riconferma, alla guida della Commissione di Ursula Von der Leyen che 5 anni fa avete sostenuto?

Anche dalle precedenti dichiarazioni, non solo di Conte, abbiamo chiarito che non avremmo votato Van der Leyen. Rispetto a quanto affermato 5 anni fa la Commissione da lei presieduta ha fatto una vera e propria marcia indietro su alcuni aspetti fondamentali. Aveva garantito che si sarebbe investito sul new green deal, sulla transizione ecologica e digitale, anche prefigurando la possibilità di scorporare le spese dai deficit nazionali. Dopo l’invasione in Ucraina ha deciso invece di scorporare unicamente gli investimenti dalla Difesa, quanto di più lontano dal nostro punto di vista. Von der Leyen aveva anche messo in programma un reddito minimo e un salario minimo; al di là delle direttive, si tratta di aspetti che sono venuti a mancare e che motivano la contrarietà del nostro gruppo ad un suo secondo mandato. Noi siamo coerenti. Molto probabilmente otterrà una sua maggioranza, intervenendo anche sulle ambiguità di Meloni e dei Verdi. Nessuno ha avanzato altre proposte, quindi diamo per scontato che dovrebbe avere i voti per essere rieletta.

Torniamo alla collocazione europea, Come ben sa, sul tema della guerra, o meglio delle guerre, anche in The Left ci sono sensibilità ed accenti diversi. Voi vi siete caratterizzati per un fermo no al riarmo e all’invio di armi in Ucraina. Come pensate di agire tanto per fermare questo conflitto quanto per il massacro in atto in Palestina?

Siamo entrati in The Left con molto rispetto. Su un punto siamo stati chiari: la pace e le modalità per raggiungere la fine del conflitto in Ucraina e in Medio Oriente. Vorremmo convincere i nostri compagni a non sostenere l’invio di armi in Ucraina. Di pari passo, il riconoscimento di tutta l’Ue dello Stato di Palestina, così come ribadito dopo la vittoria da Mélenchon anche dopo il suo grande risultato elettorale, costituirà altra chiave identitaria gruppo The Left.

Da ultimo un tema che divide le sinistre in Ue è quello del diritto d’asilo e di come confrontarsi con le migrazioni. Un tema strutturale, su cui in passato avete, come M5s ricevuto critiche. Come pensate si possa e si debba agire in un quadro europeo, su questi temi?

Per chiarire la nostra posizione noi abbiamo espresso il voto contrario all’ultimo Patto sull’immigrazione, presentato in primavera in Parlamento. Io credo che dovremmo ragionare con lo stesso approccio con cui ci muoviamo sull’economia. Un approccio collettivo, basato su una reale solidarietà europea, che riveda il regolamento Dublino. Il Patto è arrivato quando eravamo agli sgoccioli, con criteri finti e privi di prospettiva. Sappiamo che la destra xenofoba ha guadagnato consensi utilizzando l’immigrazione. Ma è accaduto perché non si fanno proposte adeguate. Ci sarebbe molto da ragionare, ma se ad esempio si partisse dal salario minimo legale, i primi a beneficiarne sarebbero le lavoratrici e i lavoratori migranti, Sono loro quelli, che per condizioni di precarietà pagano per primi le ingiustizie attuali. Una adeguata politica salariale sarebbe importante per parlare anche a loro, per offrire una risposta giusta.

L’autore: Stefano Galieni è giornalista, politico ed esperto di immigrazione

Intervista realizzata in collaborazione con Transform Italia