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La bassa intensità percepita su Gaza

Foto Unrwa

Scrive The Lancet – che non dovrebbe essere rivista accusabile di antisemitismo – che non vi son dubbi sula credibilità dei dati dei morti e dei feriti palestinesi che no, non sarebbero «gonfiati da Hamas» come da mesi ripetono alcune riviste israeliane e alcuni incauti commentatori italiani. Anzi, secondo la prestigiosa rivista ci sarebbero almeno 10 mila morti in più che non rientrano nel computo generale. 

“Applicando una stima prudente di quattro morti indirette per ogni diretta ai 37.396 decessi – scrive The Lancet . segnalati fino a fine giugno, non è improbabile stimare che fino a 186.000 decessi potrebbero essere attribuiti all’attuale conflitto a Gaza”. Anche la guerra terminasse oggi nei prossimi mesi e anni continuerebbero a verificarsi molte morti indirette per malattie – soprattutto infettive -, per la distruzione delle infrastrutture sanitarie, la carenza di cibo, acqua potabile, medicine e l’impossibilità della popolazione di fuggire in luoghi sicuri. Gli 80 mila litri di gasolio al giorno che servono per tenere funzionanti gli ospedali e mezzi di soccorso devono essere garantiti, avverte l’Oms. 

Il giornale Haaretz ieri ha riportato che nelle condizioni poste dal premier Netanyahu per la fine del conflitto ci sarebbe l’autorizzazione a continuare la distruzione di Gaza anche dopo la liberazione degli ostaggi. Difficile trattare su basi del genere. Lo pensa anche il leader dell’opposizione israeliana Yair Lapid. 

Nel percepito dai media la guerra su Gaza sembra essere diventato un conflitto a bassa intensità. E questa è sempre una pessima notizia per le vittime. 

Buon martedì. 

Stop all’obbligo vaccinale. Il senatore Borghi all’attacco del diritto alla salute

La Lega di Salvini prosegue la sua navigazione attraverso il variegato arcipelago delle destre europee, anche dopo la clamorosa débâcle francese. La rotta sembra essere in direzione di una collocazione che, nei limiti della legalità e delle apparenze, più a destra non si può. Là, insomma, dove la boa che segnala l’approdo si chiama Viktor Orbán.
E così, l’incursore per eccellenza del partito salviniano, il senatore Claudio Borghi presenta, nell’ambito del disegno di legge sulle liste d’attesa, un emendamento per abolire l’obbligo di vaccinazione per il morbillo, la varicella, la rosolia e la parotite per i minori sotto i 16 anni e, ça va sans dire, i minori stranieri non accompagnati.
Vogliamo ricordare quel che si poteva leggere in un comunicato pubblicato dal Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia il 14 dicembre del 2023: «L’Unicef avverte che, tra gennaio e il 5 dicembre 2023, sono stati confermati 30.601 casi di morbillo in Europa e Asia centrale, rispetto ai 909 del 2022, con un aumento del 3.266% dei casi di questa malattia prevenibile con il vaccino».
Spiegava, ancora il comunicato che «i dati indicano anche una tendenza più recente al peggioramento, dato che il tasso di casi di morbillo in Europa e Asia centrale è quasi raddoppiato tra ottobre e novembre 2023. Si prevede che i casi nella regione aumenteranno ulteriormente a causa delle lacune nelle vaccinazioni».
«Non c’è segno più evidente del crollo della copertura vaccinale che un aumento dei casi di morbillo. Un aumento così marcato richiede un’attenzione urgente e misure di salute pubblica per proteggere i bambini da questa malattia pericolosa e mortale», ha dichiarato Regina De Dominicis, direttrice regionale dell’Unicef per l’Europa e l’Asia centrale. «Il morbillo ha un effetto devastante sulla salute di un bambino, talvolta con conseguenze letali. Provoca un indebolimento duraturo del sistema immunitario dei bambini, rendendoli più vulnerabili ad altre malattie infettive, tra cui la polmonite». Sul punto non credo sia necessario aggiungere altro.
Va, invece, considerata, con la dovuta severità, la tendenza delle forze populiste a far propri i peggiori argomenti “complottari”. La domanda è: ma dopo il Covid non ne abbiamo avuto abbastanza? Abbiamo dimenticato quando, prima dell’inizio della campagna vaccinale, in questo Paese siamo arrivati a contare i caduti nell’ordine delle mille vittime al giorno? Veramente, conquistare un po’ di consenso politico negli ambienti più paranoici e ostili al senso comune vale la candela della salute pubblica e della vita dei nostri figli?
Probabilmente l’emendamento di Borghi, che si affretta a dichiarare, come riportano organi di stampa, «conosco il giochino, quindi preciso che l’emendamento è MIO», è più una boutade che un vero atto politico. È una di quelle strizzate d’occhio al peggio del peggio, mentre si cerca di emergere in quel tempestoso arcipelago delle destre un po’ più all’estremo di altri. Solo che, nel far questo, si è data un’altra delle mille spintarelle che, una dopo l’altra, fanno arretrare la nostra civiltà.

L’autore: Sindacalista e già ministro del lavoro Cesare Damiano è presidente di Lavoro e Welfare

Allons Enfants, nel segno dell’antifascismo e della laicità

Mélénchon è il vincitore politico delle elezioni francesi e la sua vittoria ha un valore per nulla scontato se si considera che i nuovi blocchi sociali delle classi svantaggiate in tutta Europa si sono orientati verso i neofascismi.
Macron paga la cecità della sua politica classista e razzista, paga la sua politica illiberale, la sua adesione al progetto sionista, paga la violenza delle forze di polizia al suo comando.
Marine Le Pen aveva conquistato il 33% al primo turno e tanto è bastato per risvegliare la coscienza antifascista francese che non è di facciata e celebrativa come molti antifascisti nostrani, ma è autentica interiorizzazione democratica.
Non è la prima volta che in Francia i risultati sorprendono: Jean-Marie Le Pen era arrivato al ballottaggio nel 2002 contro Chirac, e fu tale la mobilitazione popolare contro il pericolo fascista rappresentato da Le Pen, che Chirac fu rieletto con l’82% dei voti.
Marine ha un elettorato più manipolato di quanto non fosse quello del padre Jean-Marie.
Il partito che ha ereditato da suo padre aveva una dichiarata matrice ideologica fascista che istigava all’odio razziale, al negazionismo sullo sterminio degli ebrei, alla pena di morte, all’omofobia, al nazionalismo autarchico.
Marine Le Pen ha cercato di mettere sotto il tappeto gli aspetti più impresentabili di quel partito, ha cambiato nome e ha catturato le classi impoverite, quelle che hanno bisogno di sentirsi rassicurate da politiche che dicano “prima i francesi”.
Ma la coscienza antifascista dei francesi è più forte della deriva di civiltà rappresentata dalle destre, e anche gli astensionisti si sono mobilitati e sono andati a votare, consapevoli del fatto che consegnare una Nazione ai neofascisti significa trovarsi indietro di cinquanta anni in soli cinque anni.
Noi in Italia lo sappiamo bene, in due anni di governo Meloni anche i ceti medi vacillano sotto il peso della mortificazione economica, e la cancellazione dei diritti è l’unica cifra che omologa il popolo italiano.
Mélénchon guida un autentico fronte di sinistra, e non ha timidezze liberiste.
Particolarmente apprezzabile il suo discorso subito dopo che i risultati gli assegnavano la vittoria, quando ha dichiarato di voler riconoscere lo Stato palestinese, con una sottesa condanna del genocidio in atto per mano dei sionisti israeliani.
Possiamo gioire del risultato francese auspicando che anche l’Italia possa liberarsi della zavorra neofascista e di quella neodemocristiana piddina, e nel contempo sorgono legittime le perplessità nei confronti di taluni politici italiani che oggi esultano per la vittoria del Nuovo Fronte Popolare francese perché dichiara una affinità politica con Mélénchon.
Avere una affinità politica significa condividere quantomeno i principi cardine di una ideologia.
Ebbene, Mélénchon ha sempre coerentemente condannato coloro che fanno un uso politico dell’adesione al cattolicesimo.
L’uso politico della religione cattolica in Italia invece è fonte di ispirazione per molti partiti, da destra a sinistra ed esultare per la vittoria di un esponente della laicità europea francese, da parte di costoro, è di fatto incoerente.
Mélénchon ha vinto sulla progressività fiscale, sul blocco dei prezzi sui beni di prima necessità, sull’abrogazione della riforma pensionistica di Macron, sull’aumento del salario minimo, sulla prospettiva di perseguire una pace giusta con la Russia e sul cessate il fuoco in Palestina.
Mélénchon non ha la maggioranza assoluta e per quanto il timore dell’ingovernabilità apra scenari inediti, resta improbabile che accetti l’ipotesi di un governo “tecnico” proprio perché gli sciagurati precedenti italiani fanno prefigurare l’erosione di tutele sociali e welfare.
Vedremo come riusciranno a risolvere il primo passaggio istituzionale, e forse potremmo sperare in un effetto emulativo da parte delle compagini progressiste italiane, perché il confronto deve passare da obiettivi coraggiosi, da Gaza agli armamenti, dalla partecipazione alle guerre alle pensioni, dai salari alle nazionalizzazioni.

L’autrice: Carla Corsetti è avvocata e segretaria di Democrazia atea

Qui il discorso integrale di Melénchon:

Non sono passati

Non sono passati. Questa è la certezza che in Francia e noi tutti possiamo festeggiare.Le Pen e la sua destra non solo estrema ma erede di un terribile passato non governerà.
In un Paese ormai molto diverso dal nostro c’è un alt alla normalizzazione di qualcosa che non si può normalizzare. In Italia Meloni è al governo. Ci è arrivata perché con lei ci si può alleare già dai tempi di Berlusconi. Perché ha fatto parte di “governi tecnici” sostenuti da tutti. Naturalmente perché c’è una terribile affinità e complicità trasversale con le politiche liberiste e di guerra.
In Francia contro Le Pen scatta il sentimento repubblicano. Che non è solo tra le forze politiche ma soprattutto di popolo. E anche su questo la Francia mantiene una diversità. C’è una partecipazione popolare non sopita. Si è vista in questi giorni quando le piazze si sono riempite con il loro “no pasaran”. Ma si è vista in tutti questi anni nelle grandi lotte come quelle per difendere un sistema pensionistico che in Italia è stato da tempo controriformato con la complicità del centrosinistra mentre in Francia le sinistre e i sindacati lo hanno difeso con una lotta ad oltranza contro Macron. Sconfitti ma non vinti. E infatti la piattaforma sociale, pensioni, salario, con cui il Fronte Popolare si è costituito contro Le Pen è particolarmente avanzata. Grazie alle lotte. Grazie al ruolo non minoritario delle sinistre radicali di France Insoumise e PCF. Che hanno chiamato e guidato il Fronte con il sostegno popolare. Che non è andato tutto a destra proprio grazie a chi in tutti questi anni ha tenuto dritta la barra ed alto il conflitto. Solo con questo consenso popolare si poteva chiamare l’unità repubblicana, fino alla desistenza con Macron, ed essere credibili e seguiti. Così il Fronte Popolare arriva primo nei risultati del secondo turno. E Melenchon può chiedere di governare rispettando il programma. Quel programma che ha salvato la Francia dalle destre. Ora è il momento della contentezza. Ma subito occorre difendere il risultato conseguito e la fiducia del popolo. Gli stessi che con le loro politiche neoliberiste hanno aperto la strada a Le Pen tenteranno ora di dividere per appropriarsi dei frutti del risultato. Già la campagna elettorale di Macron era stata particolarmente contro Melenchon. E una buona parte di ciò è rimasto anche al ballottaggio. Contro Melenchon si sono costruite, come contro Corbyn, incredibili accuse di antisemitismo, mettendo in moto la macchina del fango. Contro Melenchon c’è quella UE neoliberale che ha praticato il revisionismo storico. Dunque la lotta continua.

L’autore: Roberto Musacchio, già parlamentare europeo, è un politico e collabora con Transform Italia

I geni dei due estremi

In Italia esistono due tipi di simpatici analisti politici che anche questa mattina si alzano dal letto con qualche livido dopo le notizie che provengono dalla Francia.

I primi sono quelli che ultimamente vanno per la maggiore. Chiamano solitamente il fascismo in tutte le sue declinazioni (il post, il pre, il para, tutte le sue diverse evoluzioni) come “sovranismo” perché non hanno nemmeno il coraggio delle loro idee. Qualche settimana fa pregustavano il rovesciamento dell’Unione europea e ne sono usciti scornati. Marciavano a braccetto dichiarandosi amici per la pelle e ora a Strasburgo litigano per un tozzo di pane nel recinto dell’opposizione. Le facce di Le Pen e di Bardella in queste ore sono la fotografia della loro natura: lupi di fronte agli agnelli e poi talpe complottarde di fronte ai risultati elettorali. 

I secondi sono più godibili e anche più fastidiosi. Perdono voti ma si sentono cardine della politica  in memoria di una superiorità che si sono autoassegnati. Si fanno chiamare lib in tutte le sue forme (dem, mica dem, né di destra né di sinistra, poli che che esistono nei manifesti elettorali) e vedono antisemiti dappertutto, rivendicando una supremazia intellettuale che ha più profeti che elettori. Irridono l’antifascismo ma si alimentano dei suoi risultati, scrivono nella bio che odiano tutti gli -ismi ma adottano l’isteria come tecnica di propaganda e di gestione dei rapporti. Per loro Melenchon e Le Pen pari sono. Per loro ieri ha vinto Macron. “Se Macron riesce a formare un governo tagliando i due estremi ha fatto un capolavoro”, scrivono da ieri. Non conoscono la matematica, eppure sono tutti economisti, perfino gli uscieri. Odiano gli altri populisti perché vogliono essere gli unici. Ogni volta vanno a letto convinti di avere vinto tutte le elezioni dell’orbe terraqueo. Mitici. 

Buon lunedì. 

Il magma creativo della BabelNova Orchestra

Poco più di venti anni fa, Mario Tronco e Agostino Ferrente dettero vita a L’Orchestra di Piazza Vittorio, un ensemble multietnico di musicisti, e non solo, risultato della commistione di provenienze di diverse culture per realizzare progetti creativi. Dopo quella esperienza alcuni dei musicisti, guidati (e prodotti) dal contrabbassista Pino Pecorelli, già componente dell’Orchestra, hanno lavorato a un’altra idea corale: la BabelNova Orchestra. Non solo confusione, però, come l’epica torre, ma un insieme di suoni e lingue, anche inventate, che da poco ha dato origine a Magma, il loro album di debutto. Evocativa è la cover del disco, firmata dall’illustratrice Lorena Spurio, che è un chiaro richiamo al titolo e che vuole esprimere la fusione di diverse culture e sonorità attraverso un paesaggio vulcanico abitato da tante persone. Ne parliamo proprio con Pecorelli, che ci racconta del perché di una nuova avventura, dell’importanza del confronto e dello sbagliare nell’epoca del merito.
Dopo il debutto 19 giugno, in occasione della giornata mondiale del Rifugiato, organizzata da Refugees Welcome Italia con Testaccio Estate, il 22 giugno i BabelNova hanno dedicato all’universo femminile il concerto dello scorso 22 giugno al Parco archeologico del Colosseo, al Tempio di Venere, insieme a Ginevra Di Marco e all’orchestra Almar’a.
«Il 19 è stata la data zero. È bello partire da casa per quello che spero sia l’inizio di una nuova, grande avventura – racconta Pecorelli – , che il 7 luglio approda a Latina. Saremo anche a Rispescia per Festambiente, poi in Sicilia. Il calendario si sta allargando».

Facciamo un passo indietro quando, e perché, nasce il progetto BabelNova?
Nasce quest’anno ed è una sorta di nuovo percorso che i musicisti, che per venti anni hanno fatto parte dell’Orchestra di Piazza Vittorio, intraprendono, entrando in una nuova realtà, oltre che cambiando nome, per dare anche all’esterno una nuova visione dello stesso bagaglio culturale. C’è molta di quell’esperienza lì perché sono le persone che hanno fatto quel percorso ventennale e che, adesso, si reinventano perché tutto intorno è cambiato, anche lo scenario in cui fare musica del mondo. Ci sembrava giusto cambiare anche forma. Passare da una forma che era quella dell’Orchestra di Piazza Vittorio, diciamo di orchestra gerarchica, a una forma più orizzontale, più da gruppo. Le individualità in quei venti anni di esperienza fatti nell’Orchestra sono cresciute, si sono definite, sono cambiate e quindi questo è il nuovo modo di valorizzarle. È venuta anche meno una certa visione, il direttore artistico, Mario Tronco, ha intrapreso un altro percorso, poi l’anno scorso è venuto a mancare Leandro Piccioni, che con me e Mario era una delle anime principali di quel progetto lì. In qualche modo sono rimasto da solo, ci siamo guardati in faccia, con gli altri musicisti, e ci siamo detti di partire con una nuova avventura e quest’anno c’è stata questa occasione straordinaria di esordire a Sanremo con Dargen D’Amico (per la serata dei duetti con un omaggio a Morricone, ndr) e da lì siamo ripartiti.

Quindi, le stesse persone sono cresciute e cambiate, musicalmente e non solo, ma hanno un’idea nuova in testa?
Cerchiamo di guardare, essendo cambiato lo scenario, anche alle nuove generazioni di cui non si parlava venti anni fa. I musicisti, dopo tutti questi anni, sono diventati italiani non solo da un punto di vista formale, ma hanno fatto un percorso di crescita in un paese che adesso gli appartiene. Allo stesso tempo portiamo le nuove generazioni a riscoprire quella metà della loro identità che appartiene all’estero, ai genitori che sono arrivati qui. Anche perché sono diminuiti i musicisti che vengono da fuori, il nostro è diventato un Paese poco attrattivo per loro perché non offriamo opportunità di lavoro.

Siete quindi un esempio di integrazione, di condivisione, tutte quelle caratteristiche che in un momento storico come il nostro non sono così valorizzate. Però, appunto, prima accennavi ad una visione nuova del vostro progetto artistico: qual è?
C’è una scrittura molto più corale perché prima il percorso che faceva capo ad un’unica persona, il terminale di quel percorso lì, era Mario Tronco che aveva avuto quella visione straordinaria di mettere in piedi questo collettivo. Erano musicisti appena arrivati in Italia e non avevano fatto altre esperienze; erano mondi musicali lontani, adesso invece, crescendo nel proprio percorso artistico, c’è una modalità più orizzontale. Non ci si riferisce a me come terminale artistico, ma come terminale di produzione artistica. Io sono la direzione sonora, però qua è come se mancasse il direttore. È un’orchestra senza direttore.

Il messaggio, diciamo, l’esempio della vostra formazione senz’altro è immutato, ma possiamo dire la stessa cosa per il contesto sociale in cui viviamo?
È triste dirlo, ma non è una novità perché i nostri musicisti si trovano ad operare in un contesto complicato, come è complicata la società non solo in Italia, ma le ultime elezioni parlano chiaro di come la situazione sia drammatica in Europa e non solo. Certamente notiamo che in venti anni che suoniamo questa musica qui, e cerchiamo di veicolare un messaggio e una visione attraverso la musica, il fatto di vedere sul palco musicisti che hanno tutte queste diverse provenienze e culture è già un messaggio politico di per se che non va sottolineato. Quello che notiamo è che l’immigrazione era una cosa di cui si aveva paura e se ne parlava, adesso non se ne parla più, se non quando muore il bracciante e l’opinione pubblica scopre le condizioni drammatiche del caporalato, il barcone che affonda, il film di successo.

Qual è, secondo te, la reale percezione del fenomeno immigrazione?
Purtroppo l’immigrato viene visto come forza lavoro, non come un individuo che fa un percorso di vita che sceglie, per questo in venti anni non vediamo un cambiamento vero intorno.

Quindi, vuoi dire che ormai il fenomeno è noto, ma la conoscenza non ha permesso un miglioramento delle condizioni, anzi?
Io lavoro anche in un contesto di orchestra di seconde generazioni, a Torpignattara, e ho visto negli anni sparire certe realtà intorno: ci sono meno risorse per le strutture sociali per chi opera nel terzo settore; mancano i presidi, le competenze, l’assistenza a chi è costretto a venire in Italia perché scappa da guerre, da carestie. Se mancano quei percorsi di accoglienza, è chiaro che chi arriva in Italia sia costretto a stare in mezzo ad una strada, a passare per percorsi non legali per arrivare alla fine della giornata, non alla fine del mese. Tanti anni fa c’erano gruppi di aggregazione che servivano ad aiutare lo straniero e permettevano anche agli italiani di conoscere gli stranieri in maniera diversa, scoprendone la cultura, con il confronto. Noi facendo musica ci confrontiamo, l’umanità migliora quando si confronta e non quando si alzano i muri.

Il titolo dell’album del vostro nuovo progetto è Magma, che anche in questo caso, è un insieme di cose, una molteplicità di suoni, di differenze, di influenze?Reminiscenze sufi che si fondono con sonorità jazz, rock, persino pop. Una musica globale, che rappresenti, e ci rappresenti, con l’obiettivo di abbattere tutti i nazionalismi. Sono dieci brani di lingue diverse così come variegate sono le tematiche.

Di che cosa avevate urgenza di parlare?
Di cambiamenti climatici, di guerre, di poteri forti di certi stati africani dove le democrazie sono di facciata e invece poi sono delle vere dittature. Parliamo anche di storie d’amore e di persone che hanno nell’immaginario un amore lontano, di donne di uomini che stanno nei paesi da cui si è partiti; di figure rappresentative delle proprie terre.
La BabelNova è quindi un valido esempio di tutto quello che potrebbe portarci ad una umanizzazione: sia perché siete un gruppo che si confronta, sia perché mischiate tradizioni e gusti.

In generale, proprio per un cambiamento, anzi un miglioramento, quale dovrebbe essere il contributo della musica?
Il contributo della musica dovrebbe prescindere da quella che è diventata la musica oggi ossia competizione e mercato. Si comincia a fare musica perché diventa il modo per esprimere la propria voce, per trovare un’identità che ti faccia sentire vivo, noi oggi invece viviamo un meccanismo di percorso musicale che è, da adolescente fino ai venti anni, la competizione: devi fare gare nelle quali devi affermare che sei meglio dell’altro, non che cresci insieme all’altro. Così, vai con i talent, i concorsi, quanti ascoltatori fai piuttosto che quello che dici. È vero che è sempre stato così, ma fino a quindici anni fa c’era una disponibilità diversa ad ascoltare voci fuori dal coro.

Del resto, è il Paese del “merito” no?
Del finto merito perché non è solo fare una cosa meglio di un altro, ma saperla fare alle condizioni da cui sei partito. Ci sono ragazzi delle seconde generazioni che fanno una fatica enorme ad emergere perché partano con situazioni di enorme disagio sociale ed economico.

A proposito di crescite personali, la tua quale è stata?
Ho cominciato suonando il basso elettrico. Sono cresciuto in un’epoca in cui potevi sbagliare, potevi capire che cosa fare, studiare, potevi non essere sempre valutato. Poi ho cominciato una formazione classica in Conservatorio, ma ho avuto interesse per la produzione musicale, ho cercato nel tempo di far crescere tutte assieme queste competenze con la consapevolezza che si poteva sbagliare.

Ritrovarsi quindi in un grande gruppo e avere una costante occasione di confronto deve essere stimolante. Toglimi una curiosità, anche scrivere i brani lo fate tutti insieme?
Non è che ci ritroviamo nella stessa stanza, però l’idea passa di casa in casa, di pc in pc e ognuno aggiunge, cambia o toglie qualcosa. È un percorso apparentemente più complicato perché sembra che torni indietro per andare poi avanti. Devi rinunciare molto a te stesso perché non sempre la tua proposta finisce sul disco, però è un percorso divertente perché ci permette di scoprire nuovi modi di suonare e di scrivere.

AppassionataMente, il senso di un progetto sulla salute mentale

In occasione della Festa d’estate della Fondazione Massimo Fagioli ETS che si svolge il 6 luglio a Roma (dalle 17 alla Città dell’Altra economia, largo Dino Frisullo) pubblichiamo l’intervento di Gabriele Cericola sui Dialoghi sulla salute mentale “AppassionataMente”, una delle iniziative della Fondazione.

L’idea di AppassionataMente nasce dalla collaborazione tra il Segretariato italiano studenti di medicina (Sism) e la Fondazione Massimo Fagioli. Il progetto consiste in una serie di incontri tenuti in università su tematiche di salute mentale (depressione, sostanze d’abuso, Dca, etc) con lo scopo di abolire lo stigma che ancora persiste riguardo queste tematiche e, soprattutto, di fornire in materia punti di riferimento saldi a giovani e giovanissimi. Ogni incontro risulta costituito da circa un’ora di presentazione del tema principale da parte degli psicoterapeuti facenti parte della Fondazione, a cui fa seguito circa un’ora e mezza di domande da parte del pubblico studentesco (e non), arrivando a instaurare così un vero e proprio dialogo con i professionisti presenti.

Come è nato il progetto

Il primum movens è stato la mia partecipazione ad eventi studenteschi di associazioni esterne al Sism in cui si cercava di fare lo screening di varie patologie fisiche alle studentesse dell’Ateneo in occasione della Giornata contro la violenza sulle donne e della Festa della donna. In questi contesti, ancora studente a circa metà corso, ho partecipato poco alle visite per la paura di essere ancora poco preparato e mi sono concentrato piuttosto dove pensavo di poter essere realmente utile: mi sono messo a fare anamnesi. Le partecipanti erano tantissime, noi aspiranti medici davvero pochi in confronto, quindi mi sono ritrovato a fare centinaia di anamnesi. La cosa bella che mi porto da quell’esperienza è stato il contatto umano con tutte queste persone, che nonostante fossero pressoché circa tutte della mia età, in quel contesto si aprivano a parlarmi di loro, delle loro abitudini, di cose per loro intime senza alcuna remora. Non so, forse si fidavano del camice bianco che indossavamo, per quanto ancora fossimo in erba. Parlando con loro però, oltre queste belle sensazioni, emergevano anche tante cose meno positive: ragazze che non mangiavano, che dormivano poco, che si trascuravano, che si lamentavano di attacchi di panico o che venivano con un’ansia talmente forte da temere che la propria tachicardia fosse segno prodromo di un infarto, etc. Insomma, qualsiasi persona con una non totale cecità si sarebbe accorta che c’era qualcosa di grosso sotto, non solo nell’entità dei singoli casi, ma soprattutto nei numeri: erano davvero tantissime le persone a lamentarsi di qualcosa che non andava. Alcune non se ne rendevano conto e pensavano che i loro disagi fossero del tutto normali, altre erano consapevoli di stare male ma dicevano che non sapevano a chi rivolgersi o di non avere i soldi per pagare un professionista. Non so quante volte ho sentito “O pago l’affitto o pago lo psicologo, se sto male me lo tengo ma non posso dormire per strada o smettere di studiare”. Alcune avevano tentato la strada del counseling psicologico universitario, il quale però offrendo gratuitamente solo un massimo di circa 4 incontri avevano lasciato il tempo che trovava (sempre ricordando che il counseling è diverso da un approccio terapeutico e che quindi, pure avendo più incontri a disposizione, può avere al massimo un ruolo di screening nel contesto di patologie mentali, cliniche o subcliniche che siano). Avendo vissuto queste dinamiche più volte nel tempo ed avendo visto che non era una tendenza casuale e temporanea mi sono reso conto che non si poteva continuare a restare passivi di fronte a tutto questo disagio. Bisognava fare qualcosa, senza se e senza ma. In attesa di capire cosa poter fare concretamente ho conosciuto per coincidenza la realtà del Sism, fatta di persone fantastiche nonché di studenti di medicina ognuno con un proprio spirito etico e un forte desiderio di aiutare le persone in difficoltà. Dopo un periodo di doverosa conoscenza e cementazione dei nostri rapporti, ho capito di poter trovare nei miei compagni una possibile risposta al quesito precedente. Ci siamo quindi confrontati all’interno della nostra Sede Locale e siamo convenuti sul fatto che, viste le analogie tra la nostra Carta dei Valori e gli obiettivi dichiarati dalla Fondazione, fosse una buona idea chiedere una collaborazione a quest’ultima. Così siamo andati io e una mia collega, un po’ spaesati, a chiedere di parlare con dei membri della Fondazione. In questo contesto abbiamo avuto il piacere di conoscere Marcella e Francesca Fagioli, Chiara Aliquò e Federico Fiori Nastro, che sentendo quanto avevamo da raccontare e la nostra richiesta di collaborazione hanno mostrato entusiasmo e grande disponibilità fin da subito, proponendoci di ragionare insieme su un progetto per porre un argine alla situazione in attesa di un intervento più strutturale e definitivo da proporre in un secondo momento. Da lì è iniziata lentamente ad emergere l’idea che poi si sarebbe concretizzata in AppasionataMente.

I primi sviluppi…

Il progetto, a fronte di un primo semestre di “sperimentazione” in Sapienza ha ottenuto notevole successo: la media di prenotazioni è stata di circa 280 iscritti a incontro e anche i feedback dei partecipanti sono stati molto positivi, non solo in termini di ringraziamenti ma anche e soprattutto di partecipazione. Ogni incontro ha sforato il tempo previsto a causa delle numerose domande e si è dovuto chiudere a causa della necessità di abbandonare l’aula per chiusura della stessa. Inoltre il progetto è stato presentato al congresso nazionale del Sism, dove, durante l’Activities Fair (ovvero lo show room interno di tutti i progetti tenuti dalle singole sedi in territorio nazionale) ha vinto due premi: Miglior progetto e Progetto più originale. Da questo evento numerose sedi si sono dichiarate interessate a portare il progetto anche nei propri atenei d’appartenenza, per un totale di 16 sedi.

…e gli ultimi

Dopo un altro semestre di incontri solo in Sapienza e poche altre sedi (Sapienza Sant’Andrea e Università di Novara) si è finalmente riusciti a portare il progetto attivamente in tutte le altre a partire da marzo 2024. Le università coinvolte sono state, oltre quelle già citate, quelle delle città di Chieti, Ferrara, Firenze, Messina, Parma, Pavia, Siena, Torino e Trieste. Purtroppo, alcune delle 16 sedi che si erano dette originariamente interessate si sono ritirate in corso d’opera a causa di alcune controversie interne al Sism o, in altri casi, per difficoltà tecniche degli atenei. In compenso, alcune nuove sedi, si sono già dichiarate interessate a entrare a far parte del progetto a partire dal prossimo semestre. Quello che è certo è che il progetto è stato accolto con entusiasmo dai partecipanti di tutta Italia, i quali hanno caldamente auspicato un rinnovo della collaborazione.

Gli argomenti trattati

Ad oggi le tematiche dei singoli incontri sono state diverse e variegate. Eccone un elenco schematico: Violenza contro le donne, ex DCA (Disturbi del comportamento alimentare), Depressione e autolesionismo, Ansia e attacchi di panico, Sostanze d’abuso, Schizofrenia, Fenomeno degli Hikikomori, Gioco d’azzardo e gaming patologico, Psicoterapia, Dismorfofobia. Per i prossimi semestri sono in cantiere nuovi incontri, di cui almeno uno sarà molto probabilmente dedicato al tema della Sessualità.

Considerazioni sul progetto

La prima cosa da fare, arrivando a tirare le somme fino ad oggi, è ringraziare non solo la Fondazione come ente astratto, ma dichiaratamente tutti i membri che hanno partecipato attivamente alla realizzazione del progetto. Grazie ai coordinatori, agli psicoterapeuti nonché relatori, grazie a tutti coloro che hanno agito da dietro le quinte per la promozione del progetto e in tutti gli aspetti più tecnici. Grazie ai partecipanti. Anzi, a questi ultimi un grazie speciale: la vostra presenza e partecipazione attiva ha dato un senso a tutto il lavoro svolto. Vedervi emozionati, entusiasti, stupiti, immensamente partecipi non ha avuto prezzo. È stato bello vedervi essere presenti anche per un solo incontro o tornare più volte e non perdervene mai uno. È stato toccante vedere ogni tanto qualcuno alzare la mano anche solo per dire “grazie mille perché quello che avete raccontato è proprio quello che è successo a me” o “sono felice che qualcuno abbia la possibilità di non sentirsi solo come mi sono sentito io quando ci sono passato”. Voi siete la speranza, voi siete il motivo per cui vale la pena non arrendersi al cinismo, al disfattismo della nostra generazione, alla normalizzazione e accettazione dei rapporti deludenti. Siete la prova tangibile che ci sono persone che vogliono cambiare se stesse, che cercano con coraggio nella cura della propria malattia la capacità di amare e farsi amare, di non farsi del male da soli e di non farne agli altri, di affrontare il proprio inverno per donare agli altri un’altra estate (per citare in modo parafrasato alcuni scritti di M. Fagioli). Infatti, come scrissi un po’ di tempo fa in un post Instagram sul mio profilo, proprio sotto la registrazione dell’intervento riguardo la presentazione di AppassionataMente al Salone del libro di Torino: “Noi viviamo per rapportarci con chi abbiamo accanto, di chiunque si tratti. Viviamo di sguardi, momenti, parole, sensazioni. Sarebbe bello arrivare un giorno a vedere ciascuno vivere i propri rapporti nella massima libertà, senza alcun limite se non la voce della propria sensibilità. Qui nasce il senso della psichiatria e della salute mentale: una lotta per garantire a tutti questa libertà di nascita, di scelta, di sensibilità, l’unica guerra giusta. Perché, come dicevo nel video, la malattia mentale non è come un calcolo ai reni o qualsiasi altra malattia del corpo, la malattia mentale tormenta chi la ha, ma anche tutte le persone accanto. La malattia mentale strappa ai cuori la gioia, alle menti la serenità e costringe le persone a dirsi addio per non soccombere. Restare accanto a una persona malata di mente vuol dire morire internamente (se non anche esteriormente) sotto la cecità della sua vista offuscata, abbandonare quella persona spesso vuol dire però strapparsi un pezzo di cuore. Per chi ha avuto la fortuna di non vivere mai su di sé queste sensazioni, basti pensare agli esempi di Watanabe e Naoko in “Norwegian Wood” o alla canzone “Song to say goodbye” dei Placebo (di cui anche il video è perfettamente esplicativo quanto commovente). L’unico modo per non soffrire e non far soffrire è curarsi con coraggio, onestà, senso di responsabilità, amore. Perché la psichiatria e la psicoterapia, nella misura in cui sono strumenti che possono lasciar le persone libere di amarsi, sono esse stesse una forma d’amore. L’obiettivo, ad oggi dunque, è perseguire l’ideale di arrivare per tutti finalmente a un “Amore senza bugie”. Per cui per tutti i partecipanti, passati e futuri, non posso che avvolgervi a distanza con un caldo abbraccio e augurarvi di raccogliere quanto prima i frutti del vostro coraggio, a presto.

L’autore: Gabriele Cericola è medico, Sism Roma La Sapienza

La Festa d’estate

Si può distinguere la biografia dall’opera?

Dopo aver creato scalpore negli Stati Uniti nella forma di un lungo articolo e poi di libro, Mostri di Claire Dederer arriva finalmente in Italia, pubblicato da Altrecose, editrice neonata dalla collaborazione tra Iperborea e ilPost. Il problema posto è scottante e ci interpella tutti, in ogni ambito: come porci di fronte all’opera – artistica, culturale, intellettuale – di personaggi la cui biografia presenta macchie, perfino gravi, al punto da farceli apparire come mostri? Gli esempi analizzati nel libro sono per lo più maschili, con le sole eccezioni di Virginia Woolf e Joni Mitchell: Roman Polanski, Woody Allen, Pablo Picasso, Ernest Hemingway, Richard Wagner. Siamo “fan” delle loro opere, non rinunceremmo mai ai loro film, ai loro dipinti, ai loro libri, alle loro arie. Ma affezionarci a loro ci crea più di qualche imbarazzo, poiché la loro genialità si è accompagnata ad azioni deprecabili, o almeno difficilmente apprezzabili.

Dederer affronta questo spinosissimo problema con una invidiabile coerenza problematizzante. Non cerca mai di imporre una risposta, che per altro nemmeno lei sente di avere. Rifugge anzi l’assertività così granitica con cui sempre più spesso le opinioni ci vengono presentate. L’umiltà non è segno di debolezza intellettuale, bensì di impegno sincero nel confronto con una questione complessa, articolata. Una questione che, anzi, è indecidibile, dal momento che l’attrito che avvertiamo a contatto con persone le cui opere ammiriamo è proprio dovuto alla contraddittorietà umana: la nostra di osservatori, la loro di esseri umani ben lungi dalla divinità cui l’arte sembra avvicinarli.

Leggere questo libro, apprezzando il metodo sperimentale con cui l’autrice affronta le proprie tesi e le eviscera in riflessioni mai definitive, mi ha riportato alla mente alcuni casi celebri della filosofia. Viene in mente la filosofia di Heidegger o quella di Gentile: dovremmo gettarle per le simpatie dei due pensatori nei confronti del nazismo e del fascismo? Prima di loro, Arthur Schopenhauer, che predicava la castità, salvo poi essere beccato, una notte, dai discepoli all’uscita di un bordello: alle loro domande, il filosofo risponde che non si deve mai giudicare la filosofia dalla condotta di un filosofo. Prima ancora, Galileo Galilei, che di fronte alla minaccia della Santa Inquisizione disconosce le proprie teorie scientifiche, consapevole della loro forza, stabile e irrefutabile anche senza la testimonianza diretta e personale del loro autore. Molti secoli prima, Aristotele scappa da Atene dopo la morte del suo allievo, Alessandro Magno, temendo di essere ucciso: “Atene si è già macchiata di un delitto contro la filosofia, Socrate, non voglio darle l’occasione per un altro delitto”.

Oltre a questi, che sono casi di personaggi che hanno divincolato la propria opera dalla propria biografia, vi sono però anche casi opposti. Giordano Bruno e, prima, Socrate, che vanno incontro alla morte per testimoniare con la propria vita il proprio messaggio. Un caso speciale è quello dei Cinici antichi, i quali non solo vivono coerentemente con la verità che predicano, ma fanno della propria vita vera e irrefutabile rappresentazione del proprio messaggio: il loro corpo è il teatro su cui il loro pensiero va in scena, costringendo chi è intono a entrarvi in contatto, a sbattervi contro, anche con lo scandalo.

Tutto ciò per dire che la questione della compenetrazione tra biografia e opera è cosa molto controversa. Certo suscita ammirazione chi si immola per la propria opera, chi, anzi, fa della propria vita la propria prima opera d’arte, dimostrando coerenza, coraggio, passione. Ma, sempre più dall’epoca moderna, il soggetto si è trasformato in una funzione astratta, la cui parola e la cui azione sono slegate dalla persona concreta, in carne e ossa. Diventa perciò d’obbligo interrogarci se sia il caso di gettare alle ortiche l’opera intellettuale di persone la cui biografia non ha nulla di buono da trasmetterci, ma le cui produzioni arricchiscono in nobiltà la vita di chi vi si accosta. Se nella complessa contraddittorietà di un individuo, vi sono opere – la biografia – degradanti, e opere – intellettuali – edificanti, vale forse la pena considerare caso per caso quanto le prime contaminino le seconde, quanto le seconde abbiano urgenza del sostegno delle prime per reggersi, e decidere, forse perfino con la pancia e il cuore, come collocarci a riguardo.

L’autore: Carlo Crosato è ricercatore di filosofia politica all’Università di Bergamo e saggista

Un altro, un’altra ammazzata

A Roma in via degli Orseolo al numero civico 36 c’è un nugolo di palazzi bassi color mattone e alcuni che tendono al rosa. Poi c’è un’area recintata vuota, inaspettata nel caos della capitale. Infine c’è Villa Sandra. Ci si entra da via Portuense ma chi ci lavora esce da dietro. Ieri, non erano ancora le due del pomeriggio, in via degli Orseolo al numero 36 c’era anche il corpo di Manuela Pietrangeli, 50 anni festeggiati con un contratto di lavoro che prometteva serenità in mezzo alla tempesta. Pietrangeli aveva un buco in mezzo al petto, come iniziano certi romanzi e certe serie a puntate. 

A sparare è stato Gianluca Molinaro che da tre anni era separato dalla donna. Avevano anche un figlio, ha nove anni. Molinaro era a bordo della sua auto, ha abbassato il finestrino. Uno sparo l’ha colpita al braccio, lei era con una collega, provando a scappare ha chiesto aiuto. Un fucile a canne mozze è l’arma del delitto. Un fucile a canne mozze che la colpisce al petto uscendo dal finestrino di un’auto. 

Sembra una scena di mafia scritta da Sciascia e invece è un altro femminicidio. I giornali scrivono che lei era buona. La notizia che lei è morta, uccisa da un uomo che aveva lasciato. È una notizia anche che l’assassino abbia delle denunce che del femminicidio sono veri e propri reati spia. Due mesi di carcere per violenze contro la sua ex compagna, denunce per atti persecutori. È la sua ex compagna (con cui ha un’altra figlia) che l’ha convinto a costituirsi. Racconta che quando lui l’ha chiamata confessando il femminicidio era ubriaco e voleva uccidersi. Non si è ucciso, no, e ha chiamato un’altra sua vittima – per fortuna viva – per mondarsi. Ora è in arresto. Un altro, un’altra ammazzata. 

Buon venerdì. 

Lo sguardo di Ouka Leele

Peluqueria di Ouka Leele

Una movida Bárbara, la mostra di Ouka Leele che si può vedere al Museo di Roma in Trastevere fino al 7 luglio rappresenta un’occasione unica per conoscere la figura di questa artista spagnola scomparsa di recente, nel 1922, all’età di 64 anni, ancora poco nota in Italia, che ha esplorato nella sua creazione artistica diversi campi (tra l’altro è autrice di una decina di raccolte di poesia), la cui fama è legata soprattutto ad alcune fotografie da lei ritoccate col pennello e che successivamente sono diventate iconiche. Il riferimento del titolo alla movida è dovuto al legame dell’artista con quell’esplosione di creatività che ebbe come epicentro Madrid nei primi anni Ottanta documentata anche nelle prime pellicole di Pedro Amodóvar; l’iconico acceso cromatismo di alcune pellicole del regista manchego ricorda quello di alcune fotografie della nostra, che ebbe modo di collaborare con lui per il film Laberinto de Pasiones (l’artista disegnò i cappelli). Invece Bárbara è il suo vero nome (ma anche un aggettivo di uso comune in spagnolo (che nel gergo ha assunto il significato di smisurato, straordinario, favoloso, magnifico ecc.).

Floraleza, di Ouka Leele

Al secolo Bárbara Allende Gil de Biedma nasce nel 1957 in una famiglia di antica ascendenza aristocratica appartenente all’alta borghesia. Suo zio è il poeta Jaime Gil de Biedma, uno dei protagonisti della “Scuola di Barcellona” (che fu il principale centro della poesia spagnola tra la fine degli anni Cinquanta e il decennio successivo), il padre un architetto.
La passione per il disegno e per l’arte si manifesta già da bambina (frequenta spesso il Museo del Prado per ammirare le tele del suo amato El Greco). Si iscrive all’Accademia de Bellas Artes di Madrid, ma i suoi interessi e i suoi primi lavori sono legati al mondo dei fumetti.
La svolta avvenne nel 1976, quando si avvicina al mondo della fotografia e si iscrive al Photocentro, una avanguardistica scuola di fotografia fondata appena un anno prima a Madrid. Al 1976 risale anche la sua prima foto pubblicata, che uscì nel volume antologico Principio, 9 jóvenes fotógrafos españoles. Nel 1978 si trasferisce a Barcellona, dove l’anno successivo realizza Peluquería (“parrucchiere”), una serie di fotografie nelle quali cominciò a sperimentare il ritocco delle immagini col pennello e che fu esposto a Barcellona e Madrid.
Negli scatti di questa serie, successivamente diventati iconici, ironizzando sulla tradizione spagnola della peineta (il pettine per le acconciature femminili che si usa mettere tra i capelli nei giorni di festa), ritraeva amici con improbabili oggetti di uso domestico in testa. L’aggiunta di colori a mano sulla stampa in bianco e nero ne metteva ancora più in risalto l’aspetto “irreale”, che venne subito messo in relazione dalla critica al surrealismo e alla pop-art.
«Senza rendermene conto, scoprì un linguaggio che era molto “mio”, personale, che mi aiutava a creare una poetica e un linguaggio col quale mi esprimevo divinamente», dichiarò in seguito l’artista.
Risale a questo periodo la scelta dello pseudonimo Ouka Leele (già fin dai suoi esordi aveva preferito non usare il cognome della famiglia, firmandosi fino a quel momento come “Bárbara Sin Apellido”, ovvero “Barbara senza cognome” oppure “Bárbara Aaaaaaa”), il nome di una stella immaginaria di un quadro del pittore José Alfonso Morera Ortiz, più noto con lo pseudonimo di “El Hortelano” (anche lui uno dei protagonisti della “Movida”), che fu compagno di vita dell’artista in quegli anni. La sua mostra di Madrid presso la Galería Redor dal 6 al 29 marzo del 1980, che si aprì con una performance dell’artista (si presentò all’inaugurazione con un maialino in testa con luci intermittenti al posto degli occhi, dichiarando «Sono Ouka Leele, la creatrice della mistica domestica, dico questo perché la gente considera le mie immagini come una critica sociale, quando sono tutto il contrario: la sublimazione del quotidiano, del domestico») la rende una delle protagoniste del fermento artistico che si stava manifestando in quegli anni nella capitale spagnola. Successivamente viaggia in Messico e vive a New York, ma nel 1981 deve tornare in Spagna a causa di una grave malattia, che però riuscì a superare felicemente. A quell’anno risale la collaborazione al film Laberinto de Pasiones.

Rida como la niebla por el solo (1987)Copia de fotografia in bianco e nerp, dipinta a mano

Gradualmente la sua cosiddetta “mistica domestica”, ovvero la trasformazione di oggetti di uso quotidiano, come un ferro da stiro o un rasoio nel centro dell’opera, che caratterizzava la sua poetica e la “messa in scena delle sue opere”, suscita l’interesse della critica e delle gallerie d’arte di tutto il mondo, tanto che nel 1987 il Museo d’Arte Contemporanea Reina Sofia di Madrid le dedica la prima retrospettiva e, nello stesso anno, alcune sue opere sono esposte nella Biennale di San Paolo.
I migliori lavori di Ouka Leele appaiono come la perfetta fusione di pittura e fotografia. «La pittura è la mia passione. Fin da piccola volevo fare la pittrice, ho passato tutta la vita a farlo; in effetti, è qualcosa che pratico anche con le mie istantanee. Una mia immagine richiede più ore di pittura che di fotografia. Quando lo faccio, riesco ad aggiungere qualcosa di soggettivo a una fotografia, aggiungo sentimento a qualcosa che in linea di principio consiste nel plasmare la realtà», ha dichiarato Ouka Leele. E in realtà anche le foto non ritoccate dall’autrice prima di essere scattate appaiono “pensate” dalla mente di un pittore che, al posto del pennello, utilizza la macchina fotografica.
La scelta di esplorare la particolare zona di confine tra queste due discipline rappresenta uno degli elementi più interessanti della sua creazione artistica. In questo senso Ouka Leele è stata una vera e propria “pioniera” di un territorio poco esplorato e poco frequentato dall’arte contemporanea.
Dalle interviste e dalle testimonianze dei suoi amici, emerge il ritratto di una donna riservata e discreta, dall’indole mite, ma che era in grado di stupire e spiazzare tutti con le sue trovate estrose e geniali. Ouka Leele fu una donna coraggiosa, come dimostra anche la scelta, nel 1990, di portare a termine una maternità da sola (oggi la figlia dirige la fondazione che porta il suo nome).
La sua creazione artistica ha ottenuto nel corso degli ultimi anni numerosi riconoscimenti: nel 2005 riceve il Premio Nazionale di Fotografia; Il regista Rafael Gordon nel 2010 gli ha dedicato La mirada de Ouka Leele (“lo sguardo di Ouka Leele”), in cui documenta la realizzazione di Mi jardín metafísico (“il mio giardino metafisico”), un murales (l’unico mai dipinto dall’artista) di 300 metri quadrati a Ceutí (in provincia di Murcia); al documentario è stato tributato quell’anno un premio Goya nella sua categoria.
Negli ultimi anni si dedica principalmente alla pittura, tuttavia la sua fama a livello mondiale è legata soprattutto alle immagini della serie Peluquería che presentò nella sua prima mostra a Madrid, opere geniali e iconiche che, con quel loro cromatismo acceso e irreale, rappresentano una perfetta istantanea di quell’esplosione di creatività che stava avvenendo in quegli anni nella metropoli spagnola in diversi campi: dall’arte al cinema, dalla letteratura alla musica.
Ma le opere di quest’artista non sono solo il documento di una fase particolarmente intensa e feconda della creatività spagnola; i suoi esperimenti con la fotografia sono opere originali che hanno lasciato un segno nell’arte contemporanea.

L’autore: Lorenzo Pompeo è scrittore, traduttore e slavista