Poco più di venti anni fa, Mario Tronco e Agostino Ferrente dettero vita a L’Orchestra di Piazza Vittorio, un ensemble multietnico di musicisti, e non solo, risultato della commistione di provenienze di diverse culture per realizzare progetti creativi. Dopo quella esperienza alcuni dei musicisti, guidati (e prodotti) dal contrabbassista Pino Pecorelli, già componente dell’Orchestra, hanno lavorato a un’altra idea corale: la BabelNova Orchestra. Non solo confusione, però, come l’epica torre, ma un insieme di suoni e lingue, anche inventate, che da poco ha dato origine a Magma, il loro album di debutto. Evocativa è la cover del disco, firmata dall’illustratrice Lorena Spurio, che è un chiaro richiamo al titolo e che vuole esprimere la fusione di diverse culture e sonorità attraverso un paesaggio vulcanico abitato da tante persone. Ne parliamo proprio con Pecorelli, che ci racconta del perché di una nuova avventura, dell’importanza del confronto e dello sbagliare nell’epoca del merito.
Dopo il debutto 19 giugno, in occasione della giornata mondiale del Rifugiato, organizzata da Refugees Welcome Italia con Testaccio Estate, il 22 giugno i BabelNova hanno dedicato all’universo femminile il concerto dello scorso 22 giugno al Parco archeologico del Colosseo, al Tempio di Venere, insieme a Ginevra Di Marco e all’orchestra Almar’a.
«Il 19 è stata la data zero. È bello partire da casa per quello che spero sia l’inizio di una nuova, grande avventura – racconta Pecorelli – , che il 7 luglio approda a Latina. Saremo anche a Rispescia per Festambiente, poi in Sicilia. Il calendario si sta allargando».
Facciamo un passo indietro quando, e perché, nasce il progetto BabelNova?
Nasce quest’anno ed è una sorta di nuovo percorso che i musicisti, che per venti anni hanno fatto parte dell’Orchestra di Piazza Vittorio, intraprendono, entrando in una nuova realtà, oltre che cambiando nome, per dare anche all’esterno una nuova visione dello stesso bagaglio culturale. C’è molta di quell’esperienza lì perché sono le persone che hanno fatto quel percorso ventennale e che, adesso, si reinventano perché tutto intorno è cambiato, anche lo scenario in cui fare musica del mondo. Ci sembrava giusto cambiare anche forma. Passare da una forma che era quella dell’Orchestra di Piazza Vittorio, diciamo di orchestra gerarchica, a una forma più orizzontale, più da gruppo. Le individualità in quei venti anni di esperienza fatti nell’Orchestra sono cresciute, si sono definite, sono cambiate e quindi questo è il nuovo modo di valorizzarle. È venuta anche meno una certa visione, il direttore artistico, Mario Tronco, ha intrapreso un altro percorso, poi l’anno scorso è venuto a mancare Leandro Piccioni, che con me e Mario era una delle anime principali di quel progetto lì. In qualche modo sono rimasto da solo, ci siamo guardati in faccia, con gli altri musicisti, e ci siamo detti di partire con una nuova avventura e quest’anno c’è stata questa occasione straordinaria di esordire a Sanremo con Dargen D’Amico (per la serata dei duetti con un omaggio a Morricone, ndr) e da lì siamo ripartiti.
Quindi, le stesse persone sono cresciute e cambiate, musicalmente e non solo, ma hanno un’idea nuova in testa?
Cerchiamo di guardare, essendo cambiato lo scenario, anche alle nuove generazioni di cui non si parlava venti anni fa. I musicisti, dopo tutti questi anni, sono diventati italiani non solo da un punto di vista formale, ma hanno fatto un percorso di crescita in un paese che adesso gli appartiene. Allo stesso tempo portiamo le nuove generazioni a riscoprire quella metà della loro identità che appartiene all’estero, ai genitori che sono arrivati qui. Anche perché sono diminuiti i musicisti che vengono da fuori, il nostro è diventato un Paese poco attrattivo per loro perché non offriamo opportunità di lavoro.
Siete quindi un esempio di integrazione, di condivisione, tutte quelle caratteristiche che in un momento storico come il nostro non sono così valorizzate. Però, appunto, prima accennavi ad una visione nuova del vostro progetto artistico: qual è?
C’è una scrittura molto più corale perché prima il percorso che faceva capo ad un’unica persona, il terminale di quel percorso lì, era Mario Tronco che aveva avuto quella visione straordinaria di mettere in piedi questo collettivo. Erano musicisti appena arrivati in Italia e non avevano fatto altre esperienze; erano mondi musicali lontani, adesso invece, crescendo nel proprio percorso artistico, c’è una modalità più orizzontale. Non ci si riferisce a me come terminale artistico, ma come terminale di produzione artistica. Io sono la direzione sonora, però qua è come se mancasse il direttore. È un’orchestra senza direttore.
Il messaggio, diciamo, l’esempio della vostra formazione senz’altro è immutato, ma possiamo dire la stessa cosa per il contesto sociale in cui viviamo?
È triste dirlo, ma non è una novità perché i nostri musicisti si trovano ad operare in un contesto complicato, come è complicata la società non solo in Italia, ma le ultime elezioni parlano chiaro di come la situazione sia drammatica in Europa e non solo. Certamente notiamo che in venti anni che suoniamo questa musica qui, e cerchiamo di veicolare un messaggio e una visione attraverso la musica, il fatto di vedere sul palco musicisti che hanno tutte queste diverse provenienze e culture è già un messaggio politico di per se che non va sottolineato. Quello che notiamo è che l’immigrazione era una cosa di cui si aveva paura e se ne parlava, adesso non se ne parla più, se non quando muore il bracciante e l’opinione pubblica scopre le condizioni drammatiche del caporalato, il barcone che affonda, il film di successo.
Qual è, secondo te, la reale percezione del fenomeno immigrazione?
Purtroppo l’immigrato viene visto come forza lavoro, non come un individuo che fa un percorso di vita che sceglie, per questo in venti anni non vediamo un cambiamento vero intorno.
Quindi, vuoi dire che ormai il fenomeno è noto, ma la conoscenza non ha permesso un miglioramento delle condizioni, anzi?
Io lavoro anche in un contesto di orchestra di seconde generazioni, a Torpignattara, e ho visto negli anni sparire certe realtà intorno: ci sono meno risorse per le strutture sociali per chi opera nel terzo settore; mancano i presidi, le competenze, l’assistenza a chi è costretto a venire in Italia perché scappa da guerre, da carestie. Se mancano quei percorsi di accoglienza, è chiaro che chi arriva in Italia sia costretto a stare in mezzo ad una strada, a passare per percorsi non legali per arrivare alla fine della giornata, non alla fine del mese. Tanti anni fa c’erano gruppi di aggregazione che servivano ad aiutare lo straniero e permettevano anche agli italiani di conoscere gli stranieri in maniera diversa, scoprendone la cultura, con il confronto. Noi facendo musica ci confrontiamo, l’umanità migliora quando si confronta e non quando si alzano i muri.
Il titolo dell’album del vostro nuovo progetto è Magma, che anche in questo caso, è un insieme di cose, una molteplicità di suoni, di differenze, di influenze?Reminiscenze sufi che si fondono con sonorità jazz, rock, persino pop. Una musica globale, che rappresenti, e ci rappresenti, con l’obiettivo di abbattere tutti i nazionalismi. Sono dieci brani di lingue diverse così come variegate sono le tematiche.
Di che cosa avevate urgenza di parlare?
Di cambiamenti climatici, di guerre, di poteri forti di certi stati africani dove le democrazie sono di facciata e invece poi sono delle vere dittature. Parliamo anche di storie d’amore e di persone che hanno nell’immaginario un amore lontano, di donne di uomini che stanno nei paesi da cui si è partiti; di figure rappresentative delle proprie terre.
La BabelNova è quindi un valido esempio di tutto quello che potrebbe portarci ad una umanizzazione: sia perché siete un gruppo che si confronta, sia perché mischiate tradizioni e gusti.
In generale, proprio per un cambiamento, anzi un miglioramento, quale dovrebbe essere il contributo della musica?
Il contributo della musica dovrebbe prescindere da quella che è diventata la musica oggi ossia competizione e mercato. Si comincia a fare musica perché diventa il modo per esprimere la propria voce, per trovare un’identità che ti faccia sentire vivo, noi oggi invece viviamo un meccanismo di percorso musicale che è, da adolescente fino ai venti anni, la competizione: devi fare gare nelle quali devi affermare che sei meglio dell’altro, non che cresci insieme all’altro. Così, vai con i talent, i concorsi, quanti ascoltatori fai piuttosto che quello che dici. È vero che è sempre stato così, ma fino a quindici anni fa c’era una disponibilità diversa ad ascoltare voci fuori dal coro.
Del resto, è il Paese del “merito” no?
Del finto merito perché non è solo fare una cosa meglio di un altro, ma saperla fare alle condizioni da cui sei partito. Ci sono ragazzi delle seconde generazioni che fanno una fatica enorme ad emergere perché partano con situazioni di enorme disagio sociale ed economico.
A proposito di crescite personali, la tua quale è stata?
Ho cominciato suonando il basso elettrico. Sono cresciuto in un’epoca in cui potevi sbagliare, potevi capire che cosa fare, studiare, potevi non essere sempre valutato. Poi ho cominciato una formazione classica in Conservatorio, ma ho avuto interesse per la produzione musicale, ho cercato nel tempo di far crescere tutte assieme queste competenze con la consapevolezza che si poteva sbagliare.
Ritrovarsi quindi in un grande gruppo e avere una costante occasione di confronto deve essere stimolante. Toglimi una curiosità, anche scrivere i brani lo fate tutti insieme?
Non è che ci ritroviamo nella stessa stanza, però l’idea passa di casa in casa, di pc in pc e ognuno aggiunge, cambia o toglie qualcosa. È un percorso apparentemente più complicato perché sembra che torni indietro per andare poi avanti. Devi rinunciare molto a te stesso perché non sempre la tua proposta finisce sul disco, però è un percorso divertente perché ci permette di scoprire nuovi modi di suonare e di scrivere.