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Lo Stato italiano sarà ancora uno e indivisibile?

illustrazione di Fabio Magnasciutti

Quando i costituenti inserirono, nell’articolo 5 della Costituzione – che appartiene alla Prima parte che fissa i princìpi fondamentali – la promozione dell’autonomia amministrativa locale, lo fecero in un saldo quadro di unicità e indivisibilità dello Stato.
L’istituto demoscopico Noto Sondaggi, ha diffuso ieri una rilevazione su come gli italiani percepiscono la legislazione sulla cosiddetta autonomia differenziata, per l’approvazione della quale la maggioranza di governo avanza a passo spedito nei lavori parlamentari in questi giorni. Progetto che, va detto, serve, prima che agli interessi del Paese, a tenere insieme la maggioranza stessa in uno scambio tra la bandiera leghista dell’autonomia regionale rafforzata (e differenziata) e il cosiddetto premierato, che la presidente del Consiglio promuove come “la madre di tutte le riforme”.
Fatto sta che, spiega l’Istituto Noto, alla domanda “favorevole o contrario”, il 45% degli italiani si oppone al progetto del Governo. Solo il 35% è favorevole. E solo al Nord il 42% dice “sì”. La maggioranza per il “no” viene al 50% dal Centro e al 57 dal Sud. I cittadini della parte più ricca vedono di buon occhio la possibilità di gestire più risorse a livello regionale. Per le Regioni più povere la valutazione è opposta.
Ma è sull’affermazione del governo che l’autonomia differenziata ridurrebbe le disparità delle Regioni che emerge un dato davvero interessante: solo il 16% dei cittadini del Nord la condivide, contro l’8% del Sud. Sul totale, il dato di coloro che fanno proprio il concetto è, nell’insieme del Paese, solo l’11%. Insomma, gli italiani non ci credono. Dunque, il governo si è perso l’unità del Paese affermata dall’indivisibilità richiamata nell’articolo 5 della Carta.
Ora, cerchiamo di guardare alla realtà concreta che ci circonda. Il federalismo, dunque. Siamo nel XXI Secolo e il sistema federale nel quale l’Italia è inscritta è quello dell’Unione europea. Le politiche fondamentali, la stessa raccolta di risorse comuni e la loro distribuzione – pensiamo, tra tanti esempi, al solo PNRR – sono radicati nell’Unione. Pensiamo alle politiche per il lavoro. Come si possono ancora cristallizzare a livello regionale le politiche attive di un Paese che deve muoversi nelle pieghe del mercato globale? E così tutte le altre, dall’istruzione e formazione alla sanità.
Dunque, l’autonomia differenziata della maggioranza – e gli italiani dimostrano di esserne ben consci – serve essenzialmente agli obsoleti interessi di bandiera di quella Lega che ha dimenticato di essere nata federalista europea. Ma che è anche fuori tempo massimo rispetto alla realtà.

 

In apertura illustrazione di Fabio Magnasciutti

L’autore: Cesare Damiano, già sindacalista e parlamentare in tre legislature, è stato ministro del Lavoro ed è presidente dell’associazione Lavoro & Welfare 

Maturità, e poi? Quante incognite per il futuro dei diplomandi

Quasi 500mila studenti e studentesse si stanno preparando a sostenere la prova di maturità. Per ognuno di loro, passato questo traguardo, giungerà una consapevolezza: la vera corsa deve ancora iniziare.

Superate le scuole superiori, con tutte le problematiche legate alla crescita e alla limitata autonomia della minore età, arriva il primo vero carico di responsabilità verso il proprio futuro: se a tredici anni si era troppo piccoli per scegliere in completa autonomia un percorso di studi, senza lasciarsi influenzare dai consigli di insegnanti e genitori o da fattori squisitamente logistici (la lontananza della scuola, la presenza di altri amici in questo o quell’istituto), con la scelta del percorso post liceale per la prima volta si è davvero soli, chiamati a scelte capaci di influenzare molto di più che un ciclo di studi.

Quand’è che ci si chiede “cosa voglio fare nella vita”? E chi è che a meno di vent’anni è in grado di rispondere? Non si può negare che sulla risposta influisca il proprio punto d’osservazione sul futuro, il contesto sociale, culturale ed economico.

Il figlio del medico per esempio avrà maggiori possibilità di scegliere quel tipo di percorso, così come non è improbabile che uno studente pressato da esigenze familiari (dettate da indigenza o, al contrario, dalla necessità di portare avanti un’attività remunerativa già avviata) possa ritenere sufficiente gli studi già svolti.

Non mancano valutazioni inquinate dal comune sentire. “Cosa ci fai con quella laurea?” è una domanda che chiunque abbia scelto di proseguire gli studi in materie che non rientrano fra le cosiddette “Scienze dure”, si è sentito fare almeno una volta.

Dalle statistiche emerge il peso dei fattori familiari. L’Istituto nazionale analisi delle politiche pubbliche-Inapp  ha calcolato che un genitore laureato triplica le possibilità del figlio di conseguire lo stesso titolo rispetto a studenti con genitori privi di laurea o diploma.

Oltre al contesto familiare incide quello sociale inteso in senso più ampio. Secondo un’analisi di Openpolis sulla dispersione scolastica, ci sono grandi differenze tra Nord e Sud, centro e periferie, grandi città e aree interne: nel 2022 le Regioni in cui la scuola era abbandonata con maggiore frequenza sono state Campania (19,8%), Sardegna (18,7%), Calabria (18%) e Sicilia (16%). Si tratta di numeri coerenti con quelli riportati nel 2019 dallo stesso istituto, quando i maturandi che decisero di proseguire gli studi erano stati solo il 47,5% del totale nel Sud e nelle isole, in ribasso rispetto alla già non elevata media nazionale (51,4%). 

Tuttavia le ultime edizioni del Rapporto annuale delle forze di lavoro elaborate dall’Istat dicono che anche al Nord, dove le opportunità professionali per giovani non laureati sono maggiori, questi ultimi hanno più probabilità di essere successivamente esclusi dal mondo del lavoro e minori possibilità di essere ricollocati.

Un quadro aggravato dai cosiddetti Neet (Not in Education, Employment or Training), giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano, non lavorano e non sono in formazione e che scegliendo di non scegliere compromettono almeno in parte il loro futuro, ma anche quello del sistema Paese. In Italia Oltre un ragazzo su cinque si trova in questa condizione (fonte Openpolis), con punte del 35% in nove provincie, tutte del Sud, a conferma dell’influenza di condizioni sociali sulla programmazione e l’immaginazione del proprio futuro.

Non tutti i fattori condizionanti sono però di tipo economico: molti intellettuali e docenti ritengono che complichi la scelta di maturandi anche la scarsa predisposizione della scuola a fornire adeguati strumenti di valutazione.

Quella che viene meno in molti casi è la capacità di un’indagine reale sul tipo di persona che si vuole diventare, al di là degli aspetti legati a convenienze economiche e opportunità professionali, che dovrebbe costituire un contraltare importante nella scelta del percorso post maturità. Si tratterebbe tra l’altro di un elemento su cui, ove gli fosse data la dovuta importanza, si fonderebbero gran parte delle possibilità di riuscita di un percorso accademico o professionale.

Ritorna dunque prepotente la necessità di una scuola pubblica che non si limiti a verificare l’apprendimento di nozioni uguali per tutti ma favorisca la conoscenza delle proprie inclinazioni, inserita in una società in grado di fornire a chiunque (indipendentemente dalle condizioni di partenza) la possibilità di valorizzarle: sarebbe un elemento imprescindibile perché la risposta alla prima vera domanda che ci si fa sul proprio futuro, potesse avere qualche possibilità di essere quella giusta.

Nei mesi scorsi Alma Diploma ha presentato a tal proposito una rilevazione su quasi 29mila neodiplomati da cui emerge che, sul 78,5% di quanti hanno svolto attività post-diploma organizzate dalla scuola, solo il 47,9% ha reputato tale attività rilevante per la scelta finale. Principale fattore incidente sembra essere ancora la famiglia, specie se i genitori sono laureati, confermando la necessità di un orientamento efficace laddove il contesto familiare non riuscisse a svolgere questa funzione.

Per molti il modello scolastico basato su lezioni frontali e apprendimento mnemonico e nozionistico, risponderebbe all’esigenza pubblica di produrre risultati oggettivamente misurabili, ma non sempre a quella di formare persone consapevoli delle proprie capacità e aspirazioni, dunque facilitate nelle scelte post diploma.

Studenti, docenti, politici e intellettuali si sono spesso confrontati su questo aspetto, su cui nessuna riforma scolastica ha inciso davvero. Già Umberto Eco aveva stigmatizzato il nozionismo (“colto non è colui che sa quando è nato Napoleone, ma colui che sa dove andare a cercare l’informazione nell’unico momento della sua vita in cui gli serve”), mentre in anni più recenti lo scrittore (e docente) Andrea Bajani auspicava una scuola capace di far “uscire i ragazzi con la capacità di immaginare un mondo diverso da quello che hanno consegnato loro, e non solo (quella di essere, ndr) bravi ad inserirsi dentro caselle già disegnate” (La scuola non serve a niente, Laterza, 2014).

A rincarare la dose è stato anche Nuccio Ordine, tra i massimi studiosi del Rinascimento: «Non diciamo agli studenti ‘devi studiare per acquisire una conoscenza che consenta di diventare donne e uomini liberi’ ma ‘devi scegliere la scuola sulla base del lavoro che devi fare e di quanto guadagnerai’… Questo significa promuovere una educazione mercantilistica, contraria a qualsiasi idea di educazione che deve formare cittadini colti»

Si tratta di un allarme reale o delle preoccupazioni di un umanista incapace di cogliere le esigenze del mondo del lavoro rispetto alle ambizioni del sistema educativo? Dobbiamo chiedere ai giovani di seguire le loro inclinazioni o le indicazioni del mercato?

Comunque si voglia rispondere, resta un dubbio: sicuri che siano gli adulti di oggi a poter indicare ai maturandi la via migliore per diventare gli adulti di domani?

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L’autore: Fabrizio Moscato, giornalista, è direttore del festival “Liberi sulla carta” 

Biennale itinerante del sociale, la fotografia nel segno dei diritti umani e ambientali

La Biennale itinerante del sociale (Bis) ha aperto le sue porte alla prima edizione, un evento unico organizzato dall’Associazione Pachamama. Questo progetto itinerante attraversa due continenti fino al 28 agosto, con tappe in quattro città: Brescia e Roma già toccate nel mese di maggio, Genova (8-14 luglio) e Iquique (Cile) dal 22 al 28 agosto.

Per la fondatrice e presidente dell’associazione, Paula Jesus, fotografa e regista per Unicef, Pachamama – in lingua quechua “madre spazio tempo” – rappresenta la Terra ideale: un luogo capace di ospitare e proteggere i diritti umani e ambientali. Paula, nata in Cile da una famiglia poco tradizionale simile a una tribù indigena, vede in Pachamama un luogo senza confini fisici e temporali, un’energia che abbraccia tutto e tutti.
«Da migrante, desideravo creare qui in Italia un luogo dove sentirmi veramente a casa. Le lettere di Pachamama mi ricordano l’eco del Sudamerica e i sentimenti del Sud del mondo».

Paula Jesus

L’associazione è nata con l’obiettivo di fondare la Biennale itinerante del sociale (Bis), un osservatorio attivo che, attraverso la fotografia di reportage, esplora le problematicità e le contraddizioni della nostra modernità, tra cui guerre umanitarie, crisi ambientali, migrazioni e razzismi. Un movimento per il cambiamento, una finestra sul mondo che invita a vedere, comprendere e agire consapevolmente per costruire un mondo più giusto e sostenibile. Alla Bis partecipano tredici fotografi internazionali: Isabella Balena, Patrizia Riviera, Giambalvo&Napolitano, Paula Jesus, Pino Bertelli, Israel Fuguemann, Stefano Sbrulli, Dario De Dominicis, Joseph Gazzano, Johan Berna, Matteo Placucci e Murat Yazar. Tutti sono impegnati attivamente nel campo dei diritti umani e ambientali. Le loro opere raccontano storie potenti e viscerali, offrendo uno sguardo critico sulla nostra realtà.

Per Paula, questa rappresenta l’edizione zero, un impulso verso qualcosa che nei prossimi anni si posizionerà come un osservatorio sui diritti umani. Un luogo dove fotografi già affermati e nuovi talenti possano riconoscersi e sentirsi a casa.
«Creare una rete, un percorso, un itinerario lungo le tracce delle città che ci ospiteranno. La Bis è partita da Brescia, la città dove attualmente vivo. Insieme a Marco Cola, co-fondatore, lavoriamo ogni giorno per rendere la Bis sostenibile e solida».
A Genova, grazie ad Arianna Maestrale, collaboratrice dell’associazione, si è avviato un dialogo con le scuole dei quartieri genovesi dove si terranno laboratori con bambini che vivono in una realtà attarversata dal fenomeno della tossicodipendenza e della prostituzione. «Grazie alla partnership con l’associazione San Marcellino, che ci ha aiutato a conoscere meglio il territorio e le dinamiche interne che lo caratterizzano – racconta la fotografa –  possiamo portare il progetto nelle scuole, in quegli istituti dove l’innamorarsi della bellezza è un diritto negato e mai riconosciuto».

Paola Jesus, come sono stati scelti il team di fotografi e gli ospiti per questa prima edizione della Bis?

Abbiamo aperto una call che non ha avuto l’esito sperato; tuttavia, la rilanceremo verso novembre 2024. Il team di Pachamama ha creato una rete per trovare i reportage più adatti alla nostra prima edizione. Io mi sono occupata principalmente della direzione artistica, insieme alla curatrice e giornalista Simona Isacchini. Paolo Finistrella ha lavorato sulle traduzioni, fondamentali per il carattere itinerante della Biennale. Ad aiutarci nella ricerca dei fotoreporter sono stati colleghi, gallerie, giornalisti, attivisti e cooperanti internazionali. La risposta è stata entusiasmante: molti si sono mobilitati e così abbiamo creato una collettiva composta da diversi autori. In ogni città, la Bis presenterà una serie di mostre fotografiche, talk, workshop e proiezioni cinematografiche. Le attività si svolgono sia nei centri urbani che nelle periferie, coinvolgendo una vasta gamma di spazi museali pubblici e privati, tra cui: MO.CA – Centro per le nuove Culture, Officine Fotografiche, Palazzo Ducale e il Museo Regional di Iquique. Con l’itineranza, la Bis si avvicina a diverse realtà sociali, economiche e culturali, costruendo reti e sinergie per agire localmente con un pensiero globale.

Qual è stato il feedback ricevuto dalle comunità locali delle città che ospitano la Bis, in particolare nelle aree più delicate come le baraccopoli di Iquique?

Le città e le istituzioni coinvolte hanno mostrato fin da subito grande disponibilità, abbracciando il progetto con entusiasmo e sorprendendoci positivamente. In Cile, la nostra consigliera sul campo, Francisca Oñate Oyaneder, ricercatrice universitaria presso la Scuola di architettura e design Pucv di Valparaíso, ha stretto legami con i nostri partner locali a Iquique. Grazie a Ruco, il primo festival d’arte contemporanea della regione, possiamo operare in sinergia con le necessità e le criticità del territorio, attraversando le baraccopoli della città. La situazione a Iquique è estremamente critica: è diventata una città migratoria di confine, con l’arrivo di molti venezuelani. Parallelamente, sono aumentate la prostituzione e la tratta di donne e bambine. Iquique è una terra di confine che vede nuovi traffici di droga e una rapida crescita della tossicodipendenza. Dal punto di vista ambientale, è un disastro: un luogo di estrazione mineraria, inquinamento marino e dell’aria. Inoltre, Iquique è una delle discariche tessili più grandi al mondo, ricevendo container dall’Italia, Bangladesh, Pakistan e Nord America.

La Bis porta l’arte ai margini della povertà.

Il nostro lavoro a Iquique esprime al meglio cos’è e perché è nata Pachamama. Oltre a organizzare mostre fotografiche all’interno del Museo regionale delle Belle Arti, impegneremo i nostri sforzi a lavorare con i bambini e le bambine che vivono nelle discariche tessili. Ci saranno diversi laboratori di microeditoria e fotografia. Porteremo il cinema all’aperto nelle baraccopoli e dialogheremo con le scuole che vivono condizioni di fragilità sociale ed economica.

Quali sono i tuoi sogni o aspirazioni per il futuro della Biennale itinerante del sociale?

Vorrei che la Bis diventasse un vettore di cambiamento individuale e collettivo. Il mio sogno è che questo percorso, che è un itinerario lungo le vie della consapevolezza, non si fermi mai. Gli obiettivi di questa Biennale si possono raggiungere solo se c’è un team solido, dove giovani donne siano riconosciute e valorizzate, e dove possano apprendere l’una dall’altra, in una sorta di nostra Pachamama.

L’autrice: Sara Alawia è un’attivista dei diritti umani

In apertura: Paula Jesus, Pakistan

 

44 morti

Sabato se ne sono uccisi due. Sono quattro in due giorni. Sono nove negli ultimi dieci giorni. Sono 44 dall’inizio dell’anno. I suicidi in carcere devono essere considerati “naturali”, come se fossero gli effetti collaterali previsti nella gestione di una discarica sociale. 

Il giornalismo fatica a raccontarli. Non meritano due righe, indipendentemente dal suicida di turno, che sia un detenuto modello, uno che stava per uscire poche settimane dopo oppure chi aveva già dato tutti i segnali possibili di una tragedia in arrivo. 

Il 15 giugno un documento del Consiglio d’Europa definisce la situazione carceraria italiana “allarmante” ma su quel tema ogni allarme è muto, circondato da un generale disinteresse. Nei casi peggiori siamo nel campo del “se lo meritano” perché le carceri dalle nostre parti sono intese come fase terminale di un percorso di espulsione dalla società, con buona pace dell’auspicata riabilitazione scritta su carta. 

Strasburgo “constata con grande preoccupazione” che le misure adottate finora dalle autorità non sono riuscite ad arrestare il fenomeno. L’Ue invita l’Italia “ad adottare rapidamente ulteriori misure e a garantire adeguate risorse finanziarie aggiuntive per rafforzare la capacità di prevenire queste morti”. Dolersi non vale come soluzione. 

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella lo scorso 18 marzo ha chiesto “interventi urgenti e immediati”. La politica dovrebbe prendersi la responsabilità di chiarire, perfino insegnare, che no, che il carcere non è una vendetta ma la politica del “buttare via le chiavi” non se lo può permettere e non ne sarebbe all’altezza. Rimaniamo quindi così. 

Buon lunedì. 

Violenze sessuali e clima di omertà nell’esercito Usa, specchio di una società misogina

«Sono orgoglioso del fatto che, per la prima volta in quasi un decennio, i tassi di aggressioni e molestie sessuali siano in calo all’interno delle forze armate. Questo è merito della vostra leadership». Così il Presidente degli Stati Uniti d’America Joe Biden si è rivolto lo scorso 15 maggio ai generali dell’esercito statunitense riuniti per l’occasione alla Casa Bianca. A prima vista Biden sembrerebbe avere ragione: secondo uno studio del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti circa 29mila militari – per la quasi totalità donne – nel corso del 2023 hanno denunciato molestie sessuali avvenute all’interno dell’esercito, un dato in leggera flessione rispetto alle 31mila denunce rilevate nel 2022. Anche i casi di violenza sessuale, sono diminuiti: da 8.942 casi nel 2022 si è passati a 8.515 casi nel 2023.

In realtà questi dati, che già di per sé indicano una diminuzione non particolarmente rilevante del fenomeno, vanno interpretati e inseriti in un contesto specifico. Innanzitutto, il dato di 8.515 casi nel 2023 è il peggiore da quando esistono le rilevazioni, se si esclude il conteggio del 2022. Questo significa che, se anche i nuovi dati sono in leggero calo rispetto all’anno precedente, restano molto più alti di quelli rilevati nei dieci anni precedenti (5.518 casi nel 2013), per non parlare del dato di 2.846 riportato per l’anno 2007. In altre parole, senza una visione di lungo periodo, considerare soltanto i dati degli ultimi due o tre anni potrebbe risultare estremamente fuorviante. Inoltre, una diminuzione dei casi rilevati da questo studio potrebbe essere dovuta non a una effettiva diminuzione degli episodi di violenza sessuale nell’esercito degli Stati Uniti, quanto piuttosto a una maggiore difficoltà per le vittime di denunciare tali abusi.

Un recente fatto di cronaca può aiutarci a dare sostanza a questa affermazione. In Florida nello scorso mese di maggio un ufficiale di alto livello della Home Guard, Michael Di Giacomo, è stato accusato di gravi molestie sessuali ai danni di una sua collaboratrice, avvenute durante una trasferta di lavoro al confine fra Texas e Messico. Secondo Tiffany Cruz, l’avvocato difensore della donna, la vittima sarebbe stata licenziata dalla Home Guard dopo aver presentato regolare denuncia ai superiori di quanto accaduto. Michael Di Giacomo, invece, sarebbe stato promosso.

La Florida Home Guard assicura la difesa e gli interventi in situazioni emergenziali in tutto lo Stato della Florida. Nato nel 1941 all’indomani di Pearl Harbor e sciolto nel 1946, cessata l’emergenza bellica, questo corpo è stato riattivato nel 2022 dal governatore della Florida Ron De Santis, repubblicano e – dopo una deludente campagna elettorale per le primarie – oggi tiepido sostenitore di Donald Trump alle prossime elezioni. Alcuni esponenti democratici avevano giudicato questa mossa un tentativo di costituire una vera e propria milizia paramilitare. Forte di 1.500 volontari che ricevono regolare stipendio, la Florida Home Guard è stata impiegata anche in attività di contrasto dell’immigrazione illegale al confine tra Texas e Messico: proprio in questo contesto avrebbero avuto luogo le molestie, che sarebbero durate almeno quattro mesi.

Ad aggravare la situazione è il clima di omertà che circonda questi fatti. Nessun membro della Florida Home Guard coinvolto nella faccenda ha accettato di parlare con i giornalisti giunti sul posto: come da regolamento dell’organizzazione, chi si confronta con un giornalista a proposito di qualunque argomento rischia un procedimento disciplinare immediato. Inoltre, nemmeno l’ufficio del governatore della Florida, Ron De Santis, ha rilasciato dichiarazioni.

Queste molestie e questi scandali che hanno investito la Florida Home Guard non sono che un riflesso di una tendenza presente in tutte le forze armate – a livello nazionale o federale – degli Stati Uniti d’America. Nel dicembre 2023 quattro donne hanno testimoniato davanti al Congresso degli Stati Uniti a proposito delle molestie subite mentre frequentavano l’Accademia preparatoria della Guardia costiera degli Stati Uniti a New London, nel Connecticut. Nel 2019, ancora una volta in Florida, il comandante in seconda della Guardia nazionale Michael Calhoun ha rassegnato le dimissioni poiché accusato di aver insabbiato nei dieci anni precedenti una serie di casi di molestie sessuali all’interno del corpo militare di appartenenza. Poi c’è stato il caso di Vanessa Guillen, militare dell’esercito americano, che nel 2020 è stata uccisa a Fort Hood, nel Texas, da un collega di grado superiore, Aaron Robinson, che dopo averla uccisa ne ha occultato il cadavere per oltre due mesi. L’omicidio, in questo caso, è avvenuto come esito di ripetute molestie che Robinson aveva rivolto a Guillen e che la ragazza, secondo le testimonianze dei familiari per paura di ritorsioni, aveva evitato di denunciare con un rapporto formale ai comandanti della propria unità.

Nel 2020 il caso Guillen scatenò proteste davanti a molte basi militari in tutto il Paese. Decine di manifestanti portavano cartelli su cui si poteva leggere “S.H.A.R.P. non funziona perché nessuno sta a sentire”. Il riferimento era al Sexual harassment assault response prevention (S.H.A.R.P.), il programma governativo che dovrebbe occuparsi di prevenire le molestie sessuali all’interno dell’esercito ma che troppo spesso si scontra con l’omertà presente tra le gerarchie militari. A seguito di queste proteste e della lunga battaglia legale portata avanti dalla famiglia Guillen, Joe Biden nel 2022 ha finalmente fatto inserire nel Codice di Giustizia militare il reato specifico di molestia e violenza sessuale, che fino ad allora non era nemmeno contemplato come tale. Peraltro, con questo provvedimento lo stesso Joe Biden ha dimostrato nei fatti di diffidare delle gerarchie dell’esercito, tentando di trasferire i principali processi decisionali al di fuori della catena di comando militare in caso di reati particolarmente gravi.

Dunque, il problema più grande all’interno dell’esercito statunitense sembra in realtà essere la difficoltà di denunciare i molestatori, che in molti casi, come abbiamo visto, sono stati protetti e in alcuni casi perfino promossi dalle alte sfere delle organizzazioni di cui fanno parte. Solo con la scarsa propensione a denunciare le violenze da parte delle vittime, del resto, possiamo spiegare la differenza fra i dati delle molestie all’interno dell’esercito e i dati ben diversi raccolti da organizzazioni terze all’interno di diversi settori della società statunitense: secondo il National sexual violence resource center (Nsvrc), organizzazione no-profit statunitense che si occupa del tema, una donna su cinque negli Stati Uniti (il 24.8%) avrebbe subito uno stupro o un tentativo di violenza sessuale, mentre l’81% delle donne afferma di aver subito una qualche forma di molestia fisica o psicologica. Stando a questi dati, quanto accade nei corridoi delle caserme negli Usa non sembra un fatto isolato, ma potrebbe essere descritto come la manifestazione di un problema di violenza di genere organico all’intera società statunitense, a partire dalle sue forze armate.

L’autore: Davide Longo è cultore della materia

Nella foto: Jackie Speier e altri membri del Congresso chiedono giustizia per Vanessa Guillen, luglio 2020

I vestiti nuovi dei sette imperatori

Il 7 grandi del mondo, si fanno chiamare così, si sono ritrovati in Puglia. In rete circola l’inquietante video di un enorme elicottero che atterra nei pressi di un incrocio a Sevelletri, marina di Fasano. Si appoggia su uno degli eliporti dichiarati “pronti” nella smania di grandezza. È un piazzale di terra polverosa sollevata dalle pale c he si appiccica sui muri delle abitazioni lì di fianco sotto lo sguardo incredulo dei passanti.

Giorgia Meloni è arrivata con una 500 d’epoca decappottabile. Ha preparato uno sketch comico per ogni accoglienza di leader straniero. I giornali hanno dedicato un pezzo a ognuna. La scena della presidente del Consiglio che si fa un selfie con i fotografi e i cameraman in attesa del presidente Usa Joe Biden («vi taggo tutti?») è stata ritenuta primaria e quindi campeggia nelle pagine internet e cartacee. 

Viene facile pensare che i 7 grandi affrontino grandi temi, a giustificazione della magnificenza apparecchiata. Qualche ora s’è persa per sgridare Giorgia Meloni, quando le telecamere erano lontane, che ha voluto condire il summit dei grandi mentre infuria la terza guerra mondiale a pezzi con una spolverata antiabortista degna al massimo di una colazione con Orbàn. Meloni si è potuta esercitare quindi nella sua migliore virtù di governante, opporsi a qualcuno, in questo caso Macron, tanto per ridimensionare da subito il livello del dibattito. 

Nelle stesse ore l’Unicef scriveva che nelle prossime settimane altri tremila bambini moriranno di fame nel sud di Gaza. Per quello non si è trovato spazio in pagina. 

Buon venerdì. 

Quando i comunisti di Latina fecero i conti con la Storia

In quei territori del Pontino che dal 1934 avevano subito il regime fascista come si mosse la sinistra? Dove affondò le sue radici? Quali difficoltà, quali speranze e quali delusioni incontrarono dopo la guerra i militanti del Partito comunista? Questa pagina di storia viene raccontata da Dario Petti che sulla scia del libro Il Partito comunista italiano nella provincia di Latina 1921 – 1956 uscito nel 2007, prosegue la sua ricostruzione del percorso del Pci nel Pontino. Un territorio, ricordiamo, dove con l’Opera nazionale combattenti vennero costruite città nuove e 3mila poderi. Qui  vissero famiglie di contadini di diverse regioni arrivati principalmente dal Nord Italia nella speranza di trovare una vita migliore, comunità che nel dopoguerra erano «spesso nostalgiche del ventennio mussoliniano che le aveva rese protagoniste di un’epopea» esaltata dalla propaganda fascista. Ma anche la burocrazia cittadina era rimasta ancorata al passato. Questo il clima storico e sociale indagato dal nuovo saggio di Dario Petti che viene presentato il 15 giugno a Cori (al teatro Luigi Pistilli, ore 18) alla presenza del sindaco Mauro De Lillis, il delegato alla cultura Michele Todini e il saggista Pietro Vitelli.

Un monumento alto fino al cielo. La Federazione del Pci di Latina, dall’”indimenticabile 1956” al IX congresso nazionale del 1960, Atlantide Editore, (con la prefazione di Gianluca Fiocco) indaga la storia della Federazione comunista di Latina e come su questa si rifletterono i fatti del 1956, l’invasione dell’Ungheria, le denunce di Krusciov contro Stalin, l’VIII congresso del Pci e poi le vicende degli anni immediatamente successivi fino al IX congresso del 1960. L’intento è quello di capire come questi fatti incisero sull‘organizzazione provinciale ovvero, come spiega l’autore, se «vi furono abbandoni, cedimenti elettorali, resistenze verso la linea della “via italiana al socialismo”» e come queste vennero superate in una Federazione che Pietro Ingrao, membro del Comitato federale dal ’53 al ’60, definiva affetta «da diffuso settarismo».

Quale fosse lo stato d’animo diffuso tra i militanti, lo spiega già il titolo del libro di Petti che si riferisce ad un episodio preciso. Un contadino dei monti Lepini, segretario della sezione del Pci di Prossedi, non potendo partecipare alla riunione convocata dai quadri dirigenti delle Federazione pontina nel marzo del 1956, inviò una lettera al Comitato federale in cui, esprimendo la sua contrarietà alle critiche rivolte a Stalin, scrive che semmai bisognerebbe fare «un monumento alto fino cielo» per le cose realizzate come guida dell’Unione Sovietica esprimendo un sentimento che era molto diffuso e condiviso tra i militanti comunisti.

Dalla Latina degli anni 50 con la Federazione che sostituisce nel dicembre ’55 il segretario Severino Spaccatrosi dopo aver guidato il Partito pontino per dieci anni, ci si avvia in quel periodo che seguì la “bomba” di Krusciov, la destalinizzazione. Nel microcosmo pontino la base del partito, costituita principalmente da contadini, si sostituisce con quella dell’operaio di fabbrica, «senza il retroterra culturale del primo, senza tradizioni di lotta, né profondi legami con i territori. Si trattava – spiega Dario Petti – spesso di giovani immigrati dal meridione d’Italia».

Attraverso una scia di fatti si analizzano le vicende del ’57, del ’58 fino all’IX congresso del Pci. Il libro di Petti è una ricerca attenta di storia locale, svolta principalmente tra l’Archivio di Stato di Latina e la Fondazione Gramsci che evidenzia come «la linea della via italiana al socialismo, potrà passare con gradualità grazie al ricambio del gruppo dirigente» attraversando quella fase di rinnovamento in cui il socialismo fu liberato dai suoi caratteri autoritari per interpretare le esigenze della nuova classe operaia. La ricerca cioè, di una vita migliore, di uno stare bene, sinonimo imprescindibile per chi sceglieva la via della sinistra dopo l’incubo del ventennio fascista.

L’autrice: Licia Pastore è giornalista e autrice del libro “Fernando Bassoli: primo sindaco di Latina”, Atlantide editore

 

Il revisionismo sui banchi di scuola. La prof di Reggio Emilia che nega la Resistenza

L’episodio grave è accaduto gli ultimi giorni di scuola e si riassume in alcuni fogli distribuiti da un’insegnante agli studenti del Liceo Scientifico Aldo Moro di Reggio Emilia, città medaglia d’oro per la Resistenza. In essi si farneticava che la Resistenza stessa non era storicamente comprovata, tantomeno quella portata avanti dalle donne. La legittima reazione, dopo lo sconcerto dei colleghi di Storia, è stata la presa di posizione di indignata condanna in un documento pubblicato, a cui sono seguite le dichiarazioni nella stessa direzione da parte degli studenti, di un gruppo di docenti dell’altro liceo reggiano, l’Ariosto-Spallanzani, e delle istituzioni scolastiche.

In sé la vicenda, così come pure i maldestri tentativi di giustificarla, potrebbero definirsi un’incresciosa quanto grossolana idiozia, ma ad uno sguardo più complessivo, in realtà si offre lo spunto per avviare una riflessione che vada oltre la singola situazione.
In effetti si percepisce da tempo il tentativo non solo di riscrivere una certa Storia, scomoda, perché assunta come emblema della democrazia, nata dalla Costituzione e oggi cinta d’assedio, ma anche di mettere a punto un’altra strategia, forse anche più pericolosa. Si tratta di costruire un’egemonia che dal paradigma vittimario, tipico dei postfascisti, sposti l’assetto su una narrazione che rifondi, su identità forti, su logiche securitarie e binarie, escludenti e su una memoria ”contro effettuale”, i propri criteri di definitiva legittimazione.

In un’epoca in cui il proliferare di informazioni, scade nella indistinzione delle fonti, il declino della realtà oggettiva, disposta alla validazione razionale, si accompagna ad una profilazione delle soggettività nel cortocircuito della comunicazione dell’odio.
La scuola, allora, spazio collettivo in grado di garantire l’universalità della formazione e al contempo di fungere da meccanismo di stabilizzazione endogena, diventa pertanto un possibile terreno di conquista. Già svuotata in parte da quegli assetti aziendali che ne hanno disposto le funzioni in un’ottica di disciplinamento al mercato, oggi resta comunque l’unico luogo dell’incontro intergenerazionale, in una società che vede sfaldarsi ogni altro agire comune.

L’insegnamento della Storia, in particolare, già penalizzato da un ridottissimo quadro orario, è sicuramente un nevralgico fattore, su cui occorrerebbe tornare ad aprire un dibattito. Se di per sé il sapere stesso oggi attraversa una crisi epistemica, a maggior ragione una disciplina che immediatamente apre lo sguardo sul presente, attraverso l’analisi critica delle vicende umane, anzi meglio da quel presente getta una luce sul senso del passato, come può resistere da un punto di vista scientifico, senza soccombere alle istanze che ricoprono di una patina superficiale ogni tentativo di orientamento?

Se perfino un importante scrittore italiano sostiene alla presentazione del libro Come siamo diventati stupidi di Armando Massarenti, che un sintomo evidente di stupidità collettiva è manifestare per la Palestina, non sarà che si è rotto quel fragile, ma imprescindibile meccanismo di equilibrio civile, per il quale il dissenso, il palesarsi di un irriducibile alterità conflittuale, agiti dalla cultura storica, erano i germogli di ogni istanza di liberazione e come tali adesso risultano fastidiosi al clima di omologazione narcotizzante?

C’è senza dubbio bisogno di conoscenza, di approfondimento. È urgente la prassi analitica dei documenti, la divulgazione che rifugga dal sensazionalismo, la professionalità consapevole di chi insegna. È necessario un approccio alla conoscenza della Storia come dinamica laboratoriale che nutra la didattica, così da far maturare nei ragazzi quella visione d’insieme, quei corretti linguaggi interpretativi, propedeutici ad un consapevole esame dei processi di lunga durata. Occorre una scuola del dialogo che nel confronto ragionato, nella lezione autorevole, ponga l’esito del dubbio e il conforto della scoperta. Bisogna ridare vigore all’insegnamento della Storia, che oggi deve salvare gli studenti non solo dalla propaganda delle verità digitali, non solo dall’oblio, che pure come direbbe “l’inattuale” Nietzsche, è sano esercizio, se seleziona ciò che conta e respinge il superfluo, ma soprattutto dal tentativo di farne uno strumento in grado di annullare ogni vissuto in un’opalescenza indistinta, in cui ogni cosa e il suo opposto siano sterile contrapposizione e non fertile aporia.

È ora di ripartire da un discorso sull’uso pubblico, ma legittimo della Storia, così da assegnare definitivamente ai ricercatori il valore delle loro dissertazioni, distinguendo disamina critica da opinione, studio misurato della complessità dei fenomeni, da divulgazione d’accatto o peggio da adesione a facile consenso strumentale. Bisogna sottrarre la Storia dalla minaccia dell’urgenza, dal ricatto della contingenza, per ricalibrarne il portato civile nella costruzione della coscienza libera, nella maturazione dell’intelligenza politica.
È necessario ripartire dall’apprendimento democratico della Storia, per riprendere il conflitto democratico.

L’autore: Marco Cosentina è docente di scuoa superiore a Reggio Emilia

Nella foto: Partigiani italiani sfilano per le strade di Milano appena liberata nel 1945

Squadrismo parlamentare

Dunque ricapitolando ieri alla Camera dei deputati è accaduto che il presidente della Camera, il leghista Lorenzo Fontana, abbia espulso un suo compagno di partito, il deputato Domenico Furgiuele, che ha evocato la Decima Mas. “A X Factor facevano la X per dire no, posso fare quello che voglio?”, ha detto Furgiuele parlando con i giornalisti, a proposito di spessore politico. “Alla provocazione si è risposto con un gesto che non poteva non essere provocatorio, in un contesto nel quale la voce di chi cantava era più alta”, ha spiegato. La “provocazione” di cui parla il leghista erano le opposizioni che cantavano “Bella ciao”. Per dire. 

Poi è accaduto che il deputato di Fratelli d’Italia Marco Padovani sia intervenuto in Aula a ricordare la figura di Stefano Bertacco, “figura storica e significativa della destra veronese”, concludendo con la fascista formula “Stefano Bertacco presente!”. Seduta sospesa.

Poi è accaduto che un parlamentare dell’opposizione, Leonardo Donno del Movimento 5 stelle, sia stato assalito con pugni e calci da deputati della maggioranza. Il dem Andrea Orlando scrive che Donno è stato “aggredito e preso a pugni, e mentre è a terra colpito da calci dai deputati della Lega e di Fratelli d’Italia”. “Tutto è nato da un gesto provocatorio e oltraggioso di Donno”, spiega Federico Mollicone (Fratelli d’Italia). La provocazione? Dare al ministro Calderoli una bandiera dell’Italia che il ministro ha sdegnosamente rifiutato. “Squadrismo parlamentare”, dicono da Alleanza verdi sinistra. Sono 100 anni dall’omicidio fascista di Giacomo Matteotti. 

Buon giovedì. 

 

Giornalismo che si oppone all’opposizione

Marco Furfaro, Pd

Un conduttore televisivo sempre dolce con il potere che zittisce un parlamentare durante una trasmissione sulla rete pubblica nazionale è la scena che ci mancava per tastare il polso dell’aria che tira. I partiti di governo che come si oppongono all’opposizione sono il sintomo di una debolezza politica molto più pericolosa di quello che si può pensare. 

I fatti. Durante la trasmissione A porta a porta il conduttore Bruno Vespa litiga con il deputato del Pd Marco Furfaro che in replica al generale Vannacci dice l’ovvio: “io penso che sia tutto lecito e legittimo in politica, – ha detto il dem – uno è di destra e l’altro è di sinistra. Però io credo che sia inaccettabile che nel servizio pubblico noi ascoltiamo un parlamentare europeo che dice che la Decima Mas ha avuto una stagione gloriosa”.

Vespa si inalbera. “Intanto io non le consento che nel servizio pubblico non si possa ospitare un signore che ha preso 530.000 preferenze. Abbia pazienza. Punto primo. Poi punto secondo, la Decima Mas come ha detto Vannacci ha avuto due momenti. Io dico questo perché lei ha detto che non è possibile far parlare uno così nel servizio pubblico, eh no”, dice il conduttore. Il ragionamento è fragile. Quindi perché non ospitare Putin legittimamente eletto in Russia per fargli dire che l’Ucraina va rasa ala suolo per essere denazificata? Rimanendo qui in Italia siamo pieni di politici con un bagaglio enorme di preferenze e una fedina penale vergognosa. Meritano il palcoscenico Rai?

Ha ragione Furfaro quando dice che “è inaccettabile” che un europarlamentare dica in tv “che Mussolini era uno statista”. Forse Furfaro ha sbagliato solo una cosa: la trasmissione di Vespa non è “sua”, è nostra. 

Buon mercoledì.