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A proposito della casa (e non di Salis)

Lasciando perdere il baccano e la paternalistica banalizzazione che certi sedicenti liberali hanno ordito sulla questione del diritto alla casa per aiutare la destra (ma va?) contro Ilaria Salis si potrebbe invece leggere il rapporto speciale sull’alloggio in Europa, dal Global Policy Lab di Politico. 

In un sondaggio in vista dell’impennata di estrema destra della scorsa settimana nelle elezioni del Parlamento europeo, i sindaci del continente hanno elencato l’alloggio come una delle questioni più importanti che i loro collegi elettorali devono affrontare. «Abbiamo raggiunto il punto di rottura di una situazione che è stata in lento rosolamento per anni», ha detto Sorcha Edwards, il segretario generale di Housing Europe, che rappresenta i fornitori di alloggi pubblici, cooperativi e sociali. «Per molto tempo, i politici sono stati felici di ignorare la questione perché ha colpito i gruppi a basso reddito che votano di meno, ma ora tocca la classe media stessa». 

Gli europei spendono in media quasi il 20 per cento del loro reddito familiare disponibile per l’alloggio, e c’è la percezione che la disponibilità stia diventando più scarsa. Edwards ha detto che i Paesi europei avevano investito in alloggi a prezzi accessibili nel dopoguerra, ma hanno abbandonato la questione negli anni Ottanta. Quando le amministrazioni neoliberiste del piccolo governo sono salite al potere hanno ampiamente tagliato la spesa. I consigli municipali a corto di denaro che avevano precedentemente costruito alloggi hanno rinunciato alle nuove costruzioni e hanno addirittura ceduto parte del patrimonio.

«Abbiamo avvertito di questo problema per almeno 10 anni, ma i politici sono stati felici di ignorarlo fino a poco tempo fa, quando è tornato all’ordine del giorno»”, ha detto Edwards. «Anni di inazione sono stati ora peggiorati da una crescita inflazionistica e da [un] aumento dei prezzi dei mutui che ha portato la stagnazione delle costruzioni del settore privato». 

Buon lunedì. 

Giovanni Mininni (Flai Cgil): Tutti in piazza nel nome di Satnam Singh

«È stata una leggerezza», ha detto il padre del datore di lavoro di Satnam Singh, il giovane lavoratore indiano morto dopo essere stato abbandonato sulla porta di casa con un arto tranciato dopo un incidente con un macchinario nei campi dell’Agro pontino. Se fosse stato soccorso in tempo, Satnam forse si sarebbe potuto salvare.

Crudele sfruttamento, omissione di soccorso e poi parole inaccettabili che lasciano intravedere il gelo di una totale assenza di interesse verso Satnam come essere umano. Quel giovane venuto dall’India per lavorare nell’Agro pontino e ridotto a un fantasma da quello stesso datore di lavoro che non gli ha rinnovato il contratto e lo costringeva a lavorare a nero, senza documenti. Il profitto personale per quel padrone conta molto, nulla vale ai suoi occhi la vita di chi è sfruttato.

Siamo davanti a un sistema di produzione schiavistico, disumano come ha detto il presidente della Repubblica Mattarella, indegno di un Paese democratico e civile. Per questo il 22 giugno il sindacato Flai Cgil ha invitato tutta la popolazione civile a partecipare alla manifestazione a Latina (Ci sarà un’altra manifestazione il 6 luglio, sempre a Latina, indetta dalla Cgil).

Rompere il muro di silenzio, spezzare l’omertà, non dimenticare Satnam, far camminare la battaglia per i diritti dei tanti lavoratori come lui sulle nostre gambe. È un gesto importante. Il silenzio è complice dei caporali e dei datori di lavoro che li ingaggiano. Già c’è chi ha cercato di metterci una coltre bevendo e mangiando alla festa patronale come se nulla fosse. Un oltraggio nell’oltraggio. Dunque è tanto più importante esserci a Latina e farsi sentire.

Dopo l’incontro con i ministri Lollobrigida e Calderone, che il segretario generale della Flai Cgil Giovanni Mininni non esita a definire «deludente» e «vuoto di contenuti», ora è il momento per rilanciare la battaglia contro lo sfruttamento, per l’abolizione della legge Bossi Fini e per la piena applicazione della legge 199 contro il caporalato, non solo nella parte repressiva ma, sottolinea il segretario generale Flai Cgil, anche e soprattutto nella sua parte più innovativa che riguarda la prevenzione. Ed è importante da questo punto di vista fare massa critica, prendere posizione e iniziativa politica anche come cittadini.

«L’iniziativa è cresciuta immediatamente- commenta Mininni – c’è un’altra Italia, molto diversa da chi ha dato l’ennesima dimostrazione di insensibilità verso l’inaccettabile e crudele morte di Satnam e di tanti come lui». Molte sono state le adesioni da parte di delegazioni da varie parti d’Italia. «Soprattutto c’è stata una forte risposta nelle comunità sikh anche di altre Regioni d’Italia – sottolinea il segretario – con pullman da Cremona, da Mantova e dal casertano».

Alla manifestazione  ha partecipa la segretaria Pd Elly Schlein con deputati e deputati come Laura Boldrini e Susanna Camusso, Fratoianni di sinistra italiana e molti altri ma è stata anche e soprattutto una manifestazione di popolo. «È una manifestazione cresciuta dal basso. Ci hanno inviato messaggi tante persone anche non iscritte al sindacato chiedendoci come aderire. Nello stesso giorno – aggiunge Mininni – abbiamo proclamato una giornata di sciopero in tutte le imprese agricole di Latina perché riteniamo che questo sia un problema che riguarda in modo specifico i lavoratori agricoli. I migranti sono la parte più vulnerabile della classe dei lavoratori agricoli che, ma ci teniamo anche a dire, non sono braccianti». Il bracciante, spiega il sindacalista, «non ha una specifica professionalità, ha la forza delle braccia. Molto spesso invece queste persone che lavorano in agricoltura svolgono un lavoro molto professionale, hanno sviluppato la capacità di lavorare sulle macchine, oppure svolgono lavori in fasi del processo agricolo che sono da operaio professionalizzato. Capisco la necessità giornalistica e politica di semplificare il linguaggio, ma lo rimarco proprio per non mortificare ulteriormente questi esseri umani, queste persone che lavorano».

Con la manifestazione del 22 giugno la Flai Cgil ha lanciato anche ufficialmente la raccolta fondi per la moglie di Satnam, Sony, che è ancora sotto choc. «Ha poco più di vent’anni ed è stata ferita profondamente dalla perdita del marito e dal modo crudele in cui è avvenuta.  Era con lui in azienda dove anche lei lavorava. Ogni mattina un caporale li prendeva per portarli al lavoro», racconta ancora Mininni. E aggiunge: «In Italia è completamente sola. L’abbiamo presa in carico come Flai Cgil, la proteggeremo anche in una nostra casa, però questa ragazza è fortemente spaventata, disorientata, ancora non parla bene l’italiano. Per fortuna la nostra segretaria di Latina, Laura Hardeep Kaur, è sikh di seconda generazione parla la sua lingua e nei primi giorni l’ha ospitata. Questa raccolta di fondi è esclusivamente per Sony se vorrà tornare in India o rimanere in Italia, le servirà per pagare un affitto, per provvedere a se stessa, abbiamo chiesto che le venga dato un permesso di soggiorno per farla uscire da questa condizione di fantasma per lo Stato italiano. Devo dire che già tante nostre strutture stanno contribuendo, c’è stata una grande solidarietà diffusa». Ma non basta la solidarietà. «In concomitanza abbiamo proclamato uno sciopero come Flai Cgil, perché siamo un sindacato e la prima risposta da dare è quella attraverso il nostro strumento principe. Oltre a ciò- conclude Mininni – vogliamo fare manifestazioni perché di Satnam Singh parli tutta l’Italia. Non bisogna dimenticare la settimana prossima che in Italia succedono fatti così inaccettabili, bisogna cercare di risolvere il problema alla radice».

La vera storia di Satnam Singh e della sua uccisione

La scena che lunedì 17 giugno si è presentata ai medici del servizio di emergenza 118 è apocalittica. Di fronte a loro c’è un uomo senza più il braccio destro. Ha perso talmente tanto sangue che i racconti sono concordi nel dire che quasi non ne usciva più.
Però è ancora vivo. E allora viene trasportato d’urgenza in elisoccorso all’ospedale San Camillo di Roma. Rimarrà 36 ore. Poi, però, smette di respirare. Per sempre.

Quell’uomo, che troppa stampa ha definito “un indiano”, aveva un nome e un cognome: Satnam Singh. Prima che indiano era un lavoratore. Un bracciante, per essere precisi. Era arrivato in Italia tre anni fa e da circa due anni lavorava nell’azienda agricola Lovato a Borgo Santa Maria. In provincia di Latina, la città fondata dal Duce a 70km da Roma e inaugurata il 18 dicembre 1932.

Lavorava tanto Satnam. Anche 12 ore al giorno. Per una paga di 4€ l’ora. Naturalmente in nero, senza alcun contratto. Perché per i lavoratori migranti, che rischiano continuamente l’espulsione dall’Italia, a causa delle leggi volute tanto dal centrosinistra quanto dalle destre, è sempre bere o affogare.

Quel lunedì una macchina avvolgi plastica gli ha tranciato il braccio destro e ha causato la frattura delle gambe. Il signor Lovato, il “padrone” – qui così si fanno chiamare gli “imprenditori”, anziché soccorrerlo l’ha caricato su un furgone e l’ha scaricato davanti alla sua casa. Mentre la moglie, Sony, anche lei lavoratrice nella stessa azienda, lo implorava di aiutarli. E invece niente. Anzi: accanto al corpo, il padrone ha lasciato in una cassetta di plastica, di quelle utilizzate per raccogliere la frutta, l’arto reciso di Satnam. Non prima di aver sequestrato i telefoni cellulari dei due, per impedire che potessero denunciare l’accaduto e far capire così le condizioni di irregolarità in cui erano tenuti da quello schiavista.

Ma la storia non finisce qui. Perché arrivano i media. I giornalisti, le telecamere. Il sig. Lovato, il titolare dell’azienda, viene addirittura intervistato dal Tg1, il telegiornale del principale canale RAI. Non versa lacrime. Non sembra distrutto dal dolore, lui. Anzi, afferma con un tono quasi distaccato che in fondo il bracciante se l’è cercata, perché lui gliel’aveva detto di non lavorare a quel macchinario. “Una leggerezza del bracciante, costata cara a tutti” – così afferma. Una “leggerezza”, così definisce l’ennesimo omicidio sul lavoro. Il centesimo dall’inizio del 2024 che ha per vittima un lavoratore straniero.

Sono dichiarazioni che indignano. Al signor Lovato è evidente che manchi il senso del pudore. Com’è possibile questa assoluta mancanza di empatia per un giovane uomo ucciso nella propria azienda? Alla base c’è la de-umanizzazione del lavoratore. Se sei un lavoratore straniero sei un oggetto, sia agli occhi di chi ti ritiene un pericoloso invasore – la retorica dell’ultradestra, che a quelli di chi ti considera una povera vittima bisognosa di aiuto – la retorica del centrosinistra. Mai esisti per quello che sei, un soggetto della tua storia e parte di quella collettiva. Morto Satnam, l’imprenditore troverà un sostituto per quella merce particolare che è il lavoratore. E avanti, perché la produzione non si può fermare.

Ma al sig. Lovato manca anche altro. Manca la paura. Istintivamente “sa” che a quelli come lui, alla sua classe di appartenenza, le cose vanno sempre lisce. Oggi è indagato per “omicidio colposo”, reato per il quale rischia un massimo di 7 anni di reclusione. Per “omissione di soccorso” fino a 1 anno. Nell’ordinamento non esiste il reato di “omicidio sul lavoro”, per il quale si battono da tempo forze come Unione Sindacale di Base (USB) e Potere al Popolo!. Significativo che per il governo Meloni, che ogni giorno inventa un nuovo reato, l’unico reato da non introdurre è uno che potrebbe tutelare lavoratori e lavoratrici.

A qualche ora dalla notizia di questo ennesimo omicidio, Giorgia Meloni ha dichiarato che “sono atti disumani che non appartengono al popolo italiano”. Peccato che la realtà ci dica altro. Ad esempio, il “VI Rapporto agromafie e caporalato” stima che nel solo settore primario ci siano almeno 230mila lavoratori irregolari, pari a un quarto del totale della forza lavoro del settore. Come se non bastasse, le 55mila donne occupate soffrono non solo lo sfruttamento lavorativo e fiscale, ma anche – spesso – quello sessuale.

Insomma, le condizioni di sfruttamento e insicurezza che soffriva Satnam Singh sono la norma, non l’eccezione. Se ci concentriamo sull’agro pontino, la regione agricola intorno a Latina, le inchieste degli ultimi hanno fatto emergere aspetti raccapriccianti. Molti braccianti dell’enorme comunità sikh che lì si è insediata (le stime variano dai 12mila ai 30mila membri) fanno regolare uso di oppioidi. In particolare di ossicodone, un farmaco oncologico, al centro della serie Netflix “Painkiller”, prescritto e venduto da medici e farmacisti conniventi col sistema criminale messo in piedi dai padroni pontini.

Come ha dichiarato K. Singh, un bracciante indiano: “Noi sfruttati non possiamo dire a padrone ora basta, perché lui manda via. Allora alcuni indiani pagano per piccola sostanza per non sentire dolore a braccia, a gambe e schiena. Padrone dice lavora ancora, lavora, lavora, forza, forza, e dopo 14 ore di lavoro nei campi come possibile lavorare ancora? In campagna per raccolta zucchine indiani lavorano piegati tutto il giorno in ginocchio. No possibile e sostanza aiuta loro per vivere e lavorare meglio” (Doparsi per lavorare come schiavi, InMigrazione, 2014).

Non sono droghe usate per “sballarsi”, ma per reggere a ritmi e intensità di lavoro altrimenti insopportabili. È un capitalismo che si è spinto talmente oltre nel tasso di sfruttamento che impedisce la “normale” riproduzione della forza-lavoro, costretta a doparsi per poter andare avanti.
Se vi state chiedendo in mano a chi sia il traffico di queste “sostanze”, la risposta è nelle parole di un altro bracciante: “Italiano vende a indiano oppure sai che fanno, italiano dà a indiano che vende e poi dà soldi a italiano padrone” (Doparsi per lavorare come schiavi, InMigrazione, 2014).
Un po’ troppo per la retorica di “italiani brava gente” promossa dal Governo Meloni.

E alla faccia, anche, del concetto di “ruralità” che il Comune di Latina, amministrato da Fratelli d’Italia, il partito di Meloni, ha messo al centro della propria candidatura a capitale della cultura del 2026! La “ruralità” reale è questa roba qui, feroce sfruttamento per tanti, profitti per pochi.

È su questo che si gioca una partita politica importante. La strategia comunicativa dell’ultradestra mira infatti a considerare i signori Lovato delle mele marce. Come ha affermato il ministro dell’Agricoltura, nonché cognato di Meloni, Francesco Lollobrigida: “Il decesso di un operaio per colpa di un criminale non deve portare a criminalizzare tutte le imprese agricole. Queste morti non dipendono da imprenditori agricoli. Dipendono da criminali”.

Cominciano a essere un po’ troppi questi “criminali”, tanto che criminale pare il sistema in sé, se è vero che i “Medici con l’Africa CUAMM” nel 2019 denunciavano che nei precedenti sei anni i braccianti morti di lavoro in Italia fossero stati più di 1.500
A loro andrebbero aggiunti i braccianti uccisi dai caporali o in sparatorie, come il sindacalista maliano Soumaila Sacko, assassinato il 2 giugno 2018 con quattro proiettili alla testa da un italianissimo Antonio Postoriero in provincia di Reggio Calabria
E non si tratta solo di lavoratori stranieri. Nel 2015 suscitò indignazione la morte di Paola Clemente, bracciante in Puglia, sottoposta a condizioni di sfruttamento simili a quelle patite dal proletariato agricolo migrante. Ogni notte si svegliava alle 3, saliva su un pullman e percorreva i 150km che la separavano dal campo in cui provvedeva all’acinellatura dell’uva. Paola è stata uccisa dalla fatica. Dai ritmi impossibili. Eppure i tribunali, per ora, non hanno fatto giustizia. L’imprenditore che l’ha sfruttata è stato infatti assolto in primo grado (https://ilmanifesto.it/paola-clemente-morta-di-sfruttamento-in-un-campo-e-senza-giustizia).

La preoccupazione di Meloni & Co. sembra più quella di scagionare la classe imprenditoriale che trasformare le condizioni di lavoro e di vita di centinaia di migliaia di lavoratori agricoli. Solerti quando a protestare sono le associazioni delle imprese agricole, come Coldiretti, o i “trattori”, diventano sordi quando le rivendicazioni arrivano dal lato operaio.

Venerdì 21 giugno i media hanno dato la notizia che probabilmente la moglie di Satnam Singh (di cui quasi mai viene riportato il nome, Alisha, così da disumanizzare anche lei), oggi irregolare, otterrà un permesso di soggiorno per motivi di giustizia.
Così come potrebbe ottenerlo un collega di Satnam che si è detto intenzionato a testimoniare e a raccontare la verità dei fatti. Il tutto, però, a suo rischio: “Ho deciso comunque di assumermi il rischio di essere cacciato dall’Italia con un foglio di via. Lo devo a Satnam e a sua moglie”.

Il problema è che la legge italiana oggi non prevede la convertibilità dei permessi di soggiorno per motivi di giustizia in permessi di soggiorno per lavoro. Se non per casi eccezionali. Significa che alla fine del processo Alisha e il collega di Satnam rischiano l’espulsione dall’Italia.

Se la politica avesse a cuore la vita di questi uomini e di queste donne dovrebbe dunque procedere a una profonda revisione delle norme che regolano l’accesso e la permanenza in Italia.
Dovrebbe, ad esempio, approvare la convertibilità del permesso di soggiorno per motivi di giustizia in permesso per lavoro e consentire l’arrivo in Italia per “ricerca lavoro”.
Oltre che eliminare le leggi sull’immigrazione, a partire dalla Bossi-Fini. La legge del 2002, voluta dalla Lega e da Alleanza Nazionale, il partito post-fascista in cui militava anche Giorgia Meloni, lega il permesso di soggiorno al contratto di lavoro. Se viene meno il contratto lavorativo viene meno il diritto a rimanere in Italia. Non sfuggirà l’enorme potere di ricatto in capo agli imprenditori.

Dovrebbe spingere per la regolarizzazione delle centinaia di migliaia di lavoratori e lavoratrici che vivono già nel nostro Paese. Solo che ci vivono da fantasmi. Persone che subiscono uno sfruttamento spesso brutale, che contribuiscono a produrre la ricchezza del nostro Paese e che però lo Stato si ostina a fare finta che non esistano. Serve, cioè, una sanatoria che permetta a centinaia di migliaia di persone di poter finalmente uscire dall’ombra (esistono già alcune norme – art. 22 del Testo Unico sull’Immigrazione – che permetterebbero la regolarizzazione delle vittime di sfruttamento, ma spesso sono colpevolmente ignorate dagli stessi ispettori del lavoro).

Non è una misura che serve solo ai lavoratori e alle lavoratrici straniere. Esistere alla luce del sole significa poter godere di diritti oggi inesigibili, ridurre il grado di ricattabilità, poter dunque strappare migliori condizioni e migliori salari, riducendo la leva della concorrenza al ribasso e della guerra tra poveri che viviamo ogni giorno tra le file della classe lavoratrice.
Più diritti per un segmento della classe lavoratrice significa più forza per l’intera classe.

Non solo. Perché bisogna avere la capacità di risalire lungo la catena dello sfruttamento e arrivare fino alla Grande distribuzione organizzata, che impone prezzi bassissimi e fa finta di non vedere e non sapere che quelle condizioni possono essere ottenute solo perché tutto il loro peso ricade sulle spalle di lavoratori e braccianti, spremuti come limoni affinché ogni anello della catena – leggi azienda intermedia – ottenga la sua parte di bottino.

Dal governo che ha per motto “non disturbare chi produce”, però, non ci si può attendere nulla di tutto ciò. L’ultra destra si dimostra, ancora una volta, per quello che è stata storicamente: il cane da guardia della borghesia.

Per strappare queste conquiste, allora, serve che ci organizziamo. In sindacati e organizzazioni politiche. Che si manifesti nelle strade delle città. Che si scioperi nelle nostre campagne e su tutti i posti di lavoro.

Serve che la paura passi di campo. Da noi a loro. E che i tanti signori Lovato che esistono in questo Paese comincino a provarne un po’ loro. È l’unica lingua che conoscono. Quella dei rapporti di forza.

L’autore: Giuliano Granato è portavoce di Potere al popolo, questo articolo è stato pubblicato in collaborazione con Canal red diretto da Pablo Iglesias

Un’onda di fantasia bagna Passoscuro

via Carbonia, Passoscuro, foto di Felice Del Brocco

Il fenomeno artistico comunemente descritto come Street Art nasce storicamente come elemento di protesta e di ribellione nelle grandi aree metropolitane degli Stati Uniti a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, con un importante antecedente nella pittura murale messicana degli anni venti di Rivera, Orozco e Siqueiros, connotata da un forte impegno politico e rivoluzionario.
Oggi la Street Art è un movimento assai complesso e articolato che, soprattutto in Europa, ed in particolare in Italia, ha avuto diverse ed importanti trasformazioni che si sono sviluppate in direzioni spesso divergenti, fino a diventare fenomeno di massa con l’apparizione di singolari ed enigmatici artisti – come Solo, Haring, Banksy, Blu, Alice – oppure ad “istituzionalizzarsi” come nelle realizzazioni di grandi murales qualificabili come opere di rigenerazione urbana, come quelli spesso commissionati dalle amministrazioni comunali o da enti pubblici per la riqualificazione di interi quartieri periferici nelle grandi città, come ad esempio a Roma nei quartieri del nei quartieri del Quadraro, Tufello, Pigneto, Tor Marancia, o anche a Milano nel quartiere Ortica, e, tramite l’intervento delle Ferrovie dello Stato, in diverse stazioni ferroviarie come quelle di Porta Garibaldi e Porta Genova.
Parliamo dunque di progetti strategici di ampio respiro, realizzati con veri e propri cantieri, mediante il classico meccanismo di appalto di opere pubbliche.
Diverso è l’approccio che possiamo trovare nelle cittadine e nei borghi più piccoli, laddove il “fenomeno murales” negli ultimi anni si sta diffondendo a macchia d’olio in tutta Italia.
Antesignani di questa tendenza sono stati senza dubbio i Murales di Orgosolo, un fenomeno spontaneo con forte connotazione politica, ancor oggi vivo ed in piena attività, i cui primi esempi risalgono già alla fine degli anni Sessanta per svilupparsi poi nel decennio successivo, durante gli anni della contestazione giovanile, e la cui storia giunge fino ai giorni nostri.
Un esempio più recente e paradigmatico di questa mutazione “istituzionale” è quella degli ormai ben noti Murales di Aielli, che nascono a partire da un inaspettato capovolgimento politico: anni fa, dopo l’insediamento di una giovane ed intraprendente lista di sinistra, il Comune di Aielli, avendo risorse a disposizione, decise “a tavolino” di puntare alla riqualificazione artistica della cittadina attraverso i Murales, andando a valorizzare la vocazione “astrale” dei luoghi, grazie alla presenza dell’osservatorio astronomico esistente – La Torre delle Stelle – a partire dal quale è nato poi Borgo Universo, il Festival Annuale dei Murales, che ha visto la partecipazione di artisti ben noti a livello internazionale.
Nell’osservare questo processo balzano agli occhi, più che le analogie, le profonde differenze tra l’esperienza dei Murales di Passoscuro ed il fenomeno artistico comunemente descritto come Street Art.
La storia dei Murales di Passoscuro inizia nel 2017 quando alcuni tra i soci dell’associazione “L’Isola delle Correnti” si trasferirono da Roma a Passoscuro, una piccola località sul litorale romano ricadente nel Comune di Fiumicino e distante circa trenta chilometri dalla capitale. Venne così a crearsi spontaneamente una piccola comunità di artisti che cominciò ad operare sul territorio promuovendo eventi, presentazioni di libri, mostre d’arte di pittura, scultura e fotografia.
Nella primavera del 2018, furono eseguiti i primi murales in occasione dell’inaugurazione della nuova perimetrazione dell’Oasi protetta delle dune di Passoscuro. Nacque così spontaneamente l’idea di continuare a realizzare dei murales anche all’interno dell’abitato, ed in particolare nel suo lungomare, un rettilineo di circa due chilometri che attraversa tutto il paese ma dal quale il mare è difficilmente visibile, se non in corrispondenza dei varchi di accesso alla spiaggia.
Il resto della storia è ormai noto, in sei anni sono stati realizzati circa centotrenta interventi non solo di pittura di murales, ma anche di scultura e fotografia, con il coinvolgimento di circa quaranta artisti, in un processo spontaneo che si è sviluppato totalmente “dal basso”, con il minimo indispensabile di risorse economiche, in un inedito rapporto più che dialettico, direi quasi “affettivo” tra gli artisti e la popolazione residente.
Il meccanismo è apparentemente molto semplice: gli artisti individuano un muro (o un sito diverso, come una piazzetta, un giardino, un varco di accesso al mare etc.) e chiedono al proprietario il permesso di eseguire l’opera proponendogli un bozzetto preliminare.
Se, come nella maggior parte dei casi, il proprietario accetta, si esegue l’opera a titolo totalmente gratuito. Questo meccanismo genera però un momento di scambio di opinioni e di discussione, a volte anche “difficile”, tra artista e proprietario del muro, una discussione che in ogni caso coinvolge gli abitanti, che raramente rifiutano, ma che spesso e volentieri si fanno convincere e, in qualche caso, arrivano a partecipare alla realizzazione dell’opera.
Si tratta quindi di un’operazione che non è mai calata dall’alto e che si sviluppa caso per caso, di volta in volta senza seguire un progetto direttore ma in una sorta di improvvisazione controllata, come in un’orchestra Jazz, la cui regia e direzione artistica è governata in maniera flessibile ma attenta dall’Associazione.
A ben vedere gli artisti di Passoscuro non nascono dall’esperienza diretta dei writers o dei murales, ma, provenendo da altre discipline – pittori, scultori o fotografi – hanno trasferito la propria espressività artistica dall’interno dei loro studi fino ai muri del paese, con un intento poetico e al tempo stesso “politico” nel senso più nobile del termine, laddove la ribellione sterile cede il passo al rifiuto e la protesta si aggancia all’utopia.
La prima edizione del PAF – Passoscuro Art Festival – si è svolta nel settembre del 2022 con il titolo “L’Utopia dipinta sui muri”. Il 22 giugno prossimo si terrà la seconda edizione dal titolo “Il mio paese è il mondo intero”. Quest’anno il tema della mostra e dell’opera collettiva che si andrà a realizzare mediante un flash-mob nell’isola pedonale del Borgo dei Pescatori avrà il titolo “Per un mondo di genti e non di nazioni, per una terra senza confini”.
La tavola rotonda sulla street art – a cura di Giuliano Salaro con la partecipazione dell’architetto Corrado Landi e dell’artista Pino Roscino – si intitola “Mi dipingevo le mani e la faccia di blu” e sarà incentrata sul rapporto tra arte e trasformazione urbana, e avrà come protagonista un’arte che abbatte muri e non conosce confini, cambia lo spazio abitativo, volge al bello l’ambiente, crea rapporti, trasforma il luogo dove si vive. Come museo a cielo aperto è un’arte per tutti, non conosce classi sociali e crea cultura. È un’arte politica perché rivoluziona il modo di pensare l’ambiente urbano. La tavola rotonda si riaggancia così ai temi ampiamente trattati nell’articolo “Il Museo senza pareti – Arte e spazio pubblico” a firma di Corrado Landi e Fiammetta Nante, pubblicato nel numero di LEFT di agosto 2023.
All’interno dell’isola pedonale, oltre alla mostra di circa venti artisti, non mancherà la musica dal vivo eseguita in strada ed il concerto finale del Quadracoro diretto dal Maestro Francesco Giannelli.
Inoltre, grazie al progetto a cura di Laura Testa, ci sarà anche un gemellaggio con il festival artistico dei bambini delle Cicladi – SyrosKIDZ! – The Cyclades Kids Festival – che si tiene ormai da dieci anni nell’isola di Syros grazie all’impegno costante di Christianna Papitsi – Assessore al Turismo del Comune di Syros – Ermoupolis – che sarà presente alla Mostra e alla tavola rotonda a Passoscuro, portando con sé una serie di opere pittoriche realizzate dai bambini greci, simbolo di unione tra le genti del Mediterraneo.
RIQUADRO:
L’Associazione Culturale “L’Isola delle Correnti” (ora A.P.S. – Associazione di Promozione Sociale – iscritta al Registro Unico del Terzo Settore) è nata nel 2007 ed opera con continuità nel territorio di Passoscuro dal 2017, realizzando i Murales e promuovendo eventi, presentazione di libri, mostre d’arte di pittura, scultura e fotografia.

L’appuntamento: Il 22 giugno si svolge la seconda edizione del Passoscuro art festival. Ed arriva dopo una serie di eventi, fra i quali le presentazioni dei due volumi del Catalogo dei Murales (2018-19 e 2020-21); il Convegno “Arte, Politica e Territorio”, tenutosi presso la Casa della Partecipazione di Maccarese nel settembre del 2021;La giornata- evento “La Primavera dei Diritti” del marzo 2023.

L’autore: critico musicale, Roberto Biasco è presidente de “L’Isola delle Correnti APS”

Concorso esterno in associazione mostruosa

A fine maggio, il Tar aveva rigettato il ricorso presentato da Asgi, Arci, ActionAid, Mediterranea Saving Humans, Spazi Circolari e Le Carbet contro il trasferimento di sei motovedette alla Garde Nationale tunisina. In virtù di questa decisione, per il mese di giugno era in previsione il trasferimento delle prime tre motovedette. Le associazioni hanno quindi impugnato la sentenza del Tribunale amministrativo presso il Consiglio di Stato, chiedendo d’urgenza la sospensione cautelare del provvedimento.

Maria Teresa Brocchetto, Luce Bonzano e Cristina Laura Cecchini del pool di avvocate che segue il caso hanno spiegato che «come sostenuto anche dalle Nazioni Unite, fornire motovedette alle autorità tunisine vuol dire aumentare il rischio che le persone migranti siano sottoposte a deportazioni illegali». 

Filippo Miraglia di Arci ha spiegato che in Tunisia «alla nuova ondata di arresti e deportazioni nei confronti delle persone migranti ora si affiancano persecuzioni contro gli attori della società civile che le sostengono» ma nonostante la gravità della situazione «le politiche italiane ed europee sembrano sostenersi e giustificarsi a vicenda, impermeabili agli allarmi lanciati dalle Nazioni Unite e dalle Ong internazionali che condannano unanimemente l’operato delle autorità tunisine». 

La decisione del Tar si basava sugli accordi politici tra Italia e Tunisia (il memorandum firmato in pompa magna il 16 luglio 2023 tra Giorgia Meloni e Kaïs Saïed) e sul fatto che l’Italia recentemente abbia inserito la Tunisia tra i Paesi considerati “sicuri”. Il Consiglio di Stato ritiene invece “prevalenti le esigenze di tutela rappresentate da parte appellante”, sospendendo il trasferimento delle motovedette alla luce delle possibili violazioni che tale atto può comportare.

Finanziare chi viola i diritti umani in fondo è un Concorso esterno in associazione mostruosa. Quello che stiamo facendo dal 2017 con la Libia. O no?

Buon venerdì. 

Imprendibile Munari, in fuga dal bellicismo futurista

Bruno Munari alla Fondazione Magnani Rocca

Ancora pochi giorni per vedere a Parma negli spazi della Fondazione Magnani-Rocca la più completa mai dedicata a un personaggio di primissimo piano nel Novecento italiano come Bruno Munari un artista che nella sua lunga e operosa vita ha abbracciato diversi campi, dalla pittura al collage, dall’arte concettuale al design industriale, dal cinema sperimentale all’architettura, ottenendo in vita riconoscimenti internazionali. Con 250 opere in mostra. Come spiega Marco Meneguzzo nel suo denso saggio Bruno Munari tutto, contenuto nel catalogo della mostra (edito da Dario Cimorelli) quello di Munari è un mondo ricco e vario, alla base del quale però c’è un preciso metodo, che l’artista ha sperimentato e applicato nel corso della sua vita in tutte le forme possibili. «Prima di ogni realizzazione consapevole, esiste un pensiero sull’azione da realizzare, e prima di questo pensiero deve esistere un metodo per pensare l’azione e per realizzarla», scrive Meneguzzo.
Ripercorrere le tappe della sua creazione artistica significa inseguire le vorticose evoluzioni e trasformazioni dei codici dell’arte novecentesca. Munari infatti fu un pioniere e un esploratore di nuovi campi della creazione artistica. Molti sono i nodi, i legami e i nessi delle sue creazioni con le esperienze delle avanguardie novecentesche. Il suo esordio risente della seconda ondata del futurismo (già ventenne, partecipò ad alcune mostre collettive del gruppo alla Galleria Pesaro di Milano a partire dal 1927); a partire dal 1930 partecipò ripetutamente alla Biennale di Venezia (vi tornerà nel ‘34 e nel ‘36) e ad altre esposizioni internazionali (quadriennale di Roma del 1935, Triennale di Milano nel 1936). Ma, come scrive Stefano Roffi nel suo articolo Bum Munari futurista (BUM era la firma con cui siglò molti dei suoi quadri di questi primi anni): «molte opere del periodo futurista di Munari sono andate perdute». Ma la sua è una mente irrequieta. «L’artista, una volta risolto un problema estetico o progettuale, passava ad altro, non sentiva l’esigenza di insistere sullo stesso lavoro», scrive Roffi nel menzionato articolo. Tuttavia le testimonianze che ci sono pervenute dimostrano fecondi contatti anche con altri movimenti artistici del primo novecento: dadaismo, costruttivismo, surrealismo, astrattismo. Con il futurismo condivideva le riflessioni su come superare la dimensione statica del dipinto e la rappresentazione del dinamismo nell’arte.
Al 1930 risale una prima svolta nella sua creazione artistica, con la realizzazione della prima scultura “aerea”, che si trasformerà, tra il 1933 e il 1934, nella famosa serie delle Macchine inutili, idea affine a quella che stava sperimentando proprio in quegli anni l’artista statunitense Alexander Calder (al 1929 risale la prima mostra di quest’ultimo di scultura di filo presso la Galleria Billiet a Parigi) e che successivamente è stata definita “arte cinetica” (come si vede del tutto coerente con l’interesse di Munari per la rappresentazione del dinamismo).
In questi anni, dal 1930 al 1937, lavorò allo studio grafico milanese “R+M” insieme al grafico Riccardo Ricas (pseudonimo di Riccardo Castagnedi – 1912-1999), collaborò con numerose riviste e illustrò alcuni libri di futuristi (tra cui, nel 1937, Il poema del vestito di latte di Marinetti).
L’idea delle Macchine inutili è legata a una riflessione-intuizione che l’artista aveva verbalizzato nel Manifesto del macchinismo del 1938 che vale la pena citare per intero per la sua profetica attualità:

“Il mondo, oggi, è delle macchine.
Noi viviamo in mezzo alle macchine, esse ci aiutano a fare ogni
cosa, a lavorare e a svagarsi. Ma cosa sappiamo noi dei loro
umori, della loro natura, dei loro difetti animali, se non attraverso
cognizioni tecniche, aride e pedanti?
Le macchine si moltiplicano più rapidamente degli uomini,
quasi come gli insetti più prolifici; già ci costringono
ad occuparci di loro, a perdere molto tempo per le loro cure,
ci hanno viziati, dobbiamo tenerle pulite, dar loro da mangiare
e da riposare, visitarle continuamente, non far loro mai mancar nulla.
Fra pochi anni saremo i loro piccoli schiavi.
Gli artisti sono i soli che possono salvare l’umanità da questo pericolo.

Gli artisti devono interessarsi delle macchine,
abbandonare i romantici pennelli, la polverosa tavolozza, la tela e il telaio;
devono cominciare a conoscere l’anatomia meccanica, il linguaggio meccanico,
capire la natura delle macchine, distrarle
facendole funzionare in modo irregolare, creare opere d’arte
con le stesse macchine, con i loro stessi mezzi.
Non più colori a olio ma fiamma ossidrica, reagenti chimici,
cromature, ruggine, colorazioni anodiche, alterazioni termiche.
Non più tela e telaio ma metalli, materie plastiche, gomme e resine sintetiche.
Forme, colori, movimenti, rumori del mondo meccanico
non più visti dal di fuori e rifatti a freddo, ma composti armonicamente.
La macchina di oggi è un mostro!
La macchina deve diventare un’opera d’arte!
Noi scopriremo l’arte delle macchine!”

Bruno Munari, macchina inutile 1933

Se da una parte Munari sembra condividere la tecnolatria futurista, con l’esaltazione della macchina e della velocità, con le sue Macchine inutili ne offre una versione dadaista, per nulla bellicista o aggressiva. Tuttavia a onor del vero una certa prossimità dell’artista milanese in questi anni con la retorica del fascismo è innegabile. Nel 1934 aveva firmato insieme ad altri artisti del gruppo futurista di Milano il Manifesto tecnico della aeroplastica futurista nel quale leggiamo: «Questa nuova espressione noi la chiamiamo aeroplastica futurista o anche progetto di paesaggio… poiché saranno complessi plastici polimaterici tattili da viaggiarvi dentro, saranno progetti di paesaggio da volarvi dentro anche solo con la fantasia, questo aeroplano senza motore della realtà; per mezzo dei nostri plastici polimaterici noi vogliamo dare a chi guarda la possibilità di entrare a far parte della nostra opera come trovandosi in aeroplano fa parte del paesaggio in cui vola.
Di conseguenza la nostra insuperabile fantasia ottimista ci suggerisce: ambienti aeroplastici termici tattili olfattivi ecc. case quartieri città non più a vanvera ma disposti in senso plastico polimaterico tattile luminoso fumigante coloratissimo deviando fiumi costruendo boschi laghi prati aria acqua terra secondo i nuovi progetti di paesaggio che glorificheranno nei secoli la potenza politica e artistica di questa formidabile Italia fascista in cui abbiamo la gioia immensa di vivere!”.
Occorre anche menzionare la collaborazione di Munari con l’Almanacco Letterario Bompiani a partire dal 1934 (episodio a cui Alberto Saibene dedica una nota nel catalogo della mostra), a cui collaborò anche Cesare Zavattini. Munari ne curò la grafica fino alla fine degli anni Settanta, sperimentando impaginazioni innovative, con fotomontaggi di vaga ispirazione surrealista, nei quali spesso erano citate frasi del Duce accompagnate da sue immagini; successivamente, in una intervista del 1977, sostenne che vi fossero sottese «intenzioni sottilmente satiriche». A giudicare dal fortunato libro Le macchine di Munari pubblicato da Einaudi nel 1942 (due anni dopo la nascita del figlio Alberto), che descrive con dovizia di particolari macchine assurde e inutili di sua invenzione, la distanza dalla retorica bellicista del regime (in quegli anni interamente piegato alla retorica bellicista) è abissale.
Il suo interesse verso il mondo dell’infanzia, legato anche alla sua recente paternità, a partire dall’immediato dopoguerra si manifestò in diverse forme: libri per l’infanzia, giochi e, infine, laboratori didattici basati su un metodo originale, il “metodo Munari”, che poi affidò al figlio (il quale successivamente sarebbe divenuto professore di pedagogia all’università di Ginevra).

Bruno Munari, Anche la cornice, 1935 1986

Nel 1948 fu tra i fondatori del MAC (Movimento Arte Concreta) insieme a Gillo Dorfles, Gianni Monnet e Atanasio Soldati, un raggruppamento di paladini dell’arte astratta che affiancò il “Gruppo forma 1” (il quale si era formato l’anno prima a Roma). A differenza di questo, il gruppo milanese fu più longevo (si sciolse nel 1958, mentre quello romano aveva cessato di esistere sette anni prima) e incisivo. Vi fecero parte anche architetti e designer. Prendendo come modello l’esperienza della Bauhaus, la scuola di arte e design che operò in Germania dal 1919 al 1933, anche il raggruppamento milanese promosse una “fusione delle arti”.
Agli anni Cinquanta risalgono i primi “sconfinamenti” di Munari nel campo del design industriale attraverso quella che con gli anni diventerà una stabile collaborazione con la Danese di Milano. Nel 1962 organizza insieme a Giorgio Soavi nel negozio Olivetti di Milano la prima mostra di arte programmata (con una presentazione di Umberto Eco). Nel 1967 pubblicò il libro Design e comunicazione visiva tratto dai corsi di comunicazione visiva tenuti presso l’università di Harvard.

Munari, Studio di design, circa 1950, collage e fotocollage su cartonicino © Bruno Munari

Da questa sommaria e lacunosa rassegna della creazione artistica di Munari si comprende quanto sia difficile racchiudere il suo mondo sotto un’unica categoria concettuale. «Il primo approccio di Munari alla creatività in generale è «fisico», nel senso più vasto del termine: cercare dentro la realtà invece di costruirsene una a proprio uso e consumo», scrive Meneguzzo nel summenzionato articolo. «Quelli che appaiono come singoli episodi di osservazione, come scoperte non legate le une alle altre, formano invece una rete senza buchi e a maglie sempre più strette, dove l’approccio empirico è la costante capace di annodare la rete di informazioni. Al contrario del Bplatonismo, per Munari non c’è idea (vera) se già non esiste da qualche parte nel reale, in attesa di essere resa visibile, oltre che comprensibile», ne deduce Meneguzzo.
Munari rappresenta una figura chiave nell’arte italiana del novecento, ma per comprenderne la sua portata, forse non è sufficiente una sbrigativa visita alla mostra di Parma, che tuttavia può essere considerata una porta d’ingresso nel suo mondo.

l’autore: Lorenzo Pompeo è slavista, traduttore, scrittore e saggista

 

Fate una cosa, cancellatela la giornata mondiale dei rifugiati

Fate una cosa leale, cancellatela la giornata mondiale dei rifugiati che ricorre oggi. Raccontate con sincerità ai 117,3 milioni di persone costrette a fuggire dal loro Paese in  tutto il mondo (a maggio 2024 come riporta il Rapporto Global Trends del 2024 dell’Agenzia Onu per i rifugiati) che quell’articolo della Dichiarazione universale dei diritti umani firmata il 10 dicembre del 1948 a Parigi è stato una svista. «Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi Paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio Paese», dice il secondo comma dell’articolo 13. Un articolo invecchiato male, malissimo, praticamente dissolto. L’articolo 14, «ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni» è stato una svista. Ammettete in conferenza stampa che è stato abrogato nel corso del tempo e non c’è più nulla da fare. 

Spiegate che quell’articolo 9 secondo cui «nessun individuo potrà essere arbitrariamente arrestato, detenuto o esiliato» non è applicabile a chi arriva per mare o per terra a disturbare il lavoro dei governi eletti con il mandato di gestire l’etnie, prima delle persone. 

Evitateci lo sturbo di fronte alle celebrazioni di oggi, in questa Italia assassina protagonista di un’Europa assassina che ha celebrato l’anniversario della tragedia a Steccato di Cutro ripetendola qualche miglio più in là. 

Cancellatela la giornata mondiale dei rifugiati che ricorre oggi, fate più bella figura. Racconterete che era un buon proposito ce non si è riusciti a mantenere, come la promessa mancata dell’ultima sigaretta. «C’erano dei seri problemi di gestione del consenso interno per mantenere le promesse con quelli da fuori»: ai nipoti potete dire così. 

Buon giovedì. 

Il doppio voto della Repubblica d’Irlanda: il governo tiene, ma fino a quando?

Non solo le elezioni europee ma anche quelle amministrative. Ecco gli scenari che si aprono dopo il 7 giugno. I principali partiti della coalizione di governo hanno tenuto ma si profila anche l’ipotesi delle elezioni politiche anticipate. Cala il consenso per il partito di opposizione Sinn Féin. Mentre l’estrema destra resta al palo, volano i candidati indipendenti. Analisi di Carlo Gianuzzi, profondo conoscitore della politica irlandese.

Il voto per le elezioni europee 2024, nella Repubblica d’Irlanda, ha avuto luogo venerdì 7 giugno. Nella stessa occasione le elettrici e gli elettori hanno trovato ai seggi anche le schede per il voto amministrativo che, ogni cinque anni, rinnova le 31 autorità locali, vale a dire i consigli comunali e i consigli di contea. A Limerick, inoltre, l’elettorato è stato chiamato a votare per eleggere il sindaco (o la sindaca) del municipio e della contea (che, in questo e nel caso di Waterford, sono governati da un’unica autorità locale) nel primo caso di elezione diretta di questa carica nella storia della Repubblica d’Irlanda.

Il doppio appuntamento elettorale del 7 giugno era atteso anche per vagliare lo stato di salute dei principali partiti politici in vista delle prossime elezioni generali, che si dovranno tenere entro la fine del marzo 2025. L’attenzione generale era concentrata soprattutto sulle forze della coalizione di governo (i due partiti di centro destra Fine Gael e Fianna Fáil e i Verdi) e sul principale partito di opposizione, Sinn Féin (Sinistra al Parlamento europeo – Gue/Ngl) che gli ultimi sondaggi sulle intenzioni di voto per le prossime elezioni generali davano, ancora a fine maggio, in testa alla classifica per punti percentuali, seppure in forte calo dalla scorsa estate. Inoltre c’era una certa curiosità (non priva di apprensione) rispetto ai tentativi dell’estrema destra xenofoba di convertire in risultati elettorali concreti le mobilitazioni di piazza degli ultimi due anni contro i richiedenti asilo.

Il sistema elettorale in vigore per l’elezione dei membri irlandesi del Parlamento europeo è il sistema proporzionale a voto singolo trasferibile, che permette di indicare sulla scheda più di una preferenza elencando i candidati nell’ordine desiderato: 1 alla prima scelta, 2 alla seconda e così via. I candidati vengono eletti non appena i voti ottenuti come prima preferenza superano una determinata soglia. Se dopo questo primo conteggio restano dei seggi non assegnati si procede a un secondo spoglio nel quale le schede che indicano il candidato più votato come prima preferenza vengono suddivise in base alle preferenze indicate con il numero 2. A questo seguono altri conteggi (per le preferenze successive) fino a quando emergono candidati con un numero di voti superiore alla quota necessaria per essere eletti. Una volta ripartiti i voti in eccesso, se restano ancora seggi da assegnare si procede all’eliminazione dei candidati che non hanno raggiunto la quota, partendo da quello che ha preso il minor numero di voti; anche in questo caso, i voti ottenuti dal candidato vengono ripartiti in base alle preferenze indicate sulla scheda e così via. Nella Repubblica d’Irlanda il sistema proporzionale a voto singolo trasferibile è utilizzato per tutte le consultazioni elettorali, comprese le elezioni generali e quelle amministrative.

Per quanto riguarda i partiti di governo va ricordato che lo scorso 20 marzo il Taoiseach (Primo ministro) Leo Varadkar ha annunciato a sorpresa le proprie dimissioni dalla guida del Fine Gael (Gruppo Ppe) e dalla carica di capo del governo. Varadkar aveva preso la guida dell’esecutivo nel dicembre 2022 in base a un accordo di avvicendamento stretto con il leader del secondo partner di maggioranza di coalizione, Fianna Fáil (Renew Europe) dopo le elezioni generali del 2020. Le dimissioni, motivate da Leo Varadkar citando ragioni personali, hanno inizialmente spiazzato la politica irlandese e messo addirittura in forse le possibilità della coalizione di governo di portare a termine la legislatura, la cui scadenza naturale è fissata al termine del marzo 2025. Con l’uscita di scena di Varadkar i ruoli di guida del principale partito della coalizione e di Taoiseach sono stati assunti da Simon Harris, ex ministro della Salute sopravvissuto a qualche scandalo e alla delicata fase della pandemia e adesso, a 37 anni, Primo ministro più giovane della storia irlandese. C’era quindi attesa per vedere se il passaggio di testimone avrebbe convinto o meno l’elettorato del Fine Gael e della coalizione.

Per Sinn Féin, d’altro canto, si trattava di verificare il proprio sostegno in una prova elettorale “vera”. Alle ultime elezioni generali (febbraio 2020) il partito guidato da Mary Lou McDonald si era affermato come primo partito con uno strabiliante 24,5 per cento dei voti (con una crescita del 10,7 per cento rispetto alle elezioni parlamentari del 2016), contro il 22,2 per cento di Fianna Fáil e il 20,9 per cento di Fine Gael. Nonostante i 37 seggi conquistati (stesso numero dei deputati eletti da Fianna Fáil e due in più di quelli di Fine Gael), Sinn Féin venne relegato all’opposizione grazie al patto di coalizione stretto fra i due partiti di centro insieme ai Verdi. Da allora, il partito repubblicano (storicamente legato all’Ira) ha iniziato una parabola ascendente segnata dalla crescita nei sondaggi d’opinione al Sud e dalla straordinaria vittoria elettorale al Nord. Alle elezioni per l’Assemblea legislativa di Belfast, che si sono tenute nel maggio 2022, Sinn Féin è diventato il primo partito anche nell’Irlanda del Nord con il 29 per cento dei voti e uno scarto di oltre otto punti percentuali sul secondo partito, il Democratic Unionist Party (Dup, Partito Unionista Democratico, il principale partito della comunità unionista). La conquista della maggioranza relativa nell’Assemblea di Belfast (29 seggi) ha consentito alla candidata di Sinn Féin Michelle O’Neill (una volta superato lo scoglio del boicottaggio delle istituzioni da parte del Dup grazie all’intervento di Londra e dell’Unione europea) di essere finalmente nominata Prima ministra dell’esecutivo di Belfast, lo scorso febbraio.
Al Sud, tuttavia, la crescita nei sondaggi ha toccato il picco nell’ottobre 2022 (36 per cento delle intenzioni di voto) per poi iniziare un progressivo declino che ha portato Sinn Féin al 23 per cento nel giro di 18 mesi.

Elezioni amministrative
I risultati delle elezioni amministrative sono stati accolti con grande sollievo dai due principali partner di governo (Fine Gael e Fianna Fáil, quasi appaiati intorno al 23 per cento, con 245 e 248 seggi locali rispettivamente; meno bene il terzo partner di coalizione, il partito dei Verdi, che ha preso il 3,62 per cento e conquistato solo 23 seggi). In realtà, sia Fianna Fáil sia Fine Gael registrano un calo di seggi e di percentuali (31 e 10 e 4 per cento e 2,26 per cento rispettivamente) rispetto alle amministrative del 2019. Tuttavia, poiché qualcuno paventava risultati ancora peggiori, l’esito delle elezioni ha finito per dare ossigeno al governo ed è stato generalmente commentato come decisamente favorevole.
Il Taoiseach Simon Harris si è affrettato a escludere la possibilità di un voto anticipato (settembre-ottobre 2024) ribadendo di volere rispettare la fine della legislatura (marzo 2025). Le sue parole, va detto, vengono commentate con una certa dose di scetticismo, per una serie di ragioni. La prima è che la scommessa sulla tenuta della coalizione potrebbe rivelarsi azzardata: un voto il prossimo autunno avrebbe migliori possibilità di capitalizzare il buon risultato del voto europeo e locale. La seconda è che, visto il numero di deputati al Parlamento di Dublino che hanno conquistato un seggio a Strasburgo (e il ministro delle Finanze Michael McGrath in corsa per un posto nella Commissione Ue), dopo l’estate saranno probabilmente necessarie almeno cinque elezioni suppletive per riempire i seggi parlamentari resi vacanti. Poiché queste elezioni sono spesso terreno difficile per i governi in carica, Simon Harris e i suoi due partner di governo potrebbero ritenere preferibile anticipare la data del voto all’inizio dell’autunno per non rischiare di andare alle urne sulla scia di una serie di risultati non del tutto positivi nelle suppletive.

Martedì 18 giugno, inoltre, è arrivata una notizia destinata a far crescere le pressioni all’interno della coalizione di governo per anticipare il voto al prossimo autunno: il segretario dei Verdi Eamon Ryan ha annunciato le sue dimissioni dalla guida del partito. Ryan, 61 anni, segretario dei Verdi dal maggio 2011, ha aggiunto che non intende candidarsi alle prossime elezioni generali e ha citato, fra le ragioni che lo hanno convinto a farsi da parte, i modesti risultati ottenuti dal partito nelle ultime elezioni europee, la volontà di dedicare più tempo alla sua famiglia e il clima di disinformazione e di aggressività nei confronti del ceto politico imperanti sui social network. Eamon Ryan ha voluto d’altro canto rivendicare quelli che ha definito i passi avanti fatti dall’Irlanda grazie ai Verdi negli ambiti del trasporto pubblico, delle energie rinnovabili e della salvaguardia dell’ambiente. Eamon Ryan è il secondo dei leader dei tre partiti della coalizione di governo che si dimette in soli 3 mesi.

Sul fronte opposto, le elezioni amministrative hanno confermato il momento difficile del principale partito di opposizione, cui si è già accennato: nonostante una crescita del 2,23 per cento e di 21 seggi rispetto alle amministrative del 2019, Sinn Féin si è fermato all’11,8 per cento e ha portato a casa 102 seggi. Fra le ragioni che possono aiutare a comprendere il risultato deludente di queste elezioni amministrative per i repubblicani vale la pena citarne due, una di carattere organizzativo e una di respiro più sociale e politico. La prima è che, come ha riconosciuto la presidente di Sinn Féin, Mary Lou McDonald, a spoglio ancora in corso, il partito ha schierato troppi candidati. L’esempio più evidente è dato dal caso del collegio amministrativo Cabra/Glasnevin di Dublino, che copre una porzione del seggio parlamentare nazionale della stessa leader di Sinn Féin, nel quale il partito avrebbe potuto ottimizzare la quota di voti di prima preferenza se non avesse candidato quattro persone. Sembra inoltre che la macchina organizzativa non sia stata all’altezza di un tale numero di candidati (in Irlanda, a differenza dell’Italia, è ancora molto diffusa la propaganda porta a porta, considerata essenziale per il buon esito delle elezioni). Ironia della sorte, nelle elezioni generali del 2020 fu un numero ridotto di candidati a impedire a Sinn Féin di conquistare più seggi al Dáil, cioè la Camera dei deputati.
La seconda ragione è la posizione sempre più scomoda in cui si trova il partito repubblicano di fronte al crescente movimento di protesta contro l’accoglienza ai richiedenti asilo. Sinn Féin è un partito fortemente radicato nei quartieri popolari delle città e più in generale negli strati sociali più svantaggiati della popolazione, che costituiscono l’area di espansione dell’estrema destra; sulle questioni dell’immigrazione e dell’accoglienza, mantiene da sempre una linea di rispetto per le persone in cerca di asilo e di rifiuto della xenofobia. Per questa ragione, accanto ai partiti di governo, Sinn Féin è il bersaglio privilegiato della propaganda aggressiva e virulenta dell’estrema destra irlandese. Nonostante il grosso della sua base elettorale veda ancora nel partito repubblicano la prospettiva di cambiamento più affidabile e concreta rispetto alla linea neo-liberista Fine Gael/Fianna Fáil (soprattutto sul fronte drammatico della crisi degli alloggi), è un dato di fatto che non avere ceduto terreno rispetto alla propria linea di rifiuto della demonizzazione dell’immigrazione abbia raffreddato una parte del proprio elettorato.

Elezioni europee
Le percentuali del voto di prima preferenza delle elezioni europee riflettono grosso modo quelle delle amministrative: Fine Gael e Fianna Fáil poco sopra il 20 per cento, i Verdi al 5,36 per cento, Sinn Féin all’11,14 per cento. I due partner di maggioranza della coalizione di governo hanno conquistato quattro seggi ciascuno, mentre i Verdi, pur con una buona percentuale di voti, hanno perso i due che avevano nella passata legislatura. I voti trasferiti dalle schede del loro candidato nella circoscrizione di Dublino hanno aiutato il Partito Laburista a conquistare un seggio, pur con una percentuale di prime preferenze del 3,38 per cento. Sinn Féin ha aumentato il proprio numero di seggi da uno a due.

Estrema destra
Per quanto riguarda l’estrema destra, la prova del voto non ha portato l’exploit che qualcuno si augurava, né a livello europeo né a livello locale. Nelle amministrative i quattro partiti di estrema destra National party (Partito della nazione), Irish Freedom Party (Partito per la libertà dell’Irlanda), Irish People (Popolo irlandese) e Ireland First (Prima l’Irlanda) hanno accumulato, a livello nazionale, l’1,7 per cento.
L’Irish Freedom Party ha eletto un consigliere in un collegio della periferia sud della Capitale con il 10 per cento di voti di prima preferenza. Il National Party ha eletto un consigliere nella contea di Fingal (hinterland nord di Dublino) con il 7,5 per cento. Nell’unico collegio (Carlow) nel quale erano presenti tutti e quattro, i partiti di estrema destra hanno accumulato il 7,5 per cento ma senza eleggere alcun candidato. Irish People ha mancato di poco l’elezione di un consigliere in un collegio della contea di Cavan, pur con una percentuale dell’8,1 per cento.
Più incoraggiante per l’estrema destra il dato cumulativo nelle elezioni europee (sebbene, ovviamente, ben lontano dalla possibilità di vincere seggi): 4,94 per cento, all’interno del quale si va dallo 0,63 per cento di Irish People all’1,87 per cento di Ireland First.
L’estrema destra irlandese, per il momento, si presenta come un’area magmatica priva di vere basi ideologiche e programmatiche, molto simile per diversi aspetti al movimento dei forconi in Italia, che riesce a fare notizia soprattutto per la comunicazione social di alcune figure particolarmente attive che girano il Paese cercando di fomentare proteste locali, soprattutto nei luoghi nei quali vengono di volta in volta annunciate aperture di centri di accoglienza per i richiedenti asilo. Queste, negli anni e nei mesi scorsi, hanno provocato più di un grattacapo alle autorità, con diversi edifici dati alle fiamme e una vera e propria offensiva di vandalismo e saccheggi nel centro di Dublino, lo scorso 23 novembre, che ha messo a dura prova le capacità di contenimento della polizia.
Altra debolezza di questo movimento identitario etno-nazionalista è la mancanza di un volto riconoscibile a livello nazionale che riesca a consolidare il sostegno popolare, dato non secondario per una fetta di popolazione generalmente sensibile al richiamo della figura del capo. Anche l’operazione di rilettura della storia nazionale in chiave identitario-sovranista (come il tentativo di strappare la narrazione della Pasqua 1916 o la figura di James Connolly al nazionalismo anti-imperialista progressista o quello di “localizzare” la teoria della “Grande sostituzione” accostandola alla “Plantation”, la colonizzazione britannica e protestante dell’Ulster nel XVII secolo) non sta per il momento funzionando come sperato.

Candidati indipendenti
Quello dei candidati indipendenti è un fenomeno tipicamente irlandese. Gli ultimi sondaggi per le elezioni legislative nazionali lo collocano sopra il 17 per cento del voto. In queste ultime elezioni amministrative, gli indipendenti hanno conquistato poco meno di 190 seggi, contro i 245 e 248 di Fine Gael e Fianna Fáil; quasi il doppio rispetto ai seggi portati a casa da Sinn Féin. Alle elezioni europee hanno totalizzato una percentuale di voti di prima preferenza del 24 per cento, decisamente avanti rispetto ai due partiti principali e più del doppio rispetto al voto del partito guidato da Mary Lou McDonald.
Il peso degli indipendenti nella scena politica irlandese ha diverse ragioni. Come prima cosa occorre tenere presente il fatto che in Irlanda (come peraltro in Gran Bretagna) esiste un rapporto più diretto fra le elettrici e gli elettori e i loro rappresentanti eletti rispetto ad altri Paesi europei (come l’Italia). Qui conta meno la fedeltà a un partito e più il rapporto di fiducia che si crea (quando capita) fra elettori ed eletti. Ad esempio, in Gran Bretagna e in Irlanda i rappresentanti eletti mettono a disposizione appositi uffici, visibili e facilmente accessibili al pubblico, dove è possibile recarsi (in alcuni casi persino senza appuntamento) per incontrarli e fare loro domande, avanzare proposte o critiche e così via. Questa tendenza a preferire candidati indipendenti a quelli espressi dai partiti è aumentata, in anni recenti, di pari passo con la crescente disaffezione rispetto alla politica tradizionale, che spinge molte persone a sostenere figure percepite come più libere, oneste e vicine ai problemi della gente comune.
Alcune di queste figure hanno costituito in anni recenti nuovi partiti politici, come Independents 4 Change (Indipendenti per il cambiamento), formazione di sinistra che nella legislatura appena conclusa esprimeva due europarlamentari molto noti anche all’estero, Clare Daly e Mick Wallace (non rieletti), o Independent Ireland (Irlanda indipendente), di opposta tendenza politica, che in quest’ultima tornata elettorale ha fatto eleggere un eurodeputato, l’ex giornalista Ciaran Mullooly. Gli altri due candidati indipendenti appena eletti in Europa sono Michael McNamara, ex deputato laburista al Dáil, e Luke ‘Ming’ Flanagan, che ha fatto il pieno di voti nella circoscrizione centro-nordovest. Partito come attivista per la legalizzazione della cannabis, Flanagan ha condotto diverse battaglie, come quella contro alcuni casi di corruzione all’interno della Garda Síochána, la polizia della Repubblica d’Irlanda. Inizialmente euroscettico, ha progressivamente attenuato questa posizione rivalutando il ruolo delle istituzioni europee. Affiliato al gruppo della Sinistra al Parlamento europeo, ha promesso di battersi per il benessere dei coltivatori e degli allevatori irlandesi. Dopo la notizia della sua elezione, ha aggiunto di non escludere la possibilità di candidarsi alla presidenza della Repubblica nelle elezioni del 2025, a conclusione del secondo mandato dell’attuale presidente, Michael D. Higgins.
Indipendente è anche il candidato che è stato eletto alla carica di sindaco della città e della contea di Limerick: si tratta di John Moran, avvocato, un passato nel mondo della finanza e già segretario generale al Ministero delle finanze irlandese fra il 2012 e il 2014.

Come commento generale, va rilevato che il quadro del voto in Irlanda è sempre più instabile. Prima della crisi finanziaria del 2008 (che ha colpito pesantemente la società irlandese), la percentuale di elettori che non si erano mantenuti fedeli allo stesso partito nelle tre elezioni generali del 1997, 2002 e 2007 era del 28 per cento. Dopo la crisi, questo dato ha superato il 40 per cento per le consultazioni del 2011, 2016 e del 2020. Lo spoglio dei voti delle elezioni amministrative di quest’anno ha evidenziato un’ulteriore spia di questa tendenza: il meccanismo del trasferimento del voto, tradizionalmente ispirato da principi di contiguità ideologica o territoriale, si è fatto decisamente più volatile, con voti che ormai migrano da destra a sinistra e viceversa.

L’autore: Carlo Gianuzzi è co-autore e co-conduttore di Diario d’Irlanda, trasmissione diffusa da Radio Onda d’Urto

Nella foto: il primo ministro Simon Harris (con il premier britannico Sunak) al vertice in Svizzera sull’Ucraina, 16 giugno 2024 (Simon Walker / No 10 Downing Street)

Unirsi per cosa?

«Unità, unità». Ieri durante la manifestazione in piazza Santi Apostoli si è levato un grido della folla. Sul palco stava intervenendo il segretario di Sinistra italiana e deputato di Alleanza verdi sinistra Nicola Fratoianni chiedendo «meno prudenza» alle forze d’opposizione. 

L’opposizione, appunto, al governo più di destra della storia repubblicana e al vento di autoritarismo che sbatte l’Italia nel cassetto delle autocrazie occidentali. Un’ombra di opposizione s’è vista ieri in piazza, con la presenza dei partiti da +Europa a Rifondazione comunista passando per il Partito democratico, il Movimento 5 stelle. Ci sono volute le botte in Parlamento e una sequela di rigurgiti fascisti da esponenti locali fino agli alti esponenti nazionali. Un po’ tardi, bisbiglia qualcuno. Meglio tardi che mai, nota qualcun altro. 

Tra le cause dell’esplosione della destra in Italia, questa destra reazionaria e pericolosa, c’è sicuramente la disgregazione degli altri. Con molta avventatezza nell’opposizione che avrebbe dovuto esserci qualcuno ha brigato per erodere i possibili alleati più che gli avversari. Altri hanno speso energie per soffiare su un congresso cronico all’interno del proprio partito. Alcuni ancora oggi sfilacciano la tela per inseguire il cosiddetto centro che ieri era assente per mera strategia. 

Giorgia Meloni ha le mani libere grazie a un’opposizione disorganica e a degli alleati camerieri. Lo stravolgimento della Costituzione è l’emergenza che ha riacceso il senso di responsabilità. Uniti contro qualcosa è un inizio. Per cosa unirsi è la risposta da dare agli elettori. 

Buon mercoledì.

Tutto si tace, spento, come un corpo in fondo al mare

Il macabro anniversario della strage di Stato a Steccato di Cutro si celebra a 110 miglia dalle coste della Calabria dove una barca a vela partita dalla Turchia rovesciandosi ha vomitato in mare 66 persone che risultano disperse. 26 erano bambini. Arrivavano dall’Iran, dalla Siria e dal Pakistan. Gli 11 sopravvissuti sbarcati a Roccella Jonica raccontano che la nave imbarcava acqua  da giorni. 

Sempre ieri una Ong ha soccorso 64 persone al largo di Lampedusa. 10 sono morte soffocate rinchiuse nel ponte. Le altre sono state liberate a colpi d’ascia. Per questo 2024 siamo a 920 tra morti e dispersi nel Mediterraneo, sono 5 cadaveri al giorno che galleggiano nella rotta più letale del mondo. 

Al sontuoso G7 nella Puglia di cartapesta di qualche giorno fa i “grandi della terra” hanno cianciato di «prevenire e contrastare il traffico di migranti». È la formula vigliacca di chi non ha il coraggio di ammettere la voglia di fortezza. A nessuno di loro – come accade a Bruxelles – viene in mente l’ipotesi di rafforzare i soccorsi in mare. 

Salvare le persone è un tema secondario. Lo sforzo sta tutto nel trovare formule linguistiche nuove per abilitare l’orrore, naturalizzarlo, renderlo inevitabile. E ogni volta che ne muoiono le parole perdono senso, si infragiliscono, accendono meno sdegno, smuovono un lutto slavato. 

È la cosiddetta resilienza che auspicano i poteri: piegarsi narcotizzati di fronte agli eventi, allargando le braccia come massimo gesto di resistenza. Tutto si tace, spento, come un corpo in fondo al mare. 

Buon martedì.