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Cara presidente, si chiama libera informazione, non è “metodo di regime”

Cara presidente Meloni,
no, questo non è regime. Un’inchiesta giornalistica, come lei sa essendo iscritta all’albo dei giornalisti, deve scoprire la verità dove gli altri vogliono invece nasconderla, e alle volte occorre agire sotto copertura (come è stato fatto tante altre volte nella storia del Novecento). Il metodo non ha nulla a che fare col regime, perché il soggetto che opera in questo caso viene dalla società civile, dal quarto potere che ha il diritto e il dovere di sorvegliare l’operato della politica nell’interesse generale. L’infiltrazione di regime, o para-regime, quella sì che va condannata, ma si distingue perché è messa in campo da soggetti e gruppi politici, o da chi a quei poteri è vicino, come accadeva proprio durante il ventennio o con l’estrema destra paramilitare negli anni del terrorismo. Ma non accostiamo cose lontanissime fra loro, non facciamo errori grossolani.

E non scomodi, per favore, il capo dello Stato su questioni del genere, e con domande imbarazzanti. Il suo tentativo prosegue sulla linea della manipolazione comunicativa, che già abbiamo visto in opera più volte in quest’ultimo periodo: giovani che manifestano per la pace e i diritti presentati come squadristi; chi esprime il dissenso tacciato di censura (peccato che questa possa venire sempre e soltanto da chi sta al potere, da quelle persone che fanno norme apposite per reprimere il dissenso, come i recenti ddl Sicurezza in cui si prevede il carcere per chi nel manifestare occupa una strada, o per chi esprime criticità per il preoccupante progetto del ponte sullo stretto).

Le scene viste nel suo partito sono spaventose (vedi la seconda puntata dell’inchiesta di Fanpage) e sono state tristemente minimizzate nei giorni scorsi), ma quei riferimenti culturali non sono poi così lontani da quelli che lei stessa elogiava anni fa. Si cambia? Forse, è possibile. Ma il doppio volto da lei sempre negato, è solo la storiografia successiva a poterlo confermare o smentire, in base a come agirà da qui in avanti, esattamente come è sempre successo per altri casi del passato. In attesa, anzi in vista di quel giudizio della storia, prenda veramente posizione, ma non nel chiuso dei palazzi di partito: davanti allo Stato tutto deve parlare, e non con le due battute rivolte ad un giornalista oltretutto deviando il discorso. Condanni il fascismo e ancora di più il neofascismo (compreso Almirante), pronunci la parola antifascismo, e agisca di conseguenza, mettendo fine agli espedienti comunicativi tesi a introdurre una nuova narrazione. Il Paese non ha bisogno di nuove storie, delle vostre storie, ma di esser libero di mantenere una autentica memoria del passato, e di essere rappresentato in modo consono.

l’autore: Matteo Cazzato è dottore in filologia, Università di Trento

Ursula von der Leyen e la Ue. Ancora cinque anni?

Poche ore dopo che il Consiglio europeo aveva varato le tre nomine apicali confermando Ursola von der Leyen a presiedere la Commissione europea, si è svolto il primo confronto televisivo tra Biden e Trump per le presidenziali Usa di novembre e, a leggere i giornali, non è stato buono per Biden.
Sarà bene tenere d’occhio entrambi i percorsi, nuova governance Ue e presidenza degli Stati Uniti, perché l’intreccio è evidente. Quello storico tra Europa (è ancora più largo dopo l’’89) e Usa. Quello legato alla priorità che lega l’Unione europea e Biden e cioè lo scontro di lunga durata con la Russia. E che fa di Trump un riferimento per molte destre radicali europee, e non solo europee.

Ma partiamo dal Consiglio Europeo. Qui si prova a confermare gli attuali assetti. La priorità intergovernativa. L’asse franco tedesco. L’accordo tra popolari, socialisti e liberali. La triade indicata è Von der Leyen, Costa, Kallen. La prima passò cinque anni fa al vaglio del Parlamento Europeo per pochissimi voti. Ha gestito la pandemia in asse con le multinazionali con problemi di trasparenza e opponendosi alle richieste di sospendere i brevetti. Ora ha fatto una campagna per la riconferma tutta centrata sul riarmo europeo e la guerra di lunga durata contro la Russia.

l’ex presidente portoghese Antonio Costa, indicato a presiedere il Consiglio Europeo, ha appena perso le elezioni portoghesi ed è un socialista mediterraneo di un Paese che ha pagato duramente l’austerità. Kaja Kallas, proposta come alta autorità agli esteri, è premier estone fortemente anti russa.
Meloni si sarebbe astenuta (uso il condizionale perché i Consigli sono poco trasparenti) su Von Der Leyen e avrebbe dissentito sugli altri due. Problemi di rappresentanza per l’area della destra europea che presiede, l’Ecr, ma anche per l’Italia come Paese. Gli spifferi su una candidatura di Enrico Letta per il Consiglio sono rimasti tali.

Ora c’è il passaggio in Parlamento Europeo. Ma prima le elezioni francesi. Quelle europee non hanno certo dato buoni esiti per i governi di Francia e Germania. E c’è la formazione dei gruppi al Parlamento Europeo.
Si possono già vedere le manovre per sostenere le scelte e garantire i numeri, mandando segnali o operando mosse. I Verdi europei hanno posto il tema di un loro ingresso in maggioranza. Vedremo se lo considereranno bruciato dagli assetti proposti dal Consiglio oppure ci saranno margini parlamentari. Poi ci sono le convergenze con le destre su dossier importanti. Ad esempio le politiche migratorie e il tema di esternalizzare fuori dalla Ue le procedure di asilo su cui settori della “maggioranza” si sono detti disponibili.

Sugli assetti generali della Ue il metodo intergovernativista si va rafforzando e questo incontra l’idea di una Europa delle nazioni, magari presidenzialista, cara alle destre. Che per altro potrebbero ulteriormente articolarsi con un nuovo gruppo con i “più estremi”. Soprattutto c’è la guerra di lunga durata con la Russia con il riarmo strategico. Von der Leyen, come detto, li ha posti al centro della sua campagna elettorale. E stanno al centro dei tre punti del Consiglio, tra economia e democrazia. Qui le convergenze sono larghissime.

La Ue ha scelto questa opzione strategica in asse con Biden. È da vedere cosa potrebbe succedere con una presidenza Trump che magari abbia altre priorità conflittuali: la Cina. E che avrebbe una ascendenza politica e geopolitica su famiglie politiche e Paesi.
Intanto è tornato il Patto di stabilità e con esso l’austerità mentre la situazione economica anche di Paesi forti come la Germania non è certo rosea.

Qualcuno ha chiamato tutto questo “stabile instabilità” quella di un capitalismo finanziario globale che fa il surf su crisi sempre più profonde degli assetti geopolitici con conseguenze pesanti su economie e società.
La campagna elettorale europea ha visto una chiarezza dell’establishment, guerra e riarmo, e poi campagne nazionali. L’assenza di campagne europee da parte di soggetti europei politici, sindacali e sociali. La divisione estrema a sinistra. Di fronte alle incognite drammatiche del presente e del futuro una idea di Altra Europa, per la Pace, la democrazia, i diritti, sociale e ambientale, sarebbe proprio indispensabile.

L’autore: ex parlamentare europeo Roberto Musacchio è un politico, collabora con Transform Italia

Un capolavoro, il fallimento di Meloni

Breve disamina dei risultati politici della presidente del Consiglio Giorgia Meloni dopo le elezioni europee che a suo dire avrebbero dovuto essere la conferma della sua leadership. 

Giorgia Meloni è presidente del Consiglio, leader del suo partito italiano Fratelli d’Italia, leader del gruppo dei Conservatori europei in Europa nonché candidata capolista per finta. La voracità è un evidente problema quando si deve trattare perché lascia aperte molte piste per sé e per gli avversari   Così accade che il presidente della Repubblica chieda rispetto per l’Italia da parte dell’Unione europea e molti furbi analisti fingano di avere capito che Mattarella vorrebbe il gruppo dei Conservatori inseriti nelle trattative. 

Le trattative, appunto. Meloni ha scelto di guadare la campagna elettorale tenendosi equidistante (o equivicina) tra von der Leyen e il gruppo Identità e democrazia di Salvini e Le Pen. Era convinta di poter riapplicare l’antica teoria dei due forni di democristiana memoria, convinta di poter scegliere all’ultimo quale sponda fosse la più conveniente. Invece è rimasta lì solinga nel mezzo. Ora von der Leyen la considera troppo di destra e la destra europea la considera troppo di sinistra. Si era dimenticata un non trascurabile particolare: nonostante la propaganda a vincere in Europa sono stati gli altri, sempre gli stessi. 

Il suo gruppo europeo si sta sfaldando. Il partito polacco PiS valuta l’addio per fondare un nuovo gruppo con il premier ungherese Viktor Orbàn. Il premier ceco Petr Fiala, conservatore dello stesso gruppo Ecr di Meloni, annuncia il suo voto al bis di von der Leyen.

A Meloni non è restato che astenersi, triste e solitaria mentre in Italia il suo partito mostra antisemitismo da tutti i pori. Un capolavoro. 

Buon venerdì. 

Quando Berlinguer disse: l’oppressione delle donne non viene solo dal Capitale

Iniziava così un servizio di Tv7 del 1969: «Un discorso sul divorzio non può prescindere da un discorso sul matrimonio».
Oggi noi potremmo dire che un discorso sul matrimonio non può prescindere da un discorso sui sentimenti, sull’amore e sulla parità dei diritti tra i coniugi, anche se, tuttora, questa affermazione non è così scontata in tante parti del mondo e nel nostro Paese ha faticato ad affermarsi nella società civile, nella politica e all’interno degli stessi partiti politici.
In Italia, nel secondo dopoguerra, il valore dei sentimenti, dell’amore e della parità dei coniugi nell’ambito familiare modernamente inteso si fa strada lentamente nella mentalità comune e nella legislazione. Nonostante l’art. 29 della Carta costituzionale, non era molto cambiata la struttura gerarchica e patriarcale della famiglia. Era ancora vigente, nella legislazione familiare, lo ius in corpus, per cui in aggiunta all’obbligo di fedeltà vi era anche quello dell’assolvimento del debito coniugale. Per un cambiamento, si dovrà aspettare la legge sul divorzio del 1970 e la riforma del diritto di famiglia del ’75 che modifica sostanzialmente la legge del 1942 prevedendo la completa parità tra i coniugi, l’abolizione della dote, la comunione dei beni, la podestà genitoriale, l’uguaglianza tra i figli nati dentro e fuori dal matrimonio. E negli anni successivi si dovranno abolire o modificare anche le norme del codice penale che ne contrastavano la piena attuazione.
Anna Tonelli, docente di Storia contemporanea presso l’Università di Urbino, in vari suoi saggi ha affrontato il binomio politica – sentimenti come chiave di lettura nella ricostruzione della storia sociale e politica contemporanea. Afferma che amore, sessualità, matrimonio, famiglia, sono stati temi molto dibattuti nelle strutture interne dei partiti politici dando vita a norme comportamentali, consigli, divieti, provvedimenti disciplinari finalizzati ad estendere la loro influenza sulla vita privata dei militanti e dei cittadini. Tonelli ha focalizzato la sua ricerca sui maggiori partiti di massa del tempo: il partito comunista e quello democristiano. Lo ha fatto, ripercorrendo la morale democristiana attraverso l’attività dell’Azione cattolica e quella comunista mediante l’esame dei severi codici formulati dagli organismi istituzionali del Partito, dalle scuole di partito e dalla Direzione nazionale.
Il quadro che ne viene fuori è che nel dopoguerra, sul terreno della morale individuale si sono confrontati e spesso scontrati la cultura laica e quella cattolica «pronte a contendersi il primato politico, sociale e morale nella società. Si tratta di due visioni del mondo basate su ideologie, credenze, riti, tecniche dirette ad un fine esplicito: conquistare l’egemonia nella società». Per quel che attiene la morale socialista, Tonelli ritiene che la si possa rintracciare nell’impegno profuso in sostegno di una politica riformista tesa alla modernizzazione della mentalità e dei costumi, a partire dalla legge Merlin sulla chiusura delle “case di tolleranza”, fino alla legge del divorzio e relativo referendum. Nella battaglia per il divorzio i socialisti ebbero un ruolo centrale tra i fautori della legge nel promuovere iniziative e orientare in senso progressista la popolazione italiana e per ribadire l’identità laica dello stato moderno. ( A. Tonelli, Politica e amore. Storia dell’educazione ai sentimenti nell’Italia contemporanea, il Mulino, 2003).
Sulla questione dei sentimenti e sul piano della morale, la studiosa sostiene che i due maggiori partiti popolari, le cosiddette «due chiese cattolica e comunista», per quanto contrapposti sul piano ideologico e politico, convergono e non mostrano segni particolari di distinzione se non, a volte, per gli accenti più rigorosi e stringenti nelle disposizioni comuniste, che sfociano spesso in un severo moralismo. Per i cattolici, il peccato viene espiato con il pentimento nella confessione; per i comunisti, invece, la trasgressione assume la valenza di una deviazione dall’ideale politico, un tradimento della retta disciplina e un danno all’immagine del partito. Si trovano nei documenti comunisti affermazioni del tipo: «è consuetudine dei militanti comunisti nascondere i sentimenti… I dirigenti comunisti sono chiamati a temperare i propri sentimenti in pubblico, evitando atteggiamenti mondani e troppo esibizionisti. … Esibire il lato emotivo costituisce per il militante comunista la prova di poca affidabilità politica…..Qualora un sentimento, un amore, un’unione possano pubblicamente danneggiare il partito, si deve mettere nel conto la rinuncia o almeno il nascondimento dentro il privato del militante.». Il “privato”, afferma Tonelli, diventa quindi il nodo centrale: l’«ambito dove intervenire per costruire il modello del cittadino esemplare». (A. Tonelli, op.cit. e Gli irregolari. Amori comunisti al tempo della guerra fredda, Laterza, 2014).
Dalla ricostruzione storiografica di Tonelli in ambito democristiano, a nostro parere, sembra che emerga un progetto politico più oppressivo, in particolar modo nei confronti delle giovani donne, con il fine di mantenere il diritto di famiglia autoritario e patriarcale codificato dal regime fascista e perpetuare la loro sottomissione soffocandone ogni aspirazione di liberazione ed emancipazione.
Con la caduta del regime fascista, per il movimento cattolico si determina la possibilità di recuperare quell’antica egemonia culturale attraverso una campagna moralizzatrice che ha come missione principale la formazione della gioventù.
La Democrazia cristiana, pertanto, delega alle organizzazioni collegate il compito di diffondere veri e propri decaloghi dell’amore contenenti regole e divieti precisi e avvia un progetto “di moralizzazione”, il cui ambito comprenderà la famiglia e la sessualità, i comportamenti pubblici e privati, il tempo di lavoro e il tempo libero.
Espressioni del vocabolario cattolico come «educazione del cuore», «formazione dei sentimenti», «controllo dell’ordine morale» diventano parole chiave e si trovano nelle molteplici pubblicazioni utilizzate per educare e formare “il buon cristiano” alla vita sentimentale.
Viene fondata anche una scuola per i dirigenti dove si tengono corsi di meditazioni e lezioni per l’apprendimento dei principi fondamentali della morale cattolica e dei metodi per trasmetterli. I principali destinatari dell’educazione ai sentimenti sono le donne, in modo particolare le adolescenti, quelle che saranno le future spose e madri e che hanno il compito di mantenere l’unità e “la santità” della famiglia. Le stesse che dovranno essere persuase o obbligate ad attenersi ai ruoli loro assegnati nella famiglia patriarcale e agli stereotipi che esaltano, nel genere femminile, le virtù dell’obbedienza, della castità, della riservatezza.
Per contrastare l’emergente ondata di liberalizzazione degli stili di vita, in special modo quello della sfera sessuale, le organizzazioni giovanili cattoliche si mobilitano per infondere nella gioventù “forti e saldi caratteri cristiani”, che nelle giovani donne si palesa nel “buon carattere” una volta interiorizzati i «valori a loro attribuiti per natura e gerarchia sociale o sessuale: ovvero pudore, morigeratezza, purezza, obbedienza, virtù, coraggio, religiosità», affiancati nella vita di coppia alla «dolcezza, comprensione, sottomissione, senso del sacrificio, rinuncia, abnegazione, fedeltà». Dall’altra parte, c’è la definizione del “cattivo carattere” con l’elencazione dei difetti tra i quali quello di non sapersi “dominare”, di non saper dosare l’emotività in una vita “votata” all’equilibrio e alla moderazione. Verso le giovanissime si rivolgerà l’attenzione di mamme ed educatrici, di sacerdoti e insegnanti, impegnati a placare gli “squilibri” tipici di quell’età. Per “l’amore onesto” codificato, ci sono veri e propri manuali che si soffermano sulle diverse tappe della vita sentimentale, che partono dall’amicizia, proseguono nel fidanzamento e finiscono nel matrimonio: percorso e traguardo obbligati. (A. Tonelli, Politica e amore)
Tonelli nota, inoltre, che in ambito comunista, in quella che dovrebbe essere un’area più progressista, le norme di comportamento spesso sono più rigorose e intransigenti per le militanti comuniste, per quella loro “indole” all’eccessivo sentimentalismo che le «induce a perdere di vista l’obiettivo finale». L’esempio delle scuole di partito è in questa direzione illuminante. ( A. Tonelli, A scuola di politica. Il modello comunista di Frattocchie -1944-1993, Laterza, 2017) .
In questo contesto devono muoversi le donne comuniste, spesso penalizzate più dei compagni maschi all’interno e all’esterno del partito. Ne troviamo molte che, discostatesi da queste rigide norme, ne hanno subito le conseguenze con l’allontanamento o esclusione da organi e incarichi dirigenziali o con l’espulsione dal partito.
Teresa Noce, militante comunista fin dal 1921, fu estromessa dalla Direzione «per non aver rispettato la disciplina del partito», nella spiacevole vicenda della separazione da Luigi Longo. Nel 1955 scrive un noto articolo su l’Unità dal titolo “Imparare a dire no”. Trent’anni dopo, una militante del Partito comunista italiano in una lettera inviata alla redazione del giornale, si interroga su quel “No”, chiedendosi se davvero si era costruita una società diversa, una famiglia diversa, una cultura diversa… e anche un Partito comunista diverso.
Rispondere a questo quesito non è certamente facile, possiamo però ricordare che lo stesso segretario del partito comunista Enrico Berlinguer, intervistato nel 1976 da Carla Ravaioli sulla “questione femminile”, ammette che il suo partito non ha fatto abbastanza per rinnovare la mentalità dei militanti, elettori e simpatizzanti per superare pregiudizi, concezioni retrive e comportamenti discriminatori molto radicati nel costume del Paese, e ancora tanto presenti anche tra le fila del movimento operaio nella vita sociale, nel privato, all’interno del partito.
La stessa Nilde Iotti, nel suo saluto alle donne della sinistra europea (che per la prima volta si incontrano in un convegno a Roma il 21 e 22 marzo del 1986) non può fare a meno di sottolineare che tuttora «il mondo della politica è ancora un mondo profondamente maschile e anche nei partiti di sinistra stenta ad affermarsi con sufficiente forza il punto di vista femminile, la presenza attiva, la funzione dirigente delle donne; permane ancora troppo spesso nei nostri partiti – io credo – la concezione secondo la quale occuparsi dei problemi delle donne non è “far politica”, ma significa trattare di una questione particolare… Io ho vissuto profondamente nella mia esperienza la difficoltà nel mio partito di essere riconosciuta come una persona che vuole fare politica a tutto campo, che elabora progetti politici di carattere generale e si propone come dirigente politico.». (Convegno organizzato dal gruppo comunista e apparentati al Parlamento europeo e dalla sezione nazionale femminile della direzione del Pci, in Archivio storico del Senato ).
Certamente possiamo sostenere senza tema di essere smentite, che le militanti comuniste insieme ai movimenti femminili e femministi hanno contribuito molto per affermare l’uguaglianza e la parità dei diritti delle donne e la tutela dei minori nella legislazione del nostro Paese. Si sono battute per eliminare le tante discriminazioni e disuguaglianze esistenti nel codice civile e penale tra uomini e donne e per rendere norme giuridiche quei principi ispiratori della nostra Carta costituzionale.
Per non andare troppo indietro nel tempo, le donne lo hanno fatto partecipando volontariamente alla Resistenza italiana “esigendo” a guerra finita il diritto a poter votare ed essere elette. In Costituente, contribuendo all’inserimento nella Carta costituzionale la pari dignità sociale e uguale diritti senza distinzione alcuna nella famiglia, nel lavoro, nella società, affiancando al riconoscimento di questi diritti anche il compito della Repubblica di rimuoverne gli ostacoli che ne impediscono la concreta realizzazione, (che troviamo nel secondo comma dell’art. 3). Fu la comunista Teresa Mattei, una delle 21 madri costituenti, a proporre l’aggiunta di quel “di fatto” nel secondo comma. Ripercorriamo il suo intervento per sottolineare la grande consapevolezza che aveva della condizione femminile e la lungimiranza nel tracciarne gli ostacoli e l’impervio cammino.
Teresa Mattei, la più giovane tra gli eletti, fa presente agli onorevoli colleghi che non era sufficiente affermare il solo riconoscimento della parità e uguaglianza dei diritti: « è un buon punto di partenza per le donne italiane, ma non certo un punto di arrivo … un approdo. …». Sottolinea che non bastava: «Le donne desiderano qualcosa di più, qualche cosa di più esplicito e concreto che le aiuti a muovere i primi passi verso la parità di fatto, in ogni sfera, economica, politica e sociale della vita nazionale». Mattei fa presente che «secoli e secoli di arretratezza, di oscurantismo, di superstizione, di tradizione reazionaria, pesano sulle spalle delle lavoratrici italiane; se la Repubblica vuole che più agevolmente e prestamente queste donne collaborino – nella pienezza delle proprie facoltà e nel completo sviluppo delle proprie possibilità – alla costruzione di una società nuova e più giusta, è suo compito far sì che tutti gli ostacoli siano rimossi dal loro cammino, e che esse trovino al massimo facilitata e aperta almeno la via solenne del diritto». La giovane deputata chiede che «nessuna ambiguità sussista, in nessun articolo e in nessuna parola della Carta costituzionale che sia facile appiglio a chi volesse ancora impedire e frenare alle donne questo cammino liberatore». Sottolinea che purtroppo è «ancora radicata nella mentalità corrente una sottovalutazione della donna, fatta un po’ di disprezzo e un po’ di compatimento, che ha ostacolato fin qui grandemente o ha addirittura vietato l’apporto pieno delle energie e delle capacità femminili in numerosi campi della vita nazionale. Occorre che questo ostacolo sia superato». Teresa Mattei ci tiene a ribadire che «l ‘art. 7 (diventato poi 3 nella stesura definitiva) aiuta ma deve essere accompagnato da una profonda modificazione della mentalità corrente, in ogni sfera, in ogni campo della vita italiana e che le donne «molto ancora avranno da lottare per rimuovere e superare gli ostacoli creati dal costume, dalla tradizione, dalla mentalità corrente nel nostro Paese».
Ostacolo che Teresa Mattei si troverà a dover affrontare quando diviene «scomoda» al suo stesso partito per essersi rifiutata di adeguare la propria vita di donna agli ordini di un Pci moralista e bigotto. Nell’inverno del 1947 rimane incinta mentre ha una relazione con un uomo sposato e Togliatti «aveva deciso che l’impudente doveva abortire (e non fu la sola donna a cui impose quella scelta)». Teresa reagisce piccata: «le ragazze madri in Parlamento non sono rappresentate, dunque le rappresento io». La situazione fu poi regolarizzata all’estero con un espediente, ma Teresa mal sopportò quella ingerenza nella sua vita privata. Prima ancora, «la maledetta anarchica» (come la chiamava Togliatti) si attenne alla decisione del partito ma non accettò passivamente l’imposizione del voto a favore dell’inserimento dei Patti Lateranensi nella Costituzione». Nel 1955, sarà espulsa dal partito per aver denunciato lo stalinismo e criticato la politica togliattiana. (Enciclopedia delle donne.it. Biografie).
Anche Nilde Iotti, a causa della rigida morale comunista e per la diffidenza di molti compagni, subisce l’ostracismo interno al partito per la sua relazione con il segretario Palmiro Togliatti, sposato con Rita Montagnana.
È stata la prima presidente della Camera dei deputati della Repubblica italiana. Fin dall’inizio della sua attività politica nelle fila del Partito comunista italiano e nell’Unione donne italiane di cui è stata per molto tempo dirigente, mette al centro della sua azione politica la “questione femminile” e l’emancipazione delle donne. Il suo ininterrotto percorso parlamentare sarà segnato dalla volontà di adeguare la legislazione italiana ai principi costituzionali.
Entra a far parte, insieme a Teresa Noce, Maria Federici, Tina Merlin e poi Angela Gotelli, della “Commissione dei 75” dove sono definiti i principi fondamentali della nuova Repubblica. A lei, per i comunisti e a Camillo Corsanego (suo professore di università) per i democristiani è affidata la relazione sulla famiglia.
La sua relazione è improntata al riconoscimento e al compito che la famiglia deve assolvere nel nuovo contesto democratico che, a suo avviso, necessita di «un’opera di svecchiamento e rinnovamento democratico conforme allo spirito che deve ispirare la nuova Costituzione e tutta la vita italiana del nuovo regime repubblicano» per liberarla da una «fisionomia che si può definire per certi aspetti antidemocratica». Fisionomia all’interno della quale ha prevalso più la situazione di difficoltà e interesse economico che «la naturale aspirazione umana unita all’impulso del sentimento», che priva l’istituto familiare del carattere di «unione liberamente consentita» soprattutto per la donna in stato di arretratezza e inferiorità economica. Per lei, la Carta costituzionale deve affermare il diritto dei singoli in quanto membri di una famiglia superando la vecchia legislazione e il vecchio costume del Paese e deve fare in modo che soprattutto la donna possa emanciparsi in tutti i campi della vita sociale, al fine di non menomare la sua personalità e la sua dignità di cittadina acquisita con il diritto al voto. La nascente Carta costituzionale, afferma Nilde Iotti, deve avviare le auspicate trasformazioni del costume, deve essere guida «binario su cui si muoverà la corrispondente legislazione civile». Propone, nell’intento di rafforzare e rinnovare l’istituto della famiglia, cinque principi ispiratori, che saranno alla base della riforma del diritto di famiglia di là da venire.
In questa occasione, Nilde Iotti inserisce tra le motivazioni dell’unione familiare l’importanza dei “sentimenti”, in contrapposizione all’interesse economico o di «accasamento» e il concetto di «unione liberamente consentita». Molte delle sue proposte, benché con alcune revisioni dovute ai compromessi tra le forze politiche, trovano accesso nel testo della Costituzione.
Fu contraria all’inserimento nella Carta della indissolubilità del matrimonio, nel qual caso non ci sarebbe stata possibilità alcuna in futuro di legiferare in merito al divorzio.
Attenta osservatrice della condizione femminile e giovanile, Nilde Iotti intercetta la sofferenza e il desiderio di cambiamento delle donne, la loro aspirazione alla libertà, l’insofferenza verso la famiglia patriarcale e autoritaria che si va delineando nel nostro Paese nei decenni successivi alla fine della guerra e cercherà di rispondere a quelle istanze di disagio provenienti dalla società con la “politica delle riforme” privilegiando il dialogo alla contrapposizione con le altre forze politiche. La soggettività femminile, la presa di coscienza di sé e l’affermazione del proprio valore, anche per la sua esperienza personale, sono altri temi a lei cari, e ne fanno in un certo verso – come sostiene la storica Fiamma Lussana – una anticipatrice delle rivendicazioni del movimento femminista.
Nel 1962, nell’intervento alla III Conferenza nazionale delle donne comuniste, Nilde Iotti pone l’attenzione sui grandi mutamenti avvenuti nella società italiana e nella realtà femminile con l’ingresso massiccio delle donne nel mondo del lavoro. Descrive un Nord dell’Italia e centri urbani diventati poli di attrazione «che proiettano l’immagine di una donna nuova, che lavora e guadagna, ed è perciò più libera e indipendente». Un’immagine che si propaga nel resto del Paese e influenza le altre donne, che rende loro insopportabile la vecchia situazione e le spinge a desiderare una vita «diversa», a superare la «servile» condizione che per secoli le ha mantenute oppresse. Nilde Iotti si sofferma anche sulla questione dell’istituzione familiare in crisi e, rivolgendosi alla controparte democristiana, risponde che è un certo tipo di famiglia ad essere in crisi, quella vecchia: la famiglia gerarchica, autoritaria, basata sull’autorità del capo di casa, sull’obbedienza della moglie e dei figli. Sostiene che questo modello nel mondo moderno non regge più, anzi è in netto contrasto è sorpassato e anacronistico. Per lei, «è assurdo negare alle donne uguale parità e dignità con il marito, è assurdo – ed oserei dire disumano – negare alla donna l’esercizio insieme al marito della patria podestà sui figli. È assurdo prevedere che in caso di adulterio la donna paghi questo adulterio addirittura con il carcere.». Lamenta che i cattolici, in ogni occasione e molto spesso a sproposito li accusano di voler distruggere la famiglia. Lei rivendica, invece, la validità della loro concezione di famiglia che, secondo l’affermazione gramsciana è: «centro morale basato sull’uguaglianza di due individui, sulla libertà della scelta, sulla parità». Ed è in questo contesto che inserisce la “questione del divorzio” sulla quale «ancora una volta si è accesa nei nostri confronti la polemica delle dirigenti cattoliche» alle quali risponde che: «piaccia o no il matrimonio indissolubile è in crisi, è in crisi aperta». Lo dimostrano in maniera eloquente i numeri delle separazioni legali, delle coppie illegali e dei gravissimi casi presenti in Italia. Non si possono chiudere gli occhi – sottolinea – e la questione, a suo parere, dovrebbe essere affrontata non tanto dai partiti politici ma quanto dal governo italiano. Conclude il suo intervento ponendo la questione della presenza delle donne all’interno del partito e, nello specifico, la politica del partito sull’emancipazione femminile. (Nilde Iotti, Nel movimento e nel partito. Antologia di scritti e discorsi)
Nella IV Conferenza delle donne comuniste del 1965, Nilde Iotti riprende il tema della famiglia, del ruolo delle donne al suo interno e nella società ma in una situazione completamente diversa, in una Italia investita da una crisi profonda che tocca tutte le strutture della società, con ormai il “miracolo economico” alle spalle. Nel suo intervento analizza le cause della crisi e illustra un disegno di trasformazione della società che non può non comprendere la funzione della famiglia e il ruolo dei suoi componenti. Sostiene che ormai non sia più accettabile «considerare la famiglia come “il lavoro” predestinato per metà del genere umano». Per lei, il senso vero della famiglia sono i sentimenti e la libera scelta che deve essere alla sua origine e accompagnarne l’intera esistenza. Afferma che debba esserci uno stretto rapporto fra società e famiglia e che occorre trasformarle insieme «per rispondere ai problemi dell’uomo moderno e alle sue esigenze di vedere affermati i suoi sentimenti di libertà, di uguaglianza, di solidarietà.». Evidenzia l’enorme divario tra la realtà della società e la legislazione familiare vigente, tra le più arretrate e conservatrici, e il fatto che dopo quasi vent’anni dalla conquista della Costituzione repubblicana, poco o nulla sia stato fatto per adeguarla allo spirito moderno. Per la prima volta, da dirigente del partito, parla di necessità della riforma del diritto di famiglia e di divorzio, della possibilità di scioglimento del vincolo matrimoniale qualora le condizioni di convivenza siano rese impossibili nella consapevolezza «di toccare un punto di grande delicatezza per la presenza in Italia di un forte movimento cattolico, del centro della Chiesa cattolica, per il valore che questa questione assume nei rapporti stessi fra lo Stato italiano e la Chiesa e nei rapporti dei partiti col partito della Dc.» Ricorda che l’assenza della possibilità di scioglimento del matrimonio è un anacronismo tutto italiano nel mondo moderno.(Nilde Iotti, cit.)
Pochi anni dopo, insieme alle altre dirigenti comuniste, spingerà «un partito riluttante – per conservatorismo come per timore di uno scontro con i cattolici – a impegnarsi nel 1970 nella battaglia parlamentare per la legge, e nel 1974 nella campagna per il “no” al referendum abrogativo … È Nilde Iotti che nel corridoio di Botteghe oscure Enrico Berlinguer ringrazierà all’indomani del 12 maggio del 1974 regalandole uno dei suoi rari e fulminei sorrisi, con il commento: “Hai vinto”» (M.S. Palieri, “La regina rossa. Nilde Iotti” in Donne della Repubblica, il Mulino, 2016).
Sarà protagonista indiscussa della riforma del diritto di famiglia, legge approvata l’anno dopo dal Parlamento italiano, intervenendo con una organica riscrittura di quella vigente codificata dal fascismo nel 1942, da lei definita «antidemocratica», «anacronistica» e non corrispondente ai principi costituzionali….( questo saggio continua nel libro La battaglia sul divorzio, dalla Costituente al referendum, edito da Left)

L’incontro: Il 27 giugno alle 17,30 Enrico Berlinguer e la questione femminile: dall’emancipazione alla politica della differenza, negli spazi dell’associazione culturale Berlinguer in viale Oppio, 24 a Roma. Intervengono Luciana Castellina, Livia Turco, Vittoria Tola Giulia Rodano, Letizia Paolozzi, Franca Chiaromonte, Cecilia D’Elia, Gloria Buffo, Fulvia Bamdoli, Grazia Ardito Roberta Agostini. Presenta Pasqualina Napoletano, moderano Simona Maggiorelli di Left e la redazione de L’urlo di Teresa

Ora possiamo far tornare l’antisemitismo un argomento da prendere sul serio?

Nella seconda puntata della sua inchiesta Fanpage mostra come l’antisemitismo – quello vero, non quello confuso con la difesa delle vite umane a Gaza – sia endemico all’interno della componente giovanile del partito della presidente del Consiglio Giorgia Meloni. 

A margine degli eventi politici e organizzativi del partito, oltre che nelle chat del movimento giovanile, sono frequenti gli insulti, soprattutto quelli antisemiti, provenienti in particolare da coloro che si sentono costretti a sostenere la solidarietà a Israele come dettato dal governo di Giorgia Meloni. “Gli ebrei sono una casta, campano di rendita in virtù dell’Olocausto – afferma una militante del circolo di Gioventù nazionale Centocelle – Sono troppi, io li disprezzo come razza, perché oggettivamente è una razza, c’è la razza ariana, c’è la razza ebraica, c’è la razza nera”.

Non si tratta, come aveva riferito al Parlamento il ministro Ciriani, di “casi privati, i solati e decontestualizzati”. I protagonisti della caccia all’ebreo sono figure dirigenziali all’interno del movimento giovanile di Fratelli d’Italia nonché assistenti di importanti parlamentari. 

L’ex portavoce della Comunità ebraica di Roma nonché di una parlamentare di Fratelli D’Italia, Ester Mieli, è la vicepresidente della commissione Segre per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza e ieri ha sbottato. «le parole e i comportamenti là tenuti sono per me motivo di condanna e disapprovazione», ha scritto ieri in una nota. 

Ai giovani di Fratelli d’Italia si potrebbero aggiungere le uscite dei molti “adulti” di questi mesi. Ora possiamo fare tornare l’antisemitismo un argomento da prendere sul serio? Grazie. 

Buon giovedì. 

Fondazione per la scuola, le mani dei privati sull’istruzione pubblica

Quando negli anni Sessanta Ivan Illich proponeva una descolarizzazione della società, all’interno di una parabola che comprendeva la destrutturazione delle istituzioni totali, si muoveva in un orizzonte nel quale le funzioni da assegnare ai processi formativi erano ancora quelle di una società espansiva, legata ai consumi di massa. Scriveva a proposito: «Una volta che una società ha trasformato i bisogni fondamentali in richieste di beni di consumo prodotti da esperti, la povertà si definisce secondo parametri che i tecnocrati possono modificare a proprio piacimento».

Il 24 giugno scorso, a Milano è stata presentata la Fondazione per la scuola italiana, di cui fanno parte organismi potenti quali: Unicredit, Leonardo, Enel, Banco Bpm e Autostrade per l’Italia. L’obiettivo è quello di stanziare fondi privati, circa 50 milioni di euro, da investire nella scuola. Si tratta di una vera e propria agenzia preposta a «contribuire a supportare il sistema scolastico, rendendolo sempre più competitivo», come ha dichiarato esplicitamente il ministro Valditara.

Al cuore di questo modello privatistico, ovviamente troviamo, come recitano i vari protagonisti intervenuti nella pagina di presentazione ministeriale, «la promozione delle competenze, la strategica funzione del capitale umano e la valorizzazione delle eccellenze, quali elementi sempre più centrali in un mercato del lavoro che evolve rapidamente, anche su impulso delle nuove tecnologie». Alla luce di tali pronunciamenti programmatici appare evidente un salto di qualità notevole rispetto a quelle traiettorie che dagli anni 90 stanno trasfigurando le agenzie formative, raccordandole sempre più alle specificità dei modelli produttivi, in una logica di messa a valore del sapere, in quanto merce strategica del capitalismo cognitivo.

Non siamo più quindi in presenza di un assetto a tutti gli effetti “antropologico” che era definibile con il linguaggio di Illich nei termini di un processo in cui la valenza da assegnare all’apprendimento era quella di innervare una vocazione iniziatica alla società dei consumi, bensì siamo piombati in una dimensione che vede una piena compenetrazione delle dinamiche educative all’interno dei meccanismi di produzione della ricchezza. Ovviamente i profondi mutamenti che l’avvento del digitale ha apportato nel mercato, ha senz’altro definito il campo di intervento delle strategie aziendali, le quali privilegiano una produzione di conoscenze compatibili alle direttrici dei grossi comparti dell’industria dell’immaginario. Ci troviamo quindi in uno scenario molto differente da quello della seconda metà del secolo scorso, poiché, assumendo lo sguardo dell’autorevole sociologo Paolo Perulli, ai soggetti sociali classici, sono subentrate delle nuove elitè tecnocratiche ed autoreferenziali, che si raccordano ai divergenti settori della emergente intelligenza generale, quella manodopera creativa ed urbanizzata, cosmopolita e perfettamente integrata nei segmenti produttivi più elevati, ma priva di coscienza autonoma ed incapace di esercitare egemonia. Per contrasto invece, sempre più vaste fasce della popolazione sono scivolate nella condizione di neoplebi eterogenee, escluse dallo spazio del comando, ma mobilitate nella ricerca del consenso da quei settori della classe dirigente, che sofisticamente manipolano i linguaggi populisti della post verità in una logica sovranista ed identitario-securitaria.

In Italia il fenomeno emerge anche dagli esiti delle recenti elezioni, laddove il cosiddetto asse rosso, cioè quello tracciato dalle frecce rosse dell’alta velocità, attraverso le città principali, consegna la vittoria alle forze progressiste, mentre i luoghi della provincia si asserrano intorno al blocco delle destre.

Il documento della Fondazione per la scuola italiana però assume anche due altre valenze significative, poiché da un lato si riverbera sugli scenari inquietanti che si riverseranno sulla scuola pubblica alla luce dell’autonomia differenziata, laddove l’impossibilità di garantire i Lep, destrutturerà l’articolo 3 della Costituzione, cioè quel dispositivo centrale nel nostro assetto democratico, che impone di «rimuovere gli ostacoli…che impediscono il pieno sviluppo della persona». Anche perchè verrà a mancare una prospettiva collettiva unitaria di soggettivazione civile, un piano nazionale di costruzione egualitaria della cittadinanza. Ciò ridurrà sempre più l’azione del pubblico, ed esporrà ad un’atomizzazione della coesione sociale, in un’ottica di anomia individuale, in cui i soggetti più vulnerabili, cioè la maggioranza impoverita, soggiacerà ad un asservimento totale a quelle logiche prefigurate dal manifesto programmatico di Valditara e company, (tra l’altro colossi implicati nella produzione e vendita di ordigni bellici, nello sfruttamento di risorse fossili, nella riproposizione di sistemi di mobilità e di occupazione dei territori, altamente inquinanti) che prevede la compartimentazione dei percorsi formativi, con la misurazione dei traguardi raggiunti lungo tutto il processo, per una compatibilità alle esigenze gerarchizzante della loro messa a valore.

Dall’altro, come se non bastasse, l’intervento così pervasivo di attori economici, comporta anche un riassetto egemonico, che fa della cultura un luogo del disciplinamento, non solo rispetto alle linee di sviluppo del capitale, ma anche come momento di pressione ideologica necessaria a creare una mentalità diffusa e subalterna, incapace di strutturare, attraverso la costruzione di un pensiero critico, un dissenso ontologico al modello unico. Maurizio Ferraris parla infatti di ontologia della trasformazione digitale, citando non a caso il rapporto dialettico servo-padrone, in cui la novità è l’assenza di controllo del processo in atto. Ciò a maggior ragione esercita una sua problematica laddove la funzione del sapere si intreccia sempre più con le articolazioni espansive di quei particolari costrutti tecnologici, che sono le IA, le quali hanno bisogno proprio di una accurata riflessione sul senso da attribuire alla riproduzione del ragionamento razionale e più in generale alla complessità dei processi di apprendimento. Dibattito di cui si sente una totale latenza nel mondo della scuola, prono a disporsi all’assuefatta declinazione dei linguaggi tecnologici.

Antonio Gramsci, allora, sembra rispondere alle nostre smarrite inquietudini, con la sua riflessione, risalente a circa un secolo fa, quando affermava che «la cultura è una cosa ben diversa. È organizzazione, disciplina del proprio io interiore, è presa di possesso della propria personalità, è conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti e i propri doveri». Non vi è margine di ambiguità in queste parole, che propongono una direttrice emancipatoria del sapere, orizzontale, comune. La soggettivazione attiva non può prescindere dall’appropriazione personale di quei meccanismi che aiutano il dialogo formativo orientato per sua natura epistemica a sottrarre ciascuno alle precondizioni dello sfruttamento. È necessario ripartire da una rifondazione della conoscenza che rifletta l’istanza di fondo che minaccia la tenuta democratica delle nostre istituzioni.

“Insegnare che cos’è conoscere”, questo disponeva quasi come suo lascito testamentario Simone Weil: è da qui che bisogna ripartire in un grosso confronto pubblico sul senso da attribuire all’orizzonte politico pedagogico, che vogliamo perseguire, se davvero vogliamo dare seguito al mandato costituzionale. Respingendo con tutte le energie possibili questi scenari abitati da fantocci che nella guerra e nel dominio vedono il solo spiraglio perseguibile, per la propria inessenziale, quanto superficiale brama di sopravvivenza.

L’autore: Marco Cosentina è insegnante di scuola superiore a Reggio Emilia

Mes, il gioco pericoloso del governo Meloni

La Commissione dell’Unione europea ha avviato la procedura di infrazione per eccesso di deficit, quando esso è superiore al 3% del Prodotto interno lordo annuo. La decisione riguarda sette Paesi dell’Unione: Belgio, Francia, Italia, Ungheria, Malta, Polonia e Slovacchia. Paesi che si aggiungono alla Romania, già ammonita nel 2020, e che non ha ancora corretto la propria posizione.
In corrispondenza temporale con l’avvio di queste procedure si è riaperto il contenzioso che riguarda la ratifica definitiva della riforma del Mes.
Ma di cosa si tratta? Il Mes, ossia il Meccanismo europeo di stabilità, è uno strumento nato nel 2012 con l’obiettivo di offrire sostegno ai Paesi dell’area dell’euro che si trovino ad affrontare crisi finanziarie. La riforma è stata approvata da tutti i Paesi dell’Unione tranne che dall’Italia, e con essa si sono introdotti due cambiamenti principali.
Primo: lo strumento definito Fondo di risoluzione unico, che ha la funzione di assicurare sostegno agli istituti bancari in difficoltà. Con una disponibilità di circa 77 miliardi di euro, il Fondo garantirebbe la protezione dei conti dei correntisti delle banche in crisi, salvando i loro risparmi.
In secondo luogo, la riforma prevede un ruolo operativo più efficace del Mes stesso nella gestione delle crisi e del processo di erogazione dell’assistenza finanziaria. In sostanza, il Mes opererebbe a fianco della Commissione europea, senza sostituirsi ad essa, con un processo di cooperazione tra queste due istituzioni che deve essere oggetto di un accordo specifico. Insomma, in parole povere, evitando che i vituperati “burocrati di Bruxelles”, figura tanto cara a Salvini, si sostituiscano al ruolo delle istituzioni politiche. Cosa c’è dunque di male nel Mes? In sintesi, nulla.
Il famoso “effetto stigma” evocato dalla destra italiana per giustificare la mancata ratifica, non esiste, perché sottoscrivere la riforma non corrisponde all’obbligo di “sottomettersi” al ruolo del Mes. Esso può essere attivato solo su richiesta del Paese che si trovi in una condizione critica e con il beneplacito degli altri.
Viene il dubbio, invece, che oggi il governo Meloni possa utilizzare la trattativa sulla ratifica, in pratica un atto dovuto, come strumento di pressione per ottenere dagli altri Paesi posizioni e ruoli di maggior rilievo nelle future istituzioni europee che sono il risultato del voto del 9 giugno. Un gioco pericoloso che, invece, rischia di irritare gli altri partner dell’Unione. Diceva qualcuno “molti nemici, molto onore”. La storia ha ampiamente dimostrato quanto avesse torto.

IL FERMAGLIO di Cesare Damiano, già sindacalista e parlamentare in tre legislature, è stato ministro del Lavoro ed è presidente dell’associazione Lavoro & Welfare

Ora il nemico sono i ballottaggi. E viene quasi da ridere solo a scriverlo

La malsana idea di dare colpa alla legge elettorale dopo una sconfitta sembra prendere piede nei partiti di maggioranza. Non li sfiora il dubbio che portarsi via il pallone perché la partita non va come vorrebbero sia un atteggiamento infantile più adatto a una rissa da cortile che al governo di una nazione. 

Leggendo i giornali di stamattina si viene a sapere che la Lega di Matteo Salvini (praticamente scomparso dopo la batosta delle europee) vorrebbe accelerare per cambiare le regole dei ballottaggi nelle elezioni amministrative addirittura in estate. 

La concentrazione è dedicata allo strumento legislativo da usare. Nella Lega temono che il Tuel (il testo unico degli enti locali) vedrà la luce troppo tardi per soddisfare la pancia degli elettori che vogliono risposte immediate per avere la sensazione della forza pronta dell’esecutivo. Qualcuno vorrebbe infilare l’abolizione dei ballottaggi sulla legge che resusciterà le province. Qualcuno vorrebbe un bel decreto cotto durante il Consiglio dei ministri, magari intestandolo proprio a Salvini che ha bisogno di tornare redivivo. 

L’agenda delle preoccupazioni dei leader di governo insomma è intasata da come disarticolare le dinamiche elettorali che sfavoriscono i propri candidati. Scomparse dai radar le piaghe dello sfruttamento nei campi e dei morti sul lavoro. Scomparsa l’Europa brutta e cattiva che andava rovesciata (Meloni tratta per elemosinare uno strapuntino). Scomparse le altre decine di allarmi che dalle parti di Palazzo Chigi durano giusto qualche ora come arma di distrazione.

Ora il nemico sono i ballottaggi. E viene quasi da ridere solo a scriverlo. 

Buon mercoledì. 

Nella foto: La presidente del Consiglio Meloni e il presidente del Senato La Russa, Roma, 25 aprile 2023 (governo.it)

Öcalan sempre più isolato nel carcere turco. Appello al Comitato europeo per la prevenzione della tortura

La sorte del presidente Abdullah (Apo) Öcalan riguarda molto da vicino le responsabilità del nostro Paese, dove giunse in fuga dalla Turchia in quanto accusato, da leader del Partito dei lavoratori curdi (Pkk), di attività separatista. Il reato, considerato terrorismo non solo in Turchia, era allora punito con la pena di morte; per tale ragione dopo essere arrivato nel novembre 1998 a Roma, il governo italiano non poteva estradarlo ma, sia per i tempi allora necessari alla magistratura che per le pressioni ricevute, non poteva concedergli asilo politico. La storia poi è nota: Öcalan venne mandato in Kenia, dove, all’aeroporto di Nairobi venne preso in consegna da ufficiali dei servizi turchi che lo riportarono al Paese di provenienza. Era il 15 febbraio 1999. Da allora è rinchiuso nell’isola carcere di Imrali. Öcalan ha passato gran parte degli anni in isolamento, ha evitato la pena capitale ma è sepolto vivo in una cella. Tutto quanto gli è accaduto finora, viola la totalità delle norme del diritto internazionale che la Turchia, in quanto Stato membro dal 1949 del Consiglio d’Europa, l’organizzazione per i diritti umani, dovrebbe rispettare. E non è bastato nemmeno il fatto che sin da prima della sua cattura, il presidente kurdo abbia lanciato proposte per una soluzione pacifica del conflitto nell’area che non si è mai interrotto, ideando la proposta di un “confederalismo democratico”, in grado di superare ogni forma di nazionalismo e di separazione etnica.

Venticinque anni dopo la sua cattura,  il 3 maggio scorso, gli avvocati di Öcalan hanno ricevuto un ulteriore divieto di accesso al loro cliente, che si trova da 38 mesi in condizioni di isolamento assoluto, in violazione del diritto umanitario internazionale. I ripetuti divieti imposti dall’amministrazione carceraria turca sono considerati arbitrari, gli appelli vengono sistematicamente respinti. Non si hanno più notizie di Öcalan da quando ha potuto avere una breve conversazione telefonica con il fratello, avvenuta il 25 marzo 2022. Nonostante le continue preoccupazioni per la sua salute, a Öcalan e ad altri tre prigionieri, Ömer Hayri Konar, Veysi Aktaş e Hamili Yıldırım, è stato imposto un ulteriore divieto di visita da parte degli avvocati per sei mesi.
Gli avvocati dello studio Asrin, che seguono da anni la vicenda, avevano presentato una ulteriore richiesta per incontrare i loro assistiti. «Il 3 maggio siamo stati informati di un nuovo divieto di visite di sei mesi per i nostri clienti. La decisione non è stata motivata». Questa la secca risposta. Un nuovo tentativo li ha portati a rivolgersi alla Corte costituzionale turca, ma le speranze di una risposta diversa sono esigue. Si tratta della tredicesima volta, negli ultimi 8 anni, che per Abdullah Öcalan giunge la stessa risposta. Dal febbraio 2018, tali divieti vengono rinnovati ogni sei mesi e riguardano anche i familiari. Nell’ottobre del 2023 è stata lanciata, a livello internazionale, una campagna per la sua liberazione evidenziando come questa sia fondamentale anche per avviare un generale processo di pace nell’area, che comprende anche Siria, Iraq e Iran, in cui sono forti le presenze curde.
In passato ci sono state numerose visite in Turchia, in particolare ad Imrali, da parte del Comitato per la prevenzione della tortura (Cpt). In un rapporto pubblicato nel 2018 ma relativo al 2016, emergevano miglioramenti nella detenzione nel carcere dell’isola ma non per quanto riguardava la progionia del presidente curdo. Ancora non si hanno i risultati della visita effettuata nel 2023. Intanto anche ricordare o riprodurre l’immagine di Öcalan e delle bandiere curde o del Pkk è vietato, in tutto il mondo. Nel 2002 il Consiglio d’Europa aveva inserito tale partito e il suo leader, nella black list delle organizzazioni terroristiche, nel 2018, a seguito di esposti, la Corte di Giustizia europea aveva ritenuto di non avere motivazioni valide per tale provvedimento eppure il PKK è ancora nella black list. Le principali piattaforme social, se si inseriscono nei propri post, o profili, foto del presidente, testi in cui se ne parla, video in solidarietà con lui, portano a veder bannati temporaneamente i propri spazi.
Nelle settimane scorse, un gruppo italiano di attivisti, esponenti politici e rappresentanti di movimenti sociali, artisti ed intellettuali, ha inviato una missiva al presidente del Comitato per la prevenzione della tortura, Alan Mitchell. L’iniziativa è partita dal Comitato “Il tempo è arrivato, Libertà per Öcalan”, di cui è presidente Giovanni Russo Spena. Riportiamo a seguire il testo della lettera che ha ricevuto numerose e importanti adesioni.

Egregio Dr. Mitchell,
a nome del comitato “Il tempo è arrivato, Libertà per Öcalan”, Le scriviamo con un appello urgente che richiede la Sua immediata considerazione.
Il nostro comitato coordina le attività che si svolgono in Italia sul tema della liberazione di Abdullah Öcalan, sulla base di una raccolta di firme che ha ricevuto adesione da parte di migliaia di associazioni, movimenti, politici, organizzazioni sindacali, sindaci, intellettuali e artisti.
Il nostro impegno istituzionale si è concretizzato nella presentazione di diverse mozioni e interrogazioni presso la Camera dei Deputati e il Senato della Repubblica italiana. Nonché nel conferimento della cittadinanza onoraria ad Abdullah Öcalan da parte di 17 comuni italiani, iniziativa da noi promossa. Sul piano legale, giuristi e avvocati parte del comitato sostengono l’applicazione della sentenza emanata dalla seconda sezione civile del Tribunale di Roma, in cui è stato riconosciuto il diritto di Öcalan all’asilo politico in Italia in base all’articolo 10 della Costituzione.
Negli ultimi 38 mesi, il leader curdo Abdullah Öcalan, considerato da milioni di curdi come il loro legittimo rappresentante politico, è stato detenuto in una forma estrema di incommunicado dallo Stato turco sull’isola-prigione di Imrali. Durante questo isolamento illegale e disumano, Öcalan è stato fatto “sparire” e gettato nel vuoto della “non esistenza”, mentre gli è stato negato ogni contatto con il mondo esterno, compresi i suoi avvocati e la sua famiglia. In questo periodo, la Turchia ha cercato di trasformare l’isola di Imrali in una “bara galleggiante”. Öcalan, che oggi ha 75 anni, è stato sottoposto a crudeli torture attraverso l’isolamento per 25 anni e negli ultimi tre anni non sono state fornite informazioni sulla sua salute, rendendo a questo punto impossibile verificare la sua posizione e le sue condizioni fisiche, il che rappresenta una questione molto delicata per molti curdi che vedono in lui l’incarnazione della loro voce nazionale.
Per questo motivo chiediamo gentilmente a voi, il Cpt, di agire. In qualità di Cpt, avete il diritto di visitare tutti i luoghi di detenzione degli Stati che aderiscono alla Convenzione, compresa la Turchia. Questo vi consente di inviare il vostro team di esperti a Imrali, dove il governo turco deve garantirvi un accesso illimitato per visitare il luogo in cui Öcalan è tenuto prigioniero e permettervi di intervistarlo in privato in modo che possa comunicare liberamente con voi.
Vorremmo che il Cpt agisse in conformità con l’articolo 3 dello Statuto del CdE, che afferma che: “Ogni membro del Consiglio d’Europa deve accettare i principi dello stato di diritto e il godimento dei diritti umani e delle libertà fondamentali da parte di tutte le persone che rientrano nella sua giurisdizione”. Öcalan è cittadino di uno Stato membro del CdE che da due decenni e mezzo gli nega i diritti umani e da tre anni lo priva del diritto di incontrare i suoi avvocati e di parlare con la sua famiglia.
Vi chiediamo solo, con assoluta sincerità, di inviare immediatamente una delegazione a visitare l’isola di Imrali per parlare con il signor Öcalan e verificare il suo stato di salute. In seguito, le saremmo molto grati se potesse incoraggiare la Turchia a permettergli di ricevere la visita della sua famiglia e dei suoi avvocati, in modo da rispettare gli obblighi del CdE e del Cpt. Ciò contribuirebbe a risolvere un problema urgente di diritti umani e di preoccupazione per milioni di curdi e potrebbe anche rinnovare lo spirito di riconciliazione, necessario per trovare una soluzione pacifica alla questione curda in Turchia.
Con gratitudine per il vostro tempo e con la speranza che riceviate questo come un accorato appello,
Comitato “Il tempo è arrivato, Libertà per Öcalan”.
[email protected]

Nella foto: manifestazione per Ocalan, 14 ottobre 2019, (Jan Maximilian Gerlach)

Assange è libero

Julian Assange è libero. Ha lasciato il carcere di massima sicurezza di Belmarsh dopo avervi trascorso 1901 giorni. Gli è stata concessa la libertà su cauzione dall’Alta Corte di Londra ed è stato rilasciato nel pomeriggio all’aeroporto di Stansted, dove si è imbarcato su un aereo ed è partito dal Regno Unito.

“Questo è il risultato di una campagna globale – scrive Wikileaks – che ha coinvolto organizzatori di base, attivisti per la libertà di stampa, legislatori e leader di tutto lo spettro politico, fino alle Nazioni Unite. Ciò ha creato lo spazio per un lungo periodo di negoziati con il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti, che ha portato a un accordo che non è stato ancora formalmente finalizzato. Forniremo maggiori informazioni il prima possibile”. 

Dopo più di cinque anni in una cella di 2×3 metri, isolato 23 ore al giorno, presto si riunirà alla moglie Stella Assange e ai loro figli, che hanno conosciuto il padre solo da dietro le sbarre. WikiLeaks ha pubblicato storie rivoluzionarie di corruzione governativa e violazioni dei diritti umani, ritenendo i potenti responsabili delle loro azioni. In qualità di caporedattore, Julian ha pagato duramente per questi principi e per il diritto delle persone a sapere.

Ci sarà sempre una ragione di Stato per silenziare le voci scomode al potere. Talvolta c’è anche una legge scritta apposta per garantire impunità. Ci sarà sempre anche chi, per fortuna, ritiene il giornalismo come cane da guardia del potere e continuerà a scrivere e a pubblicare.

Buon martedì. 

Nella foto: Julian Assange all’ambasciata dell’Ecuador, 2014 (David G. Silvers)