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Ha detto tutto lui

«Non si può ricorrere a semplificazioni di sistema o a restrizioni di diritti “in nome del dovere di governare”. Una democrazia “della maggioranza” sarebbe una insanabile contraddizione». Non ci gira tropo intorno il presidente della Repubblica parlando a Trieste e puntualizzando cosa sia la democrazia (parlamentare) e la Costituzione. 

«La democrazia come forma di governo – ha detto Mattarella – non basta a garantire in misura completa la tutela dei diritti e delle libertà: può essere distorta e violentata nella pretesa di beni superiori o utilità comuni. Il Novecento ce lo ricorda e ammonisce». Per questo il capo dello Stato invita a non confondere la «volontà generale» con quella di una maggioranza che si considera «come rappresentativa della volontà di tutto il popolo».

Mattarella pronuncia «un fermo no all’assolutismo di Stato, a un’autorità senza limite, potenzialmente prevaricatrice». «La coscienza dei limiti è un fattore imprescindibile di leale e irrinunziabile vitalità democratica». Per questo sono necessari «limiti alle decisioni della maggioranza che non possano violare i diritti delle minoranze».

Le parole che arrivano dal Quirinale si sovrappongono alle critiche verso la riforma del premierato fortemente voluta da Giorgia Meloni e dalla sua maggioranza. Mattarella parla anche della necessità di evitare che il «principio “un uomo-un voto” venga distorto attraverso marchingegni che alterino la rappresentatività e la volontà degli elettori». Queste invece sono all’indirizzo della ministra per le riforme Casellati che negli ultimi giorni spinge per una legge elettorale ancora più maggioritaria. 

Mi pare che ci sia tutto. Buon giovedì. 

Nella foto: il presidente Mattarella a Trieste, frame video, 3 luglio 2024

Contro il patto fra postfascisti e neoliberisti. In Francia come in Italia

È difficile comprendere cosa abbia spinto Macron a sciogliere l’assemblea e a indire elezioni anticipate sull’onda dell’affermazione della Le Pen alle elezioni europee. Intendeva spezzare il fronte delle sinistre e finire di distruggere le forze della destra tradizionale, proponendo per l’ennesima volta sé stesso come argine alla destra estrema? Vuole consegnare il governo al Rassemblement National per dimostrare ai francesi che non è in grado di governare e scongiurare così la vittoria della Le Pen alle prossime elezioni presidenziali? Oppure è stato un colpo di testa di un personaggio privo di capacità politiche e di un partito con cui consultarsi?

Altrettanto difficile è comprendere cosa abbia spinto Enrico Letta a consegnare il governo del paese a Giorgia Meloni. Sì, perché la scelta di perdere è stata sua. Il mandato di Letta come segretario del Pd – dopo le dimissioni di Zingaretti e senza il passaggio delle primarie – è si è svolto in parallelo a quello di Draghi alla presidenza del consiglio. Nella tornata elettorale del 2022 Letta ha poi scelto di non cercare l’accordo con il Movimento 5 Stelle perché Conte avrebbe provocato la caduta del governo Draghi, aprendo però all’alleanza con Sinistra italiana che, giustamente, quel governo non aveva mai sostenuto. Strana dissociazione: no all’accordo, con una forza politica con cui il Pd aveva governato dal settembre 2019 all’ottobre del 2022, anni segnati peraltro dai terribili frangenti della pandemia, sì all’alleanza con un partito che al governo Draghi si era coerentemente opposto. Queste scelte non possono essere derubricate a errori di valutazione.

L’affermazione della Meloni, viste le scelte del Pd, era inevitabile. È legittimo fare qualche ipotesi: Macron e Letta, pur avendo alle spalle percorsi ben diversi, sono espressione di quegli ambienti neoliberalisti che dominano l’Europa da decenni. Macron prima di entrare in politica lavorava in una banca di investimento dei Rothschild, per la quale, in particolare, portò a temine un’importante trattativa tra la Nestlé e la Pfizer con cui è diventato milionario. Pur presentandosi con le vesti del nuovo, Macron è espressione di quel sistema neoliberale, dominato dai grandi gruppi finanziari, che versa in gravi difficoltà. Il suo progetto era chiaro: la Francia avrebbe dovuto superare quella contrapposizione tra destra e sinistra che ostacolava la realizzazione di alcune riforme neoliberali, in particolare la riforma delle pensioni, del mercato del lavoro e la riduzione delle tasse per i più ricchi. Quel progetto, portato avanti da Macron con determinazione, ha alimentato la protesta sociale e gettato il Paese nell’instabilità politica.

In Italia, con la nomina di Letta alla segreteria del Pd, il sistema dei partiti che sosteneva l’ordine neoliberale era già in fase terminale. Per dar vita al governo Draghi, fortemente voluto da Letta e dal Quirinale, fu infatti necessario l’apporto di quasi tutte le forze politiche. Letta ha portato a compimento la liquidazione del Movimento 5 Stelle – liquidazione che è stata la cifra della passata legislatura -, ha sostenuto Draghi, e infine, assieme a quest’ultimo, ha consegnato il paese ai neofascisti della Meloni. Piuttosto che avere circa un terzo dei consensi per il Movimento 5 Stelle, come fu nella passata legislatura, ora lo abbiamo per la Meloni. Perché?
Il filo conduttore delle vicende che hanno consegnato l’Italia, e che rischiano di consegnare la Francia, a due forze politiche che hanno le loro radici nel fascismo, va ricercato nella profondissima crisi in cui versa l’ordine neoliberale, crisi che ha evidenti ripercussioni sulla stabilità politica, non solo di Italia e Francia, ma di molti altri paesi occidentali. L’ipotesi da considerare è che questa crisi, in Italia e Francia, possa generare una saldatura tra l’estrema destra e alcuni centri di potere neoliberali. Impressionante è peraltro il parallelismo tra l’opera di delegittimazione, e talvolta di vero e proprio linciaggio, operata da parte dei grandi media contro il Movimento 5 Stelle, e quella che subiscono quotidianamente, da anni, Mélenchon e La France Insoumise.

L’alleanza tra fascismo e potere economico e finanziario non sarebbe certo una novità. Come ci insegna la storia degli anni Venti e Trenta del secolo scorso, infatti, il fascismo non nacque solo grazie alle violenze esercitate da bande di delinquenti che bruciavano le case del popolo, picchiavano gli oppositori ed eliminavano ogni dissenso, ma ha usufruito anche dell’appoggio di intellettuali come Pareto, Einaudi, Croce – che fino all’assassinio di Matteotti appoggiò Mussolini -, degli agrari, della grande industria e della Casa Savoia. In Germania Hitler ha ricevuto ingenti finanziamenti da colossi industriali come la I. G. Farben, la A. E. G. (German General Electric), la Ford e tante altre società, anche statunitensi, che vedevano compromessi i propri affari dal caos in cui era precipitato il paese dopo la guerra e la crisi del 1929. L’obiettivo dell’industria e della finanza è salvaguardare gli affari, e quando questo obiettivo è messo a repentaglio dall’instabilità politica e dalla protesta sociale, la loro è una scelta obbligata: non si lascia spazio a forze radicate nella società, piuttosto si punta su chi promette di ristabilire l’ordine e la disciplina e che al proprio interno riproduce la gerarchia dittatoriale che impone alla società. Per essi l’esercizio delle libertà politiche, i percorsi, i tempi e i compromessi della democrazia non sono valori fondanti che possano ostacolare il perseguimento del massimo profitto. Per questo una vera democrazia non può funzionare in presenza di poteri economici più forti dei governi, conflitti di interessi, porte girevoli e globalizzazione economica e finanziaria.
È chiaro che una cura della crisi che veda l’esercizio del potere politico da parte dell’estrema destra è peggio della malattia. Superfluo ricordare i disastri provocati dall’ascesa in Europa di fascismo, nazismo e nazionalismo. Pur essendo utile uno sguardo alle composizioni sociali che hanno portato alle peggiori tragedie europee, non possiamo prevedere quali sviluppi si avranno in Italia e in Francia nel prossimo futuro. La Meloni ha offerto garanzie e, a differenza di quel che tende a fare Salvini, ha scelto di mantenere un basso profilo nel conflitto che in Europa vede il suo gruppo di appartenenza, i conservatori, contrapposto alla maggioranza costituita da liberali, socialisti-democratici e popolari.

Marine Le Pen, nello sforzo di giungere al governo del Paese, cerca di differenziarsi da quelle forze più apertamente razziste e xenofobe, come Reconquête, il partito di Zemmour. Ma come potrà cambiare il quadro ove quell’estrema destra che affonda le sue radici nel fascismo dovesse trovarsi saldamente al governo sia in Italia sia in Francia? E se a novembre Donald Trump dovesse sconfiggere Biden, che ripercussioni si avrebbero in Europa?
Osserviamo in grandi linee l’evoluzione politica che si è registrata in Italia e Francia. Il sistema neoliberale era garantito da due poli (destra e sinistra) che si alternavano al potere aderendo nella sostanza allo stesso modello economico. Dopo il crollo finanziario del 2008 e la crisi del debito europeo del 2010, da un lato l’ordine neoliberale richiedeva riforme più radicali per sostenersi, dall’altro, a causa delle proteste sociali, questi due raggruppamenti sono stati sempre più incalzati da forze che in vario modo tentavano di interpretare un malcontento sempre più diffuso. Oggi la destra e la sinistra tradizionali, neanche alleandosi tra loro sono in grado di raggiungere la maggioranza dei consensi.
In Italia la sinistra da tempo si è fatta garante del neoliberismo, uscendone a pezzi, mentre Macron ha tentato di sfruttare l’avversione dei francesi verso il partito della Le Pen per portare avanti la riforma neoliberale della società, che ancora non aveva agito con sufficiente radicalità. Ormai però, tra pandemia, guerre, trasformazioni digitali e ingiustificati arricchimenti, il progetto neoliberale sta perdendo la sua capacità egemonica. L’ipotesi da tenere in conto è che, col diffondersi del malcontento, i termini dello scontro si vadano modificando: non più tra i cosiddetti populisti e i tecnocrati neoliberali alleati a spezzoni delle vecchie forze politiche, ma tra chi, con enormi difficoltà, vuole affrontare il tema del superamento dell’ordine neoliberale, e quei tecnocrati che vogliono salvarlo cercando l’alleanza con i neofascisti. La battaglia che si sta svolgendo in Francia sarà decisiva per tutti noi.

L’autore: Già docente di economia politica, Andrea ventura è autore di numerosi saggi, fra i quali Il flagello del neoliberismo (L’Asino d’oro edizioni)

Léa Katharina Meier e l’arte di liberarsi della vergogna

Léa Katharina Meier è un’artista svizzera multidisciplinare che sta concludendo dieci mesi di residenza presso l’Istituto svizzero di Roma. La sua pratica varia dalla performance ai tessuti, dal disegno alla scrittura. Ha esposto il suo lavoro in diversi teatri e spazi artistici e nel 2021 ha vinto il Premio della giuria e il Premio del pubblico allo Swiss Performance Award con lo spettacolo Tous les sexes tombent du ciel. La incontro a Roma in un pomeriggio di giugno, in vista dell’undicesima edizione di Bande de Femmes, il festival di fumetto e illustrazione organizzato dalla Libreria femminista Tuba, che si tiene fino al 6 luglio. Meier partecipa attraverso l’esposizione di alcuni suoi nuovi disegni, di un fanzine con una fiaba legata al suo ultimo progetto e con una pubblicazione intitolata Jour de Fête.
Nella tua attività artistica ti occupi delle nozioni di vergogna, sporcizia e pulizia. Da cosa nasce il tuo interesse per questi temi?
Sono legati alla mia storia personale. Intendo questi concetti sia in un senso materiale, come pulizia delle strade o dei corpi, sia a un livello più metaforico, ad esempio in riferimento ai nostri desideri o al rapporto con l’autorità. Anche per la mia storia familiare ho visto come talvolta le persone che hanno delle dipendenze o altri disturbi vengano considerate come “sporche” in un certo senso. Questo per me è stato importante per comprendere meglio anche le costruzioni sociali della classe, del razzismo, della sessualità e del genere. Penso che il mio interesse nasca da questo: dalla volontà di capire come la società tenda a normalizzare anche con la narrativa di ciò che è sporco e di ciò che non lo è.
Hai scelto di proseguire la tua ricerca in Italia anche perché volevi approfondire queste nozioni in un contesto segnato dal fascismo e dalla presenza del cristianesimo. Sei andata avanti in questa direzione?
Quando sono arrivata qui avevo in mente di continuare una ricerca che avevo cominciato in Brasile sull’igiene e la pulizia nella politica e su come questo è stato usato durante il colonialismo, perché stavo portando avanti una ricerca sul passato coloniale della Svizzera. Avevo pensato che qui a Roma sarebbe stato interessante continuare questo lavoro. Ma piuttosto che su queste tematiche ho avuto voglia di lavorare sulla vergogna, una tematica molto presente nel mio lavoro, che si lega alla pratica performativa tipica del clown.
Come stai lavorando su questo?
Mi sono interrogata su come sviluppare una pratica collettiva della vergogna. All’inizio di maggio ho rappresentato il tentativo di una nuova performance, non ancora terminata, e devo dire che per me è stato molto interessante e bello vedere la ricezione del pubblico in Italia. Ho avuto la percezione che ci fosse una reticenza forse più ampia rispetto a quella cui sono abituata, forse a causa del cattolicesimo. La regione in cui sono cresciuta in Svizzera è protestante, e questa è già una grande differenza. Personalmente, cerco di provocare un sentimento non solo di vergogna, ma anche di ilarità e giubilo, perché credo che la vergogna in pubblico passi anche molto per il riso. Ho trovato una risonanza a questo livello: avere piacere di ridere tutti insieme.
La performance si intitola La grande-biblioteca-bagnata-umida-lubrificata-Vergognosa e l’hai definita una «ricerca testuale e visiva sulla trasformazione della vergogna in giubilo all’interno delle esistenze lesbiche». Perché hai scelto di legare questo tema alle biblioteche e agli archivi?
Nella mia ricerca c’è stato un libro molto importante per me, che si intitola An archive of feelings. Riguarda i lavori di artiste lesbiche che hanno vissuto anche esperienze di violenza sessuale, e come loro le trasformano in loro lavori artistici. Considerare i sentimenti come una specie di archivio, per me, vuol dire porli allo stesso livello del sapere scientifico. E penso che questo nel mio lavoro sia molto importante.
Nel testo della performance c’è anche un riferimento alle storie ignorate e dimenticate.
Sì, per me è importante sviluppare questo tipo di narrativa. Come persona lesbica, penso che le narrazioni lesbiche sono state molto cancellate, e parlo soprattutto di quelle positive. Molto spesso, quando vediamo un film con due donne che hanno una relazione, si tratta di una pellicola drammatica. A me non interessa creare delle utopie in cui tutto è positivo, ma vorrei trasmettere un certo senso della felicità o del piacere.
Come dialogano nella tua pratica artistica le diverse discipline?
Quel che mi interessa creare un mondo immaginario che ha molto a vedere con la fiaba. Per far questo, per me è necessario tanto l’aspetto performativo quanto quello visuale e tattile. Cerco di sviluppare dei lavori che parlino molto coi sentimenti ma anche coi sensi. Nella pratica performativa comincio a volte dai disegni, che magari mostrano un sentimento particolare o un tipo di atmosfera che mi interessa riprodurre nella realtà. Anche la pratica del costume si relaziona con l’illustrazione, perché a volte i costumi provengono dai disegni che ho fatto, oppure realizzo dei grandi disegni sui tessuti.
La scrittura arriva in un momento successivo?
Penso si tratti più di una stratificazione. C’è quasi sempre del testo, ma in genere i disegni vengono prima. Poi c’è la performance, ma torno sempre al testo e al disegno».
Tra il 2018 e il 2019 hai trascorso un periodo a San Paolo per un’altra residenza artistica. Cosa porti con te dell’esperienza brasiliana?
Sono stata diverse volte in Brasile, sia per una residenza sia per lavorare, ma dopo anche solo per andare a trovare degli amici. In Svizzera ho studiato Arti visuali e all’università la prospettiva era molto centrata sull’Europa, sui lavori di uomini cis e persone bianche. C’era una visione molto eurocentrica sull’arte in generale. Quindi per me è stato molto importante trovarmi in Brasile e lavorare con artisti brasiliani, tanto per il mio lavoro artistico quanto per la mia interiorità e lo sviluppo del mio pensiero politico o artistico. Inoltre per me è stato molto interessante, dal momento che pratico anche performance, il fatto che a San Paolo le persone hanno una relazione diversa col corpo e la corporalità.
Chi sono gli artisti che ammiri particolarmente?
Mi piace molto il lavoro di Carol Rama, un’artista italiana che ha realizzato sia sculture sia disegni e pitture. Negli ultimi tempi sono stata ispirata anche da diversi libri, perché il mio lavoro si è incentrato su una ricerca sull’archivio e sul libro non solo come oggetto materiale ma anche come paesaggio per costruire il mondo che sto cercando di sviluppare nel mio lavoro. Ultimamente, gli scritti di Dorothy Allison, Monique Wittig, Toni Morrison o il libro “Tupamadre” di L.Etchart sono stati importanti. A un livello più estetico, penso che sono stata molto impregnata dai film di John Waters, che ha sviluppato un tipo di estetica “sporca” che ha avuto un ruolo nel mio percorso artistico.
Hai sempre disegnato?
Sì. La pratica del disegno per me è corporale e insieme riflessiva. E poi i disegni sono una porta d’entrata nella pratica performativa: mi servono per riflettere sulla scenografia, ma anche sulle atmosfere, sui costumi e tutto il resto.
In che senso il disegno è una pratica del corpo?
Banalmente perché per me è importante fare delle cose con le mani. E poi forse in un certo mondo anche disegnare e creare dei mondi diversi con le mie mani è anche un modo non solo per immetterle nella realtà materiale del mondo ma anche di farle mie, o ingerirle.
Nei tuoi disegni colori molto accesi si contrappongono ai grigi delle scene di città. Giochi su questa contrapposizione?
Sì, certo. Molte volte quando scrivo è sempre una fiaba e le mie fiabe si ambientano sempre in una città. Mi piace vedere le città quasi come dei personaggi. E devo dire che anche le cose grigie della città mi piacciono tanto in generale.
Quale pensi che debba essere il rapporto tra arte e politica?
Dipende molto. Per me avere un’educazione politica è sempre stato importante. Nel contesto in cui ci troviamo oggi, in cui c’è un ritorno dell’estrema destra e che un genocidio è in corso contro la popolazione palestinese, penso che come artist* abbiamo la responsabilità di prendere posizione, ad esempio su un cessate il fuoco definitivo, e mostrare che altri mondi sono possibili. Inoltre, quando lavoro in teatro con molte persone penso sia importante cercare di avere un’atmosfera di lavoro che vada bene per tutte e tutti. Ritengo che anche questo sia politica: scegliere con chi hai voglia di lavorare e in che modo farlo.

L’autrice: Anna Ditta è giornalista e autrice. Maggiori info su www.annaditta.it

Giovanni Mori, attivista per il clima: «I nuovi vertici Ue non affossino il Green deal»

Giovanni Mori, bresciano, classe 1993, è un ingegnere energetico. È un attivista per il clima, divulgatore scientifico, ed è stato portavoce di Fridays for Future Italia nel 2022. Nelle recenti elezioni europee si è candidato nella lista Alleanza Verdi Sinistra (Avs) da indipendente nel collegio nord-ovest, arrivando a sfiorare le ventimila preferenze con una campagna assolutamente low-cost, ma risultando il primo dei non eletti.

Giovanni Mori, candidato Avs (foto dalla sua pagina web)


In molti Paesi membri Ue l’estrema destra ha spopolato e le sinistre sono crollate. In Italia c’è però uno scenario un po’ diverso, il Pd ha avuto un buon risultato, mentre Avs è arrivata a raggiungere inaspettatamente quasi il 7%. Come mai?

In Italia abbiamo già normalizzato l’estrema destra due anni fa, anticipando i tempi, mentre negli altri Paesi europei le formazioni nazionaliste hanno avuto un exploit solo adesso. Fratelli d’Italia è un partito post-fascista che deriva direttamente dal Movimento sociale italiano (Msi) – il suo simbolo contiene la storica fiamma  – e che ci governa esprimendo il presidente del Consiglio dei ministri. Quello a cui stiamo assistendo è forse una parziale risposta allo spostamento netto del baricentro politico: si è andati molto a destra, e adesso molte persone cercano una sinistra più chiara. Alla fine in Italia cento anni fa era successa una cosa simile, in un clima molto polarizzato e in cui i liberali erano l’ago della bilancia che decisero in quel caso di aprire la strada alle forze fasciste. Adesso molti liberali si trovano un po’ schiacciati, almeno in Italia.

 

Da candidato alle europee hai avuto molte preferenze, frutto del tuo impegno ambientalista?

La mia candidatura da indipendente in Alleanza Verdi e sinistra ha pescato tanto nel mondo della militanza per il clima: molte persone sono state entusiaste di poter farsi rappresentare finalmente da un attivista in un’elezione di tale peso. Questa cosa non succedeva da anni. Inoltre, mettere al centro i temi della giustizia sociale e ambientale con alcuni dei protagonisti dei movimenti che da anni sfilavano per le piazze e per le strade chiedendole a gran voce, ha permesso di ottenere un buon consenso e di poter ambire alla rappresentazione politica di tutta questa galassia. Anche se bisogna ricordare una cosa importante.

Che cosa?

Ha votato meno della metà delle persone, quindi la nostra rappresentanza del 7% è in realtà meno del 3,5% reale. Ci sono ancora praterie in cui andare, composte da persone incredibilmente demotivate dalla politica, alcune irreversibilmente mentre altre per fortuna no. Questo è il primo il primo punto da cui partire. Bene che la sinistra non solo abbia tenuto, ma abbia addirittura rilanciato. Ma c’è ancora tanto lavoro da fare.

I movimenti sociali sono degnamente rappresentati, a livello politico, nel nostro Paese?

Io penso che non siano minimamente rappresentati in questo momento, e nemmeno le loro istanze. È necessaria una rappresentanza in grado di dialogare alla pari e con dignità con la politica, che sappia raccogliere le istanze dal basso ed eventualmente farle proprie. I movimenti sono composti da giovani e giovanissimi, mentre l’età media della politica è molto elevata, e questo crea un grosso divario e molte incomprensioni. Faccio un esempio: io sono un ingegnere energetico, vivo in prima persona le problematiche della transizione ecologica, ma solo grazie all’esperienza nei FFF ho capito l’importanza delle questioni sociali. Per molti di noi è impossibile scindere la questione ambientale con quella sociale, i “Verdi” da “Sinistra”.

Insomma, non vi sentite pienamente rappresentati?

Quel poco di rappresentanza che c’è non è ancora riuscita a intercettare i linguaggi, le forme e le domande di questi movimenti. È stato molto frustrante, da portavoce di FFF al tempo, interfacciarsi e dialogare con alcune forze politiche, in alcuni casi molto diverse tra loro, che provavano a raccogliere tali istanze. Mi è sempre sembrato molto chiaro in quei dialoghi che non avessero la cassetta degli attrezzi per capire quanto rapidamente debba cambiare il mondo.

È per questo che ti sei candidato?

La mia candidatura deriva da quella frustrazione, dal fatto che non vedevo politici che, sia in buona fede sia soprattutto in cattiva fede, potessero portare un linguaggio che sapesse parlare a questo pubblico ampio e interpretare le istanze di cambiamento.
Il nostro governo spesso ha attaccato il mondo dei movimenti per la giustizia climatica, e sembra non aver molto a cuore la questione dei cambiamenti climatici. Per fare un esempio, durante l’approvazione della direttiva Case green avvenuta lo scorso aprile in Consiglio Ue, l’Italia è stato uno dei due Paesi – insieme all’Ungheria di Viktor Orbán – a bocciare il provvedimento.

Pensi che il nostro esecutivo sia ideologicamente “negazionista”?

Oramai essere negazionisti e negare tout court la crisi climatica è essere fuori dalla storia, oramai è evidente a tutti che una forte accelerazione dei cambiamenti climatici è in corso. A mio parere, siamo allo step successivo: si ammette l’esistenza della crisi climatica ma si avanzano dubbi circa la sua origine antropica, si additano i cinesi come principali colpevoli, si punta molto sulla disinformazione e sul semplicismo. Alcuni scienziati e attivisti hanno coniato i termini “inattivismo” o “dilazionismo”. Certo, quello che conta è che alcune forze politiche sminuiscano gli effetti e soprattutto le cause fossili dei cambiamenti climatici. In molti altri Stati europei il tema dell’emergenza climatica è, a livello mediatico e di dibattito pubblico molto presente – dai Paesi Bassi alla Germania, dalla Francia al Regno Unito, dove persino il conservatore Boris Johnson da sindaco di Londra aveva promosso il bike sharing e da primo ministro parlava apertamente di apocalisse climatica. In Italia il livello del dibattito è imbarazzante.

Siamo messi davvero male?

La destra italiana è non solo negazionista, ma ostacola attivamente la transizione energetica ed ecologica: prova a bloccare le energie rinnovabili, in Europa aveva tentato di boicottare la Direttiva sulla restaurazione della natura si oppone alle Case green. I sovranisti nostrani sono ideologici, si oppongono a priori ai provvedimenti green, lo sappiamo bene. È davvero tremendo che l’Italia, come Paese fondatore della Ue, tratti “al ribasso” su questi temi cruciali. Senza contare che questo atteggiamento ci isola completamente dal resto dell’Unione europea e del mondo: così facendo ci autoemarginiamo da ogni filiera industriale all’avanguardia che conterà nei prossimi anni nell’ambito della transizione ecologica, dall’automotive al settore delle costruzioni. E in questo modo si stanno facendo dei danni che noi vedremo nei prossimi decenni.

Abbiamo parlato di costruzioni. La direttiva Case green prescrive di decarbonizzare il nostro parco edilizio al 2050. Secondo te è fattibile?

C’è il tema degli edifici di nuova costruzione, che dovranno già essere Nzeb – quasi a zero emissioni. C’è poi quello più importante della deep renovation del costruito. Attualmente stiamo rigenerando il parco edilizio ad un tasso dell’1% annuo. Numeri alla mano, si capisce bene che, se dobbiamo arrivare al 100% entro il 2050, dovremmo circa triplicare questo indice. Il Superbonus ha accelerato molto: in un anno abbiamo riqualificato il 5% degli edifici. Allo stesso tempo il 110% ha accelerato la transizione energetica del comparto, contribuendo al raggiungimento di circa un terzo dei target Ue al 2030. Tuttavia, non ha portato i benefici sperati perché è stato indirizzato a tutte le fasce sociali mentre invece avrebbe dovuto essere diretto verso determinati soggetti, come le famiglie che vivono in condizione di povertà energetica in condomini vetusti dove c’è molta dispersione energetica.

Ok, ma è fattibile?

È difficile ma non impossibile. Noi in Italia abbiamo una spesa energetica di diverse decine di miliardi all’anno, la maggior parte delle quali servono a scaldare gli edifici con il gas. Accelerare e portare a termine la transizione del comparto degli edifici significa, in termini macroeconomici, spostare soldi dai beni che paghiamo al Qatar o all’Algeria a servizi di gente che lavora in Italia. È ovvio che serve un piano di investimenti senza precedenti – nell’ambito dell’emergenza climatica serve in qualsiasi settore, dall’installazione delle rinnovabili alla trasformazione della mobilità sostenibile. È fattibile farlo ma bisogna cominciare. E serve iniziare con i più deboli, così da far capire concretamente che la transizione non è solo necessaria, ma anche desiderabile in termini economici e in linea con i principi di equità e giustizia sociale, perché permette alle famiglie precarie di abbattere i costi in bolletta.

La prossima legislatura europea su che cosa si dovrà concentrare, a tuo avviso?

Nella scorsa legislatura il Green deal è stato delineato, un po’ timidamente, mentre ora va finanziato. Stiamo parlando di un piano di transizione varato da una maggioranza di centro-destra, più o meno, nel senso che la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, proviene dal Partito popolare, che ben rappresenta il settore delle imprese. Prendiamo come esempio la Politica agricola comune (Pac): gli obiettivi della riforma erano sensati, si andava nella direzione giusta della riduzione dell’impatto ambientale del settore agricolo. Nonostante questo, non c’è stato un trasferimento di risorse rispetto a come i soldi venivano spesi nel bilancio precedente, non c’è stato un cambio di paradigma economico. I soldi sono pochi, il bilancio europeo è solo l’1% del Pil degli Stati membri, non abbiamo un vero e proprio bilancio comune.

Secondo te un bilancio comune aiuterebbe la transizione?

Avere un bilancio e un debito in comune tra tutti i Paesi membri Ue dovrebbe essere uno degli obiettivi della nuova legislatura. Questa è una condizione imprescindibile se vogliamo raggiungere la neutralità climatica ben prima del 2050, perché i settori su cui intervenire sono molteplici: mantenere una manodopera e posti di lavoro di qualità, supportare la transizione ecologica del settore industriale, sviluppare la mobilità elettrica, puntare sulla deep renovation degli edifici, decarbonizzare il settore energetico con le energie rinnovabili. Bisogna dare gambe al Green deal, anziché fare marcia indietro come stava facendo la Commissione von der Leyen nell’ultima fase. Le persone hanno ragione ad essere scettiche nei confronti della transizione, molte persone hanno paura, ma a ragione: è sbagliato ricondurre tutto a “non ho i soldi per comprare l’auto elettrica nuova o per riqualificare la casa” ma servono sicurezze, e mostrare che la transizione significa anche altro, ma che soprattutto non verrà a danneggiare te, persona già fragile.

La scorsa legislatura che si è appena chiusa, è stata diciamo molto prolifica sotto il punto di vista ambientale – tra le altre cose, come ricordavi tu, è stato improntato il Green deal. Secondo te, i movimenti come i FFF quanto hanno contribuito all’adozione del Green deal e degli obiettivi al 2030 al 2050?

I movimenti ambientali ispirati da Greta Thunberg sono stati fondamentali. Penso a Ursula von der Leyen, estratta dal cilindro nel 2019, senza un programma definito né con una maggioranza chiara ha provato a trasformare la legislatura iniziata nel 2019 in una “legislatura ambientale”. Certo, c’è stata la pandemia che ha occupato molto l’azione del Parlamento e della Commissione, ma non dimentichiamo che il Green deal è stato varato a gennaio 2020: la Commissione e la sua presidente hanno ammesso che il tema del quinquennio era il clima. A fine 2019 c’era molta voglia di scendere in piazza per il clima, eravamo molto convinti – almeno noi attivisti – ma questo interesse lo sentivo anche fuori. Ho scritto un articolo sul Fatto quotidiano che diceva: ci servono un miliardo di attivisti per il clima. Certo, era una iperbole, ma ero abbastanza convinto che saremmo stati in grado di contagiare tutti. Probabilmente senza le manifestazioni per il clima non avremmo visto il Green deal europeo così come lo conosciamo, c’è stata una spinta incredibile da parte della società civile. E il Gde è il piano più grande di transizione che c’è al mondo, per quanto incompleto, insufficiente e tante altre cose.

Tanti spin doctor dicono che l’ambiente non porta voti. Secondo te è vero?

Abbiamo incassato quasi ventimila preferenze basandoci molto sul tema della giustizia climatica. Poi, a livello macro, prendere ventimila voti da quelli che convinci è ben diverso da diventare partito di maggioranza. Finora però si è sbagliato completamente la narrazione sul tema: bisogna enfatizzare quanto questo momento sia un’occasione unica per trasformare il mondo in un posto migliore. Io per raccontare la transizione ecologica racconto sempre di quanto ogni settore possa migliorare, in positivo. C’è una metafora secondo me efficace.

Sarebbe?

A me piace molto andare in montagna. Ma se dovessi convincerti a venire con me, cosa sarebbe meglio fare? La prima opzione è dirti: ci metteremo quattro ore, sarà faticosissimo, oltre ogni immaginazione, e rischi pure di farti molto male. E senza nemmeno raccontarti l’obiettivo. Ma si può vedere la cosa sotto un altro punto di vista.

Quale?

Serve mostrare dove possiamo arrivare: posso dire che l’escursione sarà, certamente, nel complesso faticosa, ma che la affronteremo insieme, che non lasciamo indietro nessuno e che una volta arrivati, potremo vedere un panorama splendido e capiremo che ne sarà valsa la pena. Puntare il focus sul percorso collettivo e soprattutto sui risultati è diverso no? Tradotto: pagheremo meno la bolletta, ci emancipiamo dai combustibili fossili e dai dittatori che ce li vendono, possiamo contribuire a costruire un modello di economia migliore, rigenerativo, che combatte le diseguaglianze e si avvale di un mercato del lavoro più umano e di qualità. Se la transizione la raccontiamo così, la gente si convincerà sulla sua necessità e desiderabilità. Ecco, gli spin doctor dovrebbero narrare il cambio di paradigma in questo modo, anziché porre l‘accento su quanto sia faticoso il percorso.

Ultima domanda: il Green deal potrà essere annacquato dopo l’exploit delle destre estreme in Francia e altri Paesi?

Il Green Deal è a rischio, anche se, molto probabilmente, la maggioranza sarà la stessa di prima. I liberali e soprattutto i popolari di centrodestra saranno tentati di annacquarlo per recuperare consenso. Proprio per questo bisogna agire ora e enfatizzare quanto la transizione sia desiderabile dal punto di vista della giustizia sociale, cosa che finora non è stata quasi mai fatta. Per esempio, bisogna ribadire alle persone che non voglio obbligarle a spendere soldi per sostituire l’automobile a benzina con una elettrica. L’obiettivo è aiutare ad abbattere i costi di mantenimento dell’auto. Definitivamente, serve una tassa sui grandi patrimoni che porti risorse da investire sulla transizione in Europa. Anche perché, come sostiene il report Banking on Climate Chaos, dal 2016 al 2023 le 60 più grandi banche al mondo hanno elargito al settore fossile circa 6.900 miliardi di dollari. La politica ha il dovere di capire dove quei soldi invece devono essere indirizzati per non distruggere il pianeta, per non uccidere le persone. Bisogna cambiare tutto, e non c’è troppo tempo.

Quindi ora si dimette La Russa?

«Non c’è spazio, in Fratelli d’Italia, per posizioni razziste o antisemite, come non c’è spazio per i nostalgici dei totalitarismi del ‘900, o per qualsiasi manifestazione di stupido folklore». Scrive così Giorgia Meloni in una lettera ai dirigenti del suo partito, Fratelli d’Italia, in merito all’inchiesta di Fanpage da cui è emersa la fascisteria come brand all’interno di Gioventù nazionale, la formazione giovanile che amata parte ha avuto nell’ascesa della presidente del Consiglio. 

È l’ennesimo cambio di strategia di fronte a un imbarazzo evidente, malvestito, malcelato, simulato. Proprio Meloni aveva gridato al «pericolo democratico» invocando l’intervento del Presidente della Repubblica. Qualcuno le ha fatto notare l’enormità e l’inutilità di quella prima reazione.

A nulla sono serviti i legulei sguinzagliati dalla stampa amica per dimostrarci che il giornalismo sotto copertura sarebbe illegale. «Non c’è alcuno spazio tra le nostre fila per chi recita un copione macchiettistico utile solo al racconto che i nostri avversari vogliono fare di noi», scrive Meloni, rivendicando di avere fatto «i conti con il ventennio». 

Sforzandosi di prendere per autentiche le parole della premier ci si potrebbe immaginare quindi che da questa mattina vengano espulsi da Fratelli d’Italia tutti coloro che utilizzano o hanno utilizzato l’ombra di Mussolini per piacere agli elettori. «Non siamo un partito che guarda al passato», scrive Meloni e quindi ci si aspetta che scompaia la fiamma all’interno del simbolo elettorale. Ci sarebbe da espellere la neo eurodeputata Elena Donazzan che ha cantato in radio Faccetta nera. Ah, ci sarebbe da fare dimettere anche il presidente del Senato, volendo. 

Buon mercoledì. 

Nella foto: Giorgia Meloni, frame da un video di fanpage

L’inganno nella democrazia: autoritarismo e repressione ai tempi di Meloni

L’inchiesta undercover su Gioventù Nazionale ha scoperchiato un vaso di Pandora che molti preferivano ignorare. Le immagini raccolte da Fanpage mostrano un’organizzazione che nasconde idee e retaggi che non possono essere tollerati e che dovrebbero indurre una profonda riflessione sulle derive che minacciano la nostra democrazia.

Le reazioni delle opposizioni non si sono fatte attendere, chiedendo a gran voce chiarezza e conseguenze. Le accuse di connivenza e di mancata vigilanza sulle attività di Gioventù Nazionale sono state lanciate con forza, evidenziando come un’organizzazione giovanile che dovrebbe rappresentare la futura classe dirigente del Paese sia, invece, radicata in un passato oscuro e pericoloso. Di fronte a tali accuse, le dichiarazioni di Giorgia Meloni sono apparse tardive e contraddittorie.

Una morsa autoritaria sulla società: il giornalismo nel mirino

Meloni ha cercato di prendere le distanze dai fatti emersi e, allo stesso tempo, evocando minacce di infiltrazioni nelle organizzazioni politiche, non ha esitato a gridare al regime contro Fanpage. Provando a spostare, senza troppo successo, l’attenzione dal merito dei contenuti al metodo dell’inchiesta. La stessa Meloni in passato ha querelato Saviano ed altri, ha attaccato i media, mentre è sempre più debordante  la presenza del governo sulla tv pubblica. La sua posizione appare, quindi, non solo tardiva, ma anche strategicamente confusa, incapace di rispondere adeguatamente alla gravità delle accuse. Ancora una volta a finire nel mirino è il giornalismo, quando pone domande scomode.

Il fascismo folcloristico di Gioventù Nazionale non è solo una questione di simboli e retorica, ma si inserisce in una tela più ampia che Meloni e i suoi sodali stanno calando sulla società italiana: una morsa autoritaria che minaccia le fondamenta della nostra democrazia. Tra i fascistelli di Gioventù Nazionale e la fascistizzazione del diritto penale, le opposizioni sociali e politiche dovrebbero trovare la forza e il coraggio di alzare le barricate contro queste derive. Non si può permettere che misure come il Decreto-legge Sicurezza passino senza una resistenza feroce.

Il Decreto Sicurezza: nuova fascistizzazione del diritto penale?

Questo decreto, a firma Nordio-Piantedosi, prevede pene detentive fino a due anni per blocchi stradali e una ulteriore stretta alla repressione degli attivisti climatici e dei lavoratori. Misure draconiane che rappresentano un attacco diretto al diritto di protesta e di dissenso, strumenti essenziali in una democrazia sana e vitale. Così, non solo si criminalizzano atti di protesta pacifica, ma si cerca di intimidire e silenziare quei movimenti sociali che rappresentano una voce critica e necessaria nel dibattito pubblico. Le conseguenze sono devastanti: limitano la libertà di espressione, creano un clima di paura e repressione, minano la fiducia dei cittadini nelle istituzioni democratiche.

Nella proposta di decreto-legge compaiono norme che ricordano il reato di propaganda sovversiva, eredità del Codice Rocco, con forme di restrizione sulla diffusione di materiale informativo e politico destabilizzante per l’ordine pubblico. Insomma, un ulteriore attacco diretto alla libertà di informazione, un pilastro fondamentale di qualsiasi democrazia, che rischia di essere soffocata sotto il peso della censura e dell’intimidazione.

Altrettanto preoccupanti sono le norme che riguardano il carcere. Un inasprimento generale delle condizioni detentive, con l’aumento delle pene e la riduzione delle possibilità di riabilitazione e reintegrazione sociale dei detenuti. Per dirne alcune: l’eliminazione dell’obbligo di rinvio per l’esecuzione della pena in caso di detenute madri e la repressione delle rivolte, anche se pacifiche. Un approccio punitivo che disumanizza i detenuti e alimenta un sistema penale più repressivo e meno orientato alla rieducazione, incrementando il rischio di recidiva e perpetuando un ciclo di violenza e criminalità. Amnesty International ha già espresso profonde preoccupazioni riguardo a questo pacchetto sicurezza, denunciando le gravi violazioni dei diritti umani che potrebbe comportare.

La limitazione dei diritti fondamentali non può essere giustificata in nome della sicurezza; al contrario, questa rappresenta un passo verso una stretta autoritaria che utilizza la legge per reprimere il dissenso e consolidare il potere.

Guardare nella giusta direzione: l’opposizione necessaria

L’allarme per un ipotetico ritorno del fascismo spesso guarda nella direzione sbagliata. L’attenzione si concentra sui segnali più vistosi: gesti identitari come saluti romani e manifestazioni di odio razziale. Questi fenomeni sono certamente esecrabili, ma proprio perché plateali, forse meno pericolosi di misure legislative che mostrano, tra le righe, chiari tratti ereditari del fascismo novecentesco. È questa fascistizzazione strisciante del nostro ordinamento, mascherata da legalità e disciplina, che rappresenta la minaccia più insidiosa.

Le piazze francesi di queste ore riempiono il cuore di speranza: la destra in tutto il mondo va fermata erigendo un argine anche a difesa dello stato di diritto. In Italia, è necessaria una serrata opposizione parlamentare a questa deriva autoritaria voluta dal governo Meloni. Essa rivela l’anima reazionaria che collega l’esperienza del fascismo novecentesco alle destre reazionarie di mezza Europa. Le forze parlamentari e sociali devono unire le loro voci per animare una mobilitazione popolare che si affianchi all’opposizione nelle aule istituzionali, per difendere i valori democratici e prevenire un ritorno a forme di autoritarismo che pensavamo di aver lasciato definitivamente alle spalle.

L’autore: Claudio Marotta è consigliere per Alleanza Verdi e Sinistra alla Regione Lazio

L’Europa tra crisi sociale e regressione politica

Se si ha la pazienza di leggere l’Agenda strategica che il Consiglio Europeo ha varato il 27 e 28 giugno scorsi, nella stessa riunione in cui ha definito gli incarichi apicali, si è colti da un senso di straniamento a causa della distanza tra quel racconto e la realtà.
A tutto ciò contribuisce anche l’uso delle parole scelte dal gota della diplomazia dei governi al fine di edulcorare il presente e, ancor più le scelte future, le quali risultano in perfetta continuità con gli indirizzi assunti dalla Commissione uscente e, forse, tra qualche mese rientrante.

Purtroppo la realtà emersa anche dal voto è tutt’altro che rosea e denuncia una gigantesca questione sociale che ormai tocca anche Paesi quali Francia e Germania che si ritenevano al riparo dalle crisi. Al contrario esse, anche come conseguenza delle guerre, producono malesseri profondi e suscitano paure che la destra riesce storicamente a interpretare anche per l’assenza di alternative credibili. Tutto ciò sfugge a chi sembra assillato soprattutto dalle crisi finanziarie e non dalle ricadute sociali delle stesse.

Si è molto discusso del fatto che il Consiglio a maggioranza abbia escluso la presidente Meloni, nella sua doppia veste di capo partito e capo del governo, dalle decisioni sulle nomine ma nessuno, soprattutto a sinistra, ha avuto l’onestà di ammettere che, a parte alcuni dossier che hanno riguardato l’ambiente, molta della legislazione europea, a cominciare dal pacchetto immigrazione, si è giovata del pieno concorso delle destre.

D’altra parte, la legislatura iniziata nel 2019 vide come uno dei primi atti del Parlamento europeo l’approvazione a larghissima maggioranza di una risoluzione che indeboliva la condanna del nazismo e del fascismo, inglobandoli nella più generale categoria dei totalitarismi; una specie di biglietto da visita delle destre cui è seguita una offensiva politica e culturale che non ha trovato sufficienti argini. Per questi motivi la discriminante posta dai socialisti nei confronti delle destre risulta quanto mai tardiva e, purtroppo, scarsamente supportata da conflitti veri su questioni essenziali per la vita dei ceti più deboli e dei lavoratori dipendenti, mentre tutte le attività speculative o di rendita hanno continuato a raccogliere i frutti offerti dal mercato e della concorrenza, quest’ultima esercitata anche comprimendo i diritti dei lavoratori e i loro mezzi di sussistenza.

Quanto alla procedura delle nomine, dopo il voto del Consiglio, la parola passa al Parlamento Europeo; contemporaneamente il presidente Viktor Orban dal primo luglio ha inaugurato il semestre di presidenza Ungherese mentre il suo Paese è sottoposto a infrazione proprio per violazione dello Stato di diritto , primo dei punti dell’Agenda del Consiglio e la Francia si appresta a svolgere un drammatico secondo turno elettorale.
A questo proposito colpisce il comportamento dei francesi in confronto al clima che portò nel settembre 2022 alla vittoria di Giorgia Meloni in Italia.

Ancora una volta il nostro Paese sembra preda di differenti inclinazioni: da una parte si dimostra anticipatore di tendenze che in seguito trovano sviluppi in altri contesti; dall’altra sembra vivere questi passaggi senza particolari drammatizzazioni con uno spirito pronto all’autoassoluzione come fu per il fascismo, il colonialismo, il populismo, ed oggi per il neofascismo.

Non sappiamo se il Fronte Popolare e la desistenza al secondo turno, come auspicabile, riuscirà a fermare o almeno a impedire l’ottenimento della maggioranza assoluta da parte del Fronte Nazionale di Le Pen e Bardella, certo è che lo spirito è molto diverso dalle elezioni politiche che in Italia hanno consentito alla Meloni e al centro destra una vittoria che nello sport si definirebbe “a tavolino”.

Tornando al Parlamento Europeo, quest’ultimo, nella sessione convocata dal 16 al 19 Luglio, dovrà votare a maggioranza assoluta e con voto segreto la proposta del Consiglio di rinnovare l’incarico di presidente della Commissione alla signora Von der Leyen, oltre che eleggere la propria presidente (la maltese Roberta Metsola) e i 14 vice-presidenti.
A questo fine, entro il 4 luglio dovrà essere completata la formazione dei gruppi politici che sembra annunciare novità nel campo delle destre con la costituzione di un ulteriore gruppo sovranista promosso dal primo ministro ungherese Orban, dall’austriaco Herbert Kickl (FPO) e dall’ex Primo ministro ceco Babis,quest’ultimo fuoriuscito dal Gruppo liberale. Ciò potrebbe ridisegnare la mappa delle destre europee.

Il passaggio parlamentare è tutt’altro che scontato per la candidata Von der Leyen, infatti, in questa prospettiva, parte delle destre potrebbero rientrare in gioco al fine di assicurare una rete di protezione alla Presidente in pectore e , tra questi, ci sono i 24 eletti nella lista di Fratelli d’Italia, anche in nome della buona relazione già sperimentata tra Meloni e Von der Leyen. Ciò, come è evidente, non riguarderà esclusivamente i posti di potere ma finirà per condizionare, come già avvenuto, le stesse politiche della futura Commissione.

E’ proprio sulla futura commissione, ancor più che negli equilibri politici del Parlamento, che lo spostamento a destra appare ancor più vistoso. Rispetto al 2019, infatti , da una simulazione pubblicata da Virgilio Dastoli, presidente del Movimento Europeo, circa l’appartenenza politica dei Commissari risulterebbe che il Partito Popolare europeo potrebbe esprimere 14 commissari rispetto ai 9 del 2019; La Sinistra socialdemocratica 4 rispetto ai 9; i Conservatori 5 invece di 2 e, infine, i liberali 2 invece di 6 ; ciò senza tener conto dei futuri equilibri di governo in Belgio, Francia e Olanda.

Ancor più che nel Parlamento gli equilibri ruotano attorno al Partito popolare europeo, da qui le pressioni delle destre affinché quest’ultimo abbandoni l’alleanza con i socialisti, pressione che continuerà anche in vista delle scadenze elettorali prossime a cominciare da quelle previste in settembre in importanti Lander dell’est della Germania, in cui si annuncia una vittoria dell’Afd con l’impossibilità di costituire governi che la escludano.

Per ciò che riguarda la composizione della Commissione, come è noto, sono i governi nazionali ad indicare i nomi dei futuri Commissari, uno per ciascun Paese, mentre il Parlamento Europeo avrà il compito di sottoporli ad audizioni nelle Commissioni Parlamentari di competenza.
Anche questo passaggio è tutt’altro che scontato infatti, in passato, più volte il Parlamento ha bocciato proposte di candidature come fu il caso nel 2004 dell’on. Rocco Buttiglione e più recentemente nel 2019 di ben tre candidati : Rovana Plumb, rumena; Lazlo Trocsanyi, ungherese e Sylvie Goulard, francese candidati rispettivamente ai Trasporti,Allargamento e Mercato Interno. Tutto ciò avverrà alla ripresa di settembre fino ad arrivare alla sessione parlamentare dal 16 al 19 dicembre, in cui il Parlamento, a maggioranza semplice, voterà l’intera Commissione.

Tornando all’Agenda Strategica, i cui pilastri sono: un’Europa libera e democratica; forte e sicura; prospera e competitiva. Eliminando la magniloquenza e la retorica, ciò vuol dire che si consoliderà l’asse con l’Ucraina anche attraverso la nomina della ex premier estone Kaya Kallas come alto rappresentante della politica estera e di sicurezza, con l’accelerazione del suo processo di adesione che, comunque, risulta lungo nei tempi e complesso nei progressi, infine con l’ accordo di sicurezza decennale stipulato tra Ue e Ucraina. L’Ue continuerà a finanziare il tutto con lo strumento European Peace Facility e con gli interessi dei beni sequestrati alla Russia. Nessun accenno a proposte che tentino di fermare la guerra, così come appare evidente il disimpegno sul fronte Medio-Orientale.

Per quanto riguarda la sicurezza, essa vuol dire aumento delle spese militari in un rapporto complementare con la Nato, e con una propensione alla costruzione di un sistema industriale europeo.
Quanto alla competitività, perfino il piano Draghi, con tutti i suoi rischi autocratici sembra al di là degli orizzonti di governi che non vedono al di là dei propri confini.
Gli elementi regressivi del processo di integrazione politica continentale appaiono evidenti ed il tratto intergovernativo prevale sempre più rispetto alla dimensione comunitaria.
Lo stesso Parlamento Europeo che in passato è stato uno dei motori del processo di integrazione appare piegato al potere dei governi tanto da mettere in discussione la stessa coesione interna ai gruppi politici, per non parlare dei partiti incapaci di andare al di là di una sommatoria di partiti nazionali.
Conseguenza di ciò è che la questione della riforma delle istituzioni europee e la loro democratizzazione sia stata completamente accantonata.
Nell’agenda del Consiglio, pure in previsione dell’ulteriore grande allargamento ai Balcani occidentali, Moldavia, Georgia, Ucraina è scomparsa qualsiasi velleità di riforma dei Trattati meno che mai di dotare l’Unione di una vera e propria Costituzione.

Da parte sua, il Parlamento, nella legislatura appena conclusa, si era cimentato con un tentativo di riforma dei trattati vigenti, pronunciandosi in favore di una Convenzione.
Il Consiglio nella sua Agenda strategica ignora completamente questa proposta e pare propendere per la richiesta alla Commissione aggiustamenti che non comportino modifiche dei trattati.
Siamo entrati in un meccanismo infernale che alimenta la campagna delle destre la quale si giova sia del meccanismo intergovernativo che sottrae controllo democratico e parlamentare, sia della mancanza di democrazia e trasparenza che serve a delegittimare l’Unione.
In queste condizioni qualsiasi progresso è impensabile e il rischio di regressione è già fra noi.

L’autrice: Pasqualina Napoletano, già parlamentare europea, è coautrice del libro di Left “L’Europa rapita”

In Francia lo stesso copione

Jordan Bardella

In Francia si ripete il copione italiano. Tra gli inganni di questi anni c’è l’aver creduto che il post-fascismo possa diventare alfiere contro l’antisemitismo quando invece la postura (simulata come molte altre) è solo passo nel percorso di potabilizzazione. 

I sovranisti hanno dapprima edulcorato la propria definizione. Sono post-fascisti nelle idee, nei modi, nel retaggio culturale, nelle citazioni, talvolta nei motti stessi ma gli è bastato imbellettarsi con un pizzico di vago patriottismo per nascondere il tutto sotto una coltre di protezionismo dei confini. La preoccupazione principale di Bardella in Francia – come accade qui in Italia – è quella di apparire eredi naturali seppur evoluti del fascismo proponendone una formula “buona” e degna di calcare il palco internazionale. 

La lotta all’antisemitismo (di facciata) è utile per sdoganare un suprematismo nei confronti delle altre etnie. La difesa del popolo ebraico (bianco e influente) consente di accelerare sullo spauracchio dell’islamizzazione, è un appiglio per difendersi dalle accuse di xenofobia e consente una collocazione nel quadro internazionale. 

La guerra ai poveri è una stortura di liberalismo simulato, il negazionismo delle questioni di genere è coperto dalla difesa della famiglia, il negazionismo climatico viene addobbato con menzognere preoccupazioni economiche, l’autoritarismo è giustificato dal conservatorismo culturale. Il fascismo nuovo è la versione codarda di quello vecchio, con gli stessi nemici e con le stesse soluzioni. L’antifascismo come mero esercizio di memoria è il suo alleato migliore. 

Buon martedì. 

Francia. Le Pen si può battere ma alla sinistra serve un colpo di reni

Il quotidiano parigino Le Monde intitola l’edizione dedicata ai risultati elettorali: “L’estrema destra alla soglia del potere”. Un modo per incitare i suoi lettori a mobilitarsi ma anche il riconoscimento di una stato di fatto che vede concretamente la possibilità per il Rassemblement National di Marine Le Pen di conquistare il governo della Francia.
Il primo turno del voto per la nuova Assemblea nazionale, ha consolidato l’RN come primo partito di Francia col 33,2%, un dato nel quale vanno inglobati i voti ottenuti dai Repubblicani dissidenti di Eric Ciotti.

In un contesto segnato da un clamoroso ma atteso aumento della partecipazione al voto che è salita di quasi venti punti, ottiene 10 milioni e mezzo di voti. La sua espansione è forte soprattutto nelle zone rurali e nei piccoli centri, quella parte di Francia che si è sentita ulteriormente abbandonata dalle politiche arroganti di Emmanuel Macron e non più adeguatamente rappresentata dalla sinistra. Lo segnala, se mai ce ne fosse ancora bisogno, la sconfitta al primo turno da parte di un esponente dell’RN nella ventesima circoscrizione della Regione Nord, del segretario del PCF, Fabien Roussel. Nonostante Roussel abbia tentato di ridisegnare una proposta politica ritenuta più in sintonia con quei settori popolari che da tempo si sono allontanati dalla sinistra.

Il Rassemblement National, che ha le radici nel collaborazionismo francese con i nazisti durante la seconda guerra mondiale e prima ancora con la destra più reazionaria, è riuscito a convincere parti significative di elettorato popolare del suo essere una vera alternativa al “macronismo”. Macron è stato in una qualche misura una sorta di populismo a parti inverse. Anziché rappresentare l’odio del “popolo” per le “élite” è riuscito ad incarnare perfettamente l’ostilità altezzosa delle seconde per il primo. Ma le politiche concrete del Rassemblement National che si sono espresse nel luogo dove si fanno le scelte reali e meno conta la demagogia, l’Assemblea Nazionale, hanno sempre avuto come bussola la difesa degli interessi dei ricchi, della proprietà privata e dei grandi interessi economici.
L’estrema destra, qui come altrove, è riuscita ad imporre il tema dell’immigrazione come centrale e quello della difesa della “Francia di papà” (o di nonno), in larga misura immaginaria, che viene rimpianta da molti elettori che si sono sentiti sballottati e minacciati dall’evoluzione del contesto economico, sociale e culturale nel quale vivono.
La destra tradizionale dei Repubblicani, quella che si richiama a De Gaulle di cui però ha archiviato tutto il posizionamento in politica estera (sui rapporti con gli Stati Uniti, sulla Russia, sul Medio Oriente) si è fermata al 6,6%. Un tempo era il contraltare della sinistra. La grande balena che ha dominato lo scenario politico della Quinta Repubblica almeno fino alla vittoria di Mitterrand e anche dopo. Ora è ridotta ai margini e in brandelli. Un pezzo se ne è andato direttamente nelle braccia della Le Pen e il partito ufficiale sembra orientato a non dare indicazione di voto per il secondo turno.
Il campo presidenziale è anch’esso terremotato. La mossa di Macron di indire le elezioni parlamentari anticipate subito dopo il risultato delle elezioni europee è apparso a molti, anche tra i suoi sostenitori, un vero e proprio suicidio. Si è discusso se la decisione avesse qualche secondo fine. Ad esempio di costringere la destra a governare in una difficile coalizione per arrivare già logorata alle prossime elezioni presidenziali. Che ci fosse o meno una strategia la scelta è stata avventuristica. Il dato delle europee non poteva restare senza risposta ma le elezioni avrebbero potuto essere organizzate con un tempo ragionevole, tale da non offrire all’onda bruna della Le Pen il vantaggio di essere sulla cresta dell’onda.
La “macronia” come viene definita da molti per indicare quasi un mondo a parte, lontano dai sentimenti e dai problemi quotidiani dei e delle francesi, esce seccamente sconfitta dal voto. Ha recuperato qualche punto percentuale sul voto delle politiche ma si è collocata al terzo posto, lontana sia dell’RN che dal Nuovo Fronte Popolare che ha unito le sinistre.
Forse Macron pensava di mettere all’angolo le sinistre che si erano presentate al voto europeo divise e in forte polemica tra loro. Il primo calcolo si è rivelato sbagliato. Il secondo, in campagna elettorale, lo ha condotto ad attaccare soprattutto la sinistra, il cui programma sociale ed economico è stato considerato più pericoloso di quello dell’estrema destra (il che per i ceti benestanti è certamente vero). Macron, già dimentico della cerimonia che portò al Pantheon i Manouchian e altri antifascisti stranieri che avevano combattuto nella resistenza francese ( vedi l’articolo di Franco Ferrari  E Macron si fa bello con i partigiani immigrati ndr), ha accusato le sinistre di “immigrazionismo”. Un termine che era stato gettato nel dibattito politico francese da Le Pen padre.

Attaccare la sinistra ma soprattutto La France Insoumise (LFI) e Melenchon per le più diverse ragioni aveva come obbiettivo tattico di provare a sottrarre i voti della componente più moderata dell’elettorato per capovolgere i rapporti di forza con il NFP e poi presentarsi al secondo turno come baluardo repubblicano. Questa operazione ha funzionato marginalmente, spostando qualche percentuale di voto, ma è politicamente fallita. Ora il campo di Macron balbetta e si divide sul secondo turno.
Anziché aderire coerentemente alla prospettiva del “fronte repubblicano” (che storicamente univa tutti dai borghesi liberali alla classe operaia contro il pericolo della destra estrema) emergono distinguo. Chi non ne vuole sapere, chi vuole appoggiare solo qualche candidato del “fronte popolare”, chi invece sostiene che bisogna schierarsi senza sé e senza ma contro l’arrivo dell’RN al potere. Il problema è che ora le argomentazioni utilizzate dal campo macroniano contro La France Insoumise e la sinistra vengono riprese dalla Le Pen per impedire il coagularsi dell’elettorato sul candidato che ha migliori possibilità di battere il suo partito.
L’estrema destra, nella cui storia ci sono ancora le tracce della collaborazione con la Gestapo nelle “rafles” contro gli ebrei, compresa la più vergognosa di tutte, quella del Vel d’Hiv di Parigi, oggi si presenta come paladina della lotta all’antisemitismo. Un tema che è stato agitato per mesi contro LFI dai grandi media.
Il “Nuovo Fronte Popolare” ha unito la gran parte della sinistra; dall’ex presidente socialista Hollande, ancora considerato uno dei maggiori responsabili delle sconfitte subite dalla sinistra negli anni scorsi, fino al trotskista Philippe Poutou, che è riuscito anche se per un soffio ad andare al secondo turno contro un candidato RN.
Un programma certamente avanzato per quanto riguarda i temi di politica sociale, redistributivi e di tutela delle classi popolari, ma che ha praticamente evitato di affrontare il tema del cambiamento in politica estera, in particolare sulla guerra in Ucraina. Questione sulla quale anche l’RN ha tenuto un bassissimo profilo lasciando intendere che certe critiche alle prese di posizione di Macron non vanno intese come preannuncio di un vero cambiamento di rotta.
Il risultato del Nuovo Fronte Popolare si è attestato sul 28%, in crescita di un paio di punti sulla NUPES ma meno del quasi 32% ottenuto dalle singole liste alle europee. Una percentuale che attesta certamente una crescita in termini di voti ma che non rende facile la conquista di una maggioranza assoluta. La sinistra deve giocare una partita non facile tra il richiamo al “fronte repubblicano” che si rivolge specialmente all’elettorato di Macron e la necessità di non lasciare all’RN il monopolio della parola d’ordine della rottura con le politiche perseguite dall’attuale Presidente.
Franco Ferrari

 

L’autore: Franco Ferrari è politologo e saggista, fra i suoi libri Indagine su Picelli (2023). Collabora con Transform Italia

Scopri le differenze (tra centristi italiani e francesi)

In Francia la prevedibile vittoria del Rassemblement nazional di Marine Le Pen ha posto il tema etico, oltre che politico, della costruzione di un fronte comune.

«Sosterremo il candidato in grado di battere il Rassemblement, a prescindere dalle divergenze», ha detto il leader della sinistra riformista Glucksmann sottolineando la necessità di «fare blocco». Il secondo partito nel Paese è il Nuovo fronte popolare con il 29,1% che tiene insieme a sinistra riformista, i socialisti di Melenchon, gli ecologisti. Il loro programma elettorale punta sull’aumento del salario minimo, sull’abbassamento dell’età pensionabile e sui numeri identificativi per le forze dell’ordine che negli ultimi anni si sono rese protagoniste di eccessi di violenza. 

In quella coalizione ci sono differenze che ricordano molto il quadro nostrano. C’è chi è accusato di essere “filo-Hamas”, c’è chi viene dipinto come bellicista per il suo sostegno all’Ucraina. Su una cosa sono d’accordo: come pagare l’aumento dei diritti dei lavoratori? Con i soldi dei ricchi. 

Male, malissimo il centro del presidente Macron. Il capo dello Stato che finora aveva una maggioranza relativa di 250 deputati, potrebbe ritrovarsi tra 60 e 90 deputati secondo la proiezione dell’Ifop. 

C’è una differenza che salta subito all’occhio rispetto alla realtà nostrana. I liberali hanno deciso di allearsi a sinistra per il secondo turno, mettendo da parte le ambizioni personalistiche. «Faccio distinzioni tra gli avversari politici e i nemici della Repubblica», ha detto la candidata dell’Ensemble Somme Albane Branlant che si è ritirata dopo essere arrivata terza. Eh, già.

Buon lunedì. 

Nella foto: manifestazione a Reims, 14 giugno 2024 (Gérald Garitan)