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Lo Stato di polizia è dietro l’angolo

Il disegno di legge del governo Meloni sulla cosiddetta “sicurezza”, diciamolo chiaramente, è pericolosissimo dal punto di vista garantista e della legalità costituzionale. Completando e peggiorando l’opera delle leggi Minniti e Salvini questo disegno di legge, assolutamente incostituzionale, configura sia uno Stato del controllo che uno “Stato di polizia”. Tutti i conflitti sociali diventano questioni di ordine pubblico.
Vengono aumentate a dismisura le pene e disegnati nuovi reati esclusivamente per rendere più difficili le lotte territoriali, ambientali, le critiche alle condizioni carcerarie. È vietata perfino ogni forma di resistenza passiva, ogni campagna di massa che metta in discussione l’arbitrio del potere. La complessità e la confusa eterogeneità del disegno di legge (molte proposte e tutte pericolose e confuse) mi permette di selezionare, per il momento, solo alcuni temi.
Parto dal titolo e dall’oggetto. L’accezione della “sicurezza urbana”, qui declinata, contiene una ipertrofia penalista.
La Costituzione delinea, invece, un rapporto dialettico tra misure di sicurezza e riqualificazione dei territori e dei vissuti. La Corte costituzionale ha sempre avuto un orientamento univoco. Il punto di riferimento ineludibile, in materia così delicata, sono gli articoli della prima parte della Costituzione.
Le politiche sociali sono essenziali per prevenire e depotenziare la criminalità urbana. Va sostenuto il rapporto tra legalità e ricostruzione dello “spazio pubblico”. Perché qui si configura una simbiosi tra tutela della formazione sociale e immaginario della sicurezza. Il giurista Stefano Rodotà, in uno dei suoi ultimi testi, scrisse: «Avverto l’allarme, del tutto rimosso dallo stesso dibattito parlamentare, sulla “società del controllo”; vedo lo stravolgimento del rapporto tra statualità e cittadinanza».

Dall’operaio massa ai nuovi schiavi

La Storia del lavoro nell’Italia contemporanea scritta da Stefano Gallo e Fabrizio Loreto per la collana Le vie della civiltà de Il Mulino (2024) non è solo un necessario aggiornamento e sostituzione come testo di riferimento per i corsi universitari di Storia del lavoro della meritoria Storia del lavoro in Italia dall’unità ad oggi pubblicata da Stefano Musso nel 2002 per Marsilio. Pur utilizzando fonti secondarie, che spesso sono tuttavia ricerche originali dei due autori, e contributi della comunità dei membri della Società italiana di storia del lavoro (SisLav) la pubblicazione offre interessanti caratteri di originalità a partire dall’introduzione e dall’architettura del testo. Ci riferiamo alla possibilità di due percorsi di lettura che possono sia seguire le grandi e classiche partiture cronologiche e politiche (“L’Italia liberale”, “L’età giolittiana”, “L’Italia fascista” fino a “L’Italia nel tempo presente”) che gli sviluppi per campi tematici attraverso capitoli dedicati e ricorrenti di una serie di elementi colti nel divenire come “Economia e mercato del lavoro”, “Relazioni e dinamiche sociali”, “Organizzazione del lavoro”, “Rappresentanza e resistenza”, “Istituzioni e norme” e l’innovativo e davvero ben riuscito e godibile capitolo “Rappresentazioni del lavoro”.

La storia del lavoro è per gli autori, riprendendo Luigi Dal Pane, storia generale attraverso cui leggere la globalità e la pienezza dei fatti storici. Una storia a partire dalle storie delle persone che per vivere hanno bisogno di lavorare, partendo da quelle meno libere, che subiscono un maggior grado di soggezione, seguendone le attività e le condizioni professionali, la situazione sociale e le reti di relazione, le organizzazioni di rappresentanza, le forme della sociabilità e le aspirazioni individuali e collettive.
La storia del lavoro dunque non come appendice della storia dell’industria e del mutare delle tecniche, bensì come forma storicamente determinata della costruzione della soggettività dei lavoratori e delle lavoratrici. Non accessorio nel divenire storicamente determinato del capitale e dei capitalismi, ma fattore coessenziale – a partire dalla stagione ottocentesca – del farsi della grande storia. Ed è questa una tensione che attraversa fruttuosamente tutto il volume, il divenire il lavoro da fatto individuale fatto collettivo, il suo faticoso sottrarsi dall’egemonia sia dell’interclassismo mazziniano che del paternalismo padronale, trovando nel momento lavorativo spazi di autonomia oscillanti dalla valorizzazione delle professionalità dell’operaio altamente specializzato e di mestiere all’irruzione dentro e fuori la fabbrica dell’operaio massa totalmente dequalificato, all’anomia come forma di resistenza al corporativismo fascista con la sua gestione dello stesso tempo del dopolavoro, alla ricorrente ed attuale subordinazione del lavoro in un sistema di concertazione triangolare che ha visto momenti alti e nefasti negli anni Novanta del secolo scorso.

Non tornano i conti del governo sul lavoro

Non basta leggere i dati dell’occupazione in termini quantitativi e, soprattutto, separati dal contesto economico e sociale nel quale sono inseriti. È indubbio che, da un punto di vista puramente statistico, ci troviamo di fronte ad una crescita dell’occupazione, che ci viene segnalata dall’Istat che ha caratteristiche da record. Le rilevazioni di questi dati sono iniziate nei lontani anni Settanta e non avevano mai registrato prima d’ora un tasso di attività superiore al 62%, né un numero di occupati di oltre 23 milioni e 700 mila unità.
Ma queste statistiche, da sole, non ci dicono se ci troviamo di fronte a un aumento occupazionale di qualità o se, viceversa, registriamo un mero dato quantitativo prevalentemente riconducibile alla crescita di settori, come il turismo, che hanno tradizionalmente contratti di lavoro meno remunerati, stagionalità e precarietà nei rapporti di lavoro, la presenza di lavoro nero e grigio e orari “corti”: tutti fattori che portano alle basse retribuzioni. Infatti, stiamo registrando una crisi dei settori industriali e della manifattura, anche certificata dai dati dell’Osservatorio della associazione Lavoro&Welfare sulla cassa integrazione, che si basano sulle rilevazioni dell’Inps (nei primi quattro mesi del 2024 le ore di cassa integrazione autorizzate sono aumentate del 31,22% nel settore meccanico, del 42,10% in quello metallurgico, del 155,58% nel settore pelli e cuoio e del 48,12% nel tessile). Al contrario, nel settore del turismo, assistiamo ad una crescita di attività e di presenze nel nostro Paese che ha superato il dato del 2019, vale a dire prima della pandemia. Quindi, per far fronte a questa domanda di turismo, registriamo una forte richiesta di camerieri, di barman, di bagnini, deejay e di lavoratori delle pulizie, e via elencando, per i quali non possiamo immaginare né una scontata continuità lavorativa e contributiva, né, nella maggioranza dei casi, retribuzioni soddisfacenti. Inoltre, il dato della crescita occupazionale si accompagna ad una produttività stagnante, che pone il nostro Paese al fondo delle classifiche europee; si correla ad una crescita del prodotto interno lordo prevista per l’anno in corso allo 0,9%, quindi a bassa intensità (vogliamo ricordare però che, secondo Banca d’Italia, la crescita del Pil resta confermata per ora allo 0,6% nel 2024); ad una perdita importante di potere d’acquisto dei salari a fronte dell’impennata inflazionistica registrata nell’anno precedente.

Giovanni Mininni (Flai Cgil): Quando il profitto vale più della vita umana

Non è stata una fatalità. L’assassinio di Satnam Singh si sarebbe potuto evitare. Ma per il padrone, che lo ha abbandonato per strada dopo l’incidente sul lavoro, la vita del giovane lavoratore di origini indiane non contava niente. Ha prevalso la logica spietata del profitto, insieme al razzismo. In Italia ci sono 450mila lavoratori “fantasma” come lui, che tutti i giorni sono sfruttati, costretti a lavorare in condizioni da schiavismo rischiando la vita sui campi. Molti di loro il 22 giugno scorso hanno scioperato e poi hanno partecipato alle due manifestazioni organizzate dalla Flai e dalla Cgil a Latina, chiedendo di essere regolarizzati, chiedendo diritti e di non dimenticare Satnam e la sua giovane moglie Sony. Per lei la Cgil ha lanciato una raccolta fondi e ha ottenuto il permesso di soggiorno, così come per il lavoratore precario che ha deciso di testimoniare. «La nostra segretaria Flai Cgil di Frosinone e Latina, Laura Hardeep Kaur, che è sikh di seconda generazione ha ospitato Sony nei primi giorni, le sta accanto parlando la sua lingua. Sony è ancora molto provata, scioccata», racconta il segretario generale della Flai Cgil Giovanni Mininni.

Giovanni Mininni, segretario generale Flai Cgil

«Quella di Satnam Singh è una morte assurda. Ha colpito tutti quanti anche perché è di una atrocità inaudita». La sua morte non è stata la conseguenza di un casuale incidente, e tanto meno di una sua «leggerezza» nell’uso della macchina avvolgi-nylon come ha insinuato il datore di lavoro di Satman ( peraltro già sotto indagine da anni per caporalato). «È disumano come è stato trattato questo giovane di 31 anni, abbandonato per strada perché non serviva più – commenta il segretario Mininni – scaricato davanti alla porta casa, con il braccio tranciato e messo in una cassetta della frutta. I datori di lavoro non lo hanno portato in ospedale perché temevano di essere scoperti. La banalità del male…»

Quello di Satnam Singh purtroppo non è un caso isolato.
No, non lo è affatto. La sua storia mi ricorda quella di Soumaila Sacko, il giovane lavoratore maliano che venne ucciso per una banalità con un colpo di fucile solo perché stava prendendo due lamiere in mezzo a un pezzo di terra giù in Calabria.

Satnam con la moglie Sony era arrivato dall’India con la promessa di un lavoro e di un futuro, poi cosa è successo?
Era stato chiamato da un imprenditore. Aveva un permesso di lavoro ma, come succede nell’ottanta per cento dei casi, non è stato rinnovato perché il contratto non era stato confermato. Quando scadono i permessi temporanei questi padroni preferiscono far lavorare in nero. Satnam ha lavorato in questa condizione per diversi anni. Come tanti altri era diventato un lavoratore “invisibile” della raccolta in campagna. Da chi lo sfruttava non era considerato un essere umano.

Le prime crepe nell’impero di Modi (che oggi vola a Mosca)

Il primo ministro indiano Modi, appena riconfermato, vola a Mosca per incontrare Putin. Lo stesso leader che flirta con l’Occidente e fa affari con gli Usa sta sempre più proponendo l’India come Paese comprimario della Cina nel Global South.

Cosa sta cambiando nell’ordine mondiale? Lo abbiamo chiesto allo studioso di India e mondo asiatico Francesco Valacchi, chiedendogli di aiutarci ad analizzare il risultato delle recenti elezioni in India, dove hanno votato 642 milioni di cittadini. 

I risultati delle elezioni in India, la democrazia più popolosa del mondo, avranno e stanno già avendo grande risonanza internazionale. Modi, che prevedeva un trionfo completo e quasi plebiscitario, ha ottenuto una vittoria molto ridimensionata e potrebbe veder ostacolata la sua spregiudicata politica estera dai partiti dell’opposizione.
Il riconoscimento del risultato è stato generale all’estero, pur tuttavia con toni differenti. La Cina si è congratulata ufficialmente con Nuova Delhi attraverso le parole del premier Li Qiang che ha affermato di sperare che le relazioni fra i due Paesi si sviluppino nella «giusta direzione».
Ha fatto un certo scalpore però il fatto che non sia arrivato un riconoscimento del presidente Xi, com’era avvenuto nel 2019. Questo atteggiamento è una chiara risposta alle dispute confinarie fra i due Paesi acuitesi negli ultimi anni e al più generale confronto sul palcoscenico del Global South dove Modi sta sempre più proponendo l’India come Paese comprimario della Cina. Se la situazione dovesse protrarsi a livello regionale un governo indiano più debole (come quello che si profila) e quindi più influenzabile non potrebbe che far piacere a Pechino. D’altronde uno dei cavalli di battaglia di Narendra Modi è stato proprio la sua candidatura a guida dei Paesi del Global South e del club dei Brics. A settembre 2023, durante il summit G 20 tenutosi a Nuova Delhi questa candidatura è stata sfruttata in maniera spettacolare da Modi per ottenere un rilevante risalto mediatico ma è stata motivo di freddezza nei rapporti con Pechino.
Gli Stati Uniti dal canto loro hanno esteso le congratulazioni al vincitore tramite un messaggio di Biden che fa riferimento alla eccezionale proporzione dei votanti indiani e ricorda l’importanza del rapporto con l’India, una «comprehensive and global strategic partnership» il cui inizio formale è datato alla presidenza Trump. Il leader repubblicano, che condivide un atteggiamento conservatore e nazionalista con Modi, era un naturale alleato del premier e del suo Bharatya Janata party (Bjp), tuttavia rafforzare il legame con l’India, in un momento di frizione con la Cina, è certo un importantissimo obiettivo anche di Biden. Una conferma dell’interesse Usa di tornare a influenzare Nuova Delhi in questo momento di cambiamento è la visita del consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan che è volato in India il 17 giugno.

Quanti muri nella politica Usa

L’immigrazione promette di diventare il “tema” di questa campagna elettorale tra Biden e Trump. Trump e i repubblicani di estrema destra criticano Biden, definendolo «debole», «perché è controllato dai democratici di sinistra radicale che cercano di distruggere l’America». Dedicano gran parte dei loro discorsi all’allarme sulla «crisi al nostro confine meridionale», raccontando di «una invasione» con storie raccapriccianti di crimini commessi da immigrati privi di documenti e da cartelli. Utilizzano queste storie per demonizzare gli immigrati e giustificare la richiesta di chiudere il confine con il Messico e di imporre politiche di repressione disumana (carcerazione e deportazione di massa) nei confronti dei richiedenti asilo. Raccontano i flussi di immigrati poveri da Paesi poveri non-occidentali (quelli che dispregiativamente Trump ha definito shithole countries) come un fenomeno incontrollabile che «mette in pericolo la razza bianca». Sostengono che «l’immigrazione è un privilegio e non un diritto» e che i Democratici sono «il partito del crimine» e dell’immigrazione incontrollata. Fanno leva su ideologia Maga (Make America great again), xenofobia e razzismo per ottenere il sostegno degli strati sociali e culturali più vulnerabili, emarginati e poveri della popolazione bianca (white working and lower middle classes e i left behind). Biden aveva affermato di voler affrontare i «problemi strutturali» che causano questo esodo (oltre 2 milioni di migranti e richiedenti asilo intercettati ogni anno), ma alle dichiarazioni non sono seguiti i fatti. La politica estera americana non ha certo appoggiato le forze progressive che nei Paesi del Centro America si battono per democrazia, giustizia sociale e sicurezza alimentare, personale e collettiva. A seguito delle scelte di lunga durata si è creato un circolo vizioso che si autoalimenta. Evidenziando il divario tra la narrazione retorica basata sui valori e sui diritti umani che raccontano di sé stessi e la realtà, anche brutale e cinica, di come una superpotenza persegue i propri interessi, gli Stati Uniti hanno sempre imposto sanzioni e embargo o appoggiato regimi dittatoriali o di democrazia autoritaria, che hanno bloccato qualsiasi cambiamento in senso genuinamente democratico, imponendo alla maggioranza delle popolazioni indigene una vita caratterizzata da esclusione sociale, ignoranza, disoccupazione, povertà e violenza.

Cosa c’è dietro l’America arrabbiata

La “rabbia rurale bianca” è l’argomento di un acceso dibattito che si è scatenato negli Stati Uniti in vista delle prossime elezioni di novembre, grazie a un nuovo libro, White rural rage. The threat to American democracy (Penguin, New York 2024), scritto dal politologo Tom Schaller e dal giornalista Paul Waldman. La loro tesi è che il Paese si sta dividendo tra due Americhe molto diverse: una rurale e l’altra urbana. Questo nonostante che ci sono molte altre divisioni all’interno dell’elettorato americano: tra i bianchi e le persone di colore; tra ultraricchi/ricchi e classe medie e lavoratrici in declino, tra cristiani e non cristiani, tra vecchi e giovani, tra persone con istruzione universitaria e quelle senza, tra uomini e donne, per citarne alcune.
In 255 pagine, gli autori sostengono che gli americani delle zone rurali sono il gruppo “geodemografico” più razzista, xenofobo, anti-immigrazione, omofobo, cospirazionista, antidemocratico, suprematista bianco e nazionalista cristiano bianco (il 76% dell’America rurale è bianco e il 38% dell’America rurale è bianco evangelico fondamentalista), e violento del Paese. Secondo loro, queste caratteristiche rendono gli elettori bianchi rurali una «minaccia unica per la democrazia americana», perché hanno un peso sproporzionato alle urne rispetto a qualsiasi altro gruppo demografico negli Stati Uniti. Sottolineano come le strutture politico-istituzionali – la rappresentanza di 2 senatori per ciascuno Stato al Senato federale a prescindere dalla popolazione (nonostante gli Stati rurali siano decisamente meno popolati), quella alla Camera federale (pesantemente condizionata dalla pratica del gerrymandering e dal fatto che i distretti elettorali puramente rurali o con influenza rurale/suburbana rappresentano il 42% dei seggi, anche se ci sono più persone che vivono nelle città; le aree urbane più popolose hanno la metà della rappresentanza alla Camera rispetto ai distretti elettorali rurali), come quella al Collegio elettorale nazionale (che si basa sul numero di seggi alla Camera e su due senatori in ogni Stato, per cui il Wyoming ha 18 voti elettorali in meno rispetto alla California, anche se la California ha una popolazione 68 volte più numerosa) sono fortemente squilibrate in favore di Stati e aree rurali spopolate dominate dal Partito repubblicano – favoriscono la sovra rappresentazione dei bianchi rurali che costituiscono solo il 16% dell’elettorato americano (tra l’altro circa il 24% dell’America rurale è costituito da minoranze razziali ed etniche, e secondo il 2020 Cooperative election study di Harvard quasi il 30% degli elettori non bianchi nelle comunità rurali ha votato per Donald Trump, mentre viene spesso ignorato il fatto che la maggioranza degli indigeni americani viva in aree rurali e che la maggior parte delle terre tribali sovrane siano rurali). In termini di parte, i Democratici al Senato, che attualmente detengono 51 seggi al Senato, rappresentano circa 193 milioni di persone. I Repubblicani al Senato hanno solo due seggi in meno, ma rappresentano 140 milioni di persone.
…. I critici sostengono che la vera minaccia è che stereotipi scarsamente supportati e dannosi creeranno un cuneo più profondo tra l’America rurale e quella urbana. Accusano gli autori di aver preconfezionato la loro tesi e poi di essere andati a cercare ciò che volevano vedere, con un uso selettivo di dati, sondaggi e ricerche, e con poca o nessuna attenzione prestata alla verità. Sostengono che gli studiosi di politica nelle aree rurali sono sempre più attenti all’idea che la “rabbia” non è la stessa cosa del risentimento, dell’ansia economica, dell’orgoglio comunitario e del senso del luogo, mentre Schaller e Waldman vogliono semplicemente che l’America rurale venga considerata la terra dell’estremismo radicale. Notano che anche quando gli autori arrivano ad una conclusione benevola sul rafforzamento della comunità rurale, hanno così travisato e diffamato le popolazioni rurali che nessuno nelle campagne può (o dovrebbe) fidarsi di loro, e nessuno nell’America urbana troverà utile preoccuparsi di una desolata terra di odio. …

Usa, la fabbrica delle disuguaglianze

Sempre più spesso, nel dibattito sui mass media e in quello scientifico, si fa riferimento al declino degli Stati Uniti. La questione è definita, in primis, in termini economici e strategici. Ma sempre più, si sta affermando un’altra dimensione della crisi: tutta interna alla politica statunitense. Stiamo parlando di quel sistema politico e istituzionale americano, che tanto aveva affascinato i pensatori europei che soprattutto – a cavallo tra il XIX e il XX secolo – avevano narrato della terra della libertà e di un sistema politico e culturale, tanto peculiare quanto in grado di garantire democrazia e sviluppo. Oggi non è così, come dimostrano le immagini e le parole della campagna presidenziale e prima ancora di eventi drammatici come la presa del Campidoglio da parte di una minoranza violenta nel 2021. Proprio la figura dell’ex presidente Trump rimanda l’immagine di un Paese di violenza (verbale e non solo), di estremisti populisti, e sempre più ostaggio di minoranze esagitate (religiose e non). Ma siamo sicuri che Donald Trump e i suoi seguaci siano l’origine del malessere americano? O piuttosto ne rappresentino l’ultima incarnazione, risultati di processi molto più radicati?
Una risposta ci viene proprio dalla letteratura nord americana e dal lavoro quasi ventennale di due fuoriclasse della scienza politica contemporanea: Jacob Hacker, professore presso la Yale University in Connecticut, e Paul Pierson, docente all’Università di Berkeley in California. I due autori hanno prodotto in successione quattro libri che, dal 2006 al 2020, hanno seguito la discesa agli inferi del sistema politico americano. Questi libri sono segnati da un forte scetticismo sulla qualità della democrazia americana. Con tinte a tratti drammatiche, i due autori sviluppano una specie di detective story. Il delitto da cui partono è quello di un Paese ridotto a macchina delle disuguaglianze, sempre più diviso tra una minoranza (il famoso 1% più ricco) sempre più abbiente e una maggioranza sempre più in difficoltà. Tali differenze economiche si mescolano a divisioni razziali, etniche, culturali e linguistiche che non hanno eguali nel mondo occidentale. I due autori cercano allora di individuare il colpevole. La globalizzazione? L’innovazione tecnologica? Sì, ma non solo. Per Hacker e Pierson il vero fattore scatenante del declino americano è la politica, e in particolare la degenerazione del Partito repubblicano. Quest’ultimo è il vero fattore che ha determinato il declino democratico in quel Paese.

Se Pechino delocalizza in Europa

Il mondo è cambiato. Ma non sappiamo ancora se in meglio o in peggio. Pedalando un giorno, oltre quarant’anni fa, su una strada polverosa di Pechino vidi passare una Fiat e un amico cinese mi disse che erano da poco arrivate in città delle macchine italiane. Sfrecciavano sulle strade cinesi, leggere ed eleganti a confronto delle massicce macchine di produzione sovietica o cinese, come le mitiche Bandiera Rossa (Hongqi), la prima marca di automobili cinesi, fondata nel 1958, dove sedeva il presidente Mao.
Scoprii che la fabbrica torinese era stata la prima azienda automobilistica occidentale ad arrivare in Cina, dove aveva venduto un primo lotto di auto nel tentativo di entrare nel mercato del trasporto cinese, allora proverbialmente dominato dalle biciclette. Le grandi arterie della capitale, larghe decine di metri avevano quattro corsie centrali per le auto e una enorme corsia laterale, dove notte e giorno, si affollavano nugoli di biciclette scampanellanti. Ogni imprenditore che sbarcava in Cina ripeteva la frase: Ah, se potessi vendere un faro a ciascuna di queste biciclette diventerei l’uomo più ricco del mondo!
Sono passati solo alcuni decenni ed oggi i nostri giornali sono pieni di notizie sulle trattative fra i governi europei e la Cina per l’apertura nel nostro continente di uno stabilimento per l’assemblaggio di auto elettriche cinesi. Come accaduto per l’elettronica un tempo dominio incontrastato degli Stati Uniti, forse, a breve, guideremo tutti auto elettriche cinesi.
La politica estera cinese segue rigorosamente le necessità economiche del Paese, senza ideologie o infingimenti. La progressiva trasformazione della Cina da un Paese manifatturiero di prodotti a basso costo a un Paese produttore di beni ad elevato valore tecnologico è il frutto di una attenta politica sociale e educativa, governata da scelte precise e mirate; quali ad esempio il potenziamento del sistema scolastico ed accademico, accompagnato da enormi investimenti in ricerca e sperimentazione. Finché la Cina era un Paese esportatore di beni di largo consumo era sufficiente mantenere ed incentivare relazioni volte semplicemente all’apertura dei mercati internazionali. La cosiddetta globalizzazione ha dato uno sbocco ai prodotti cinesi, spesso di buona qualità, realizzati a costi contenuti e secondo le esigenze dei committenti stranieri.
Questo computer sicuramente è stato assemblato, se non costruito integralmente da mani cinesi. Oggi, o meglio negli ultimi anni, certamente dopo l’epidemia del Covid, le esigenze internazionali della Cina sono cambiate.
Non si è trattato più di assecondare i bisogni dei mercati internazionali, ma di sostenere la creazione e lo sviluppo di tali bisogni direttamente fuori dai confini nazionali.
Nel 2013 la Cina ha lanciato la politica della cosiddetta “Via della Seta” (Yidai yilu), navale o terrestre, per incentivare e sostenere la creazione di nuovi mercati in altri Paesi così da sorreggere la produzione cinese, come ad esempio in Africa dove la Cina sta costruendo numerose infrastrutture commerciali, oppure per facilitare lo sviluppo delle relazioni commerciali attraverso il continente euroasiatico. Infatti, su questo fronte la Cina ha lavorato per ottenere infrastrutture in grado di agevolare la propria espansione commerciale in Europa: il porto di Taranto, mai ceduto a causa della difficoltà di garantire un adeguato supporto logistico ed infrastrutturale nel suo entroterra; Vado Ligure, Portogruaro in Veneto, il porto di Genova, il collegamento ferroviario diretto fra Cina ed Europa: tutte azioni volte ad aprire sbocchi per agevolare il flusso di merci cinesi in Europa.
Adesso si sta aprendo una nuova fase. Non più solo merci cinesi a basso costo, adattate alle esigenze dei mercati esteri, ma anche e sempre più prodotti ad elevato contenuto tecnologico, oggetti all’avanguardia, come le auto a trazione elettrica.

Migliaia di malattie rare restano senza terapia, perché la ricerca non viene finanziata

È una malattia rara che impedisce il neuro sviluppo e si caratterizza con dimorfismi cranio facciali, disabilità intellettiva, spettro autistico, totale o parziale assenza di linguaggio. È la Sindrome di Helsmoortel Van der Aa, o ADNP, che prende il nome dal gene riconosciuto solo nel 2014. Sono 400 i casi nel mondo, 20 in Italia. I pazienti sono quasi tutti in età pediatrica e adolescenziale, il più vecchio è under 30. Trattandosi di una patologia di recente acquisizione i dati sono sicuramente in difetto, manca una letteratura scientifica di riferimento, gli studi sono agli esordi, la sperimentazione ha superato solo la fase animale. non ci sono prassi terapeutiche, centri clinici, percorsi individualizzati. È proprio l’esiguo numero di casi a scoraggiare investimenti in ricerca, farmaci, futuro. Un faro sulla malattia – e su tutte le patologie rare che riguardano bambini – lo ha acceso il fresco di stampa Il mostro sotto il letto (Giraldi Editore), di Salvatore Savasta, concepito come una lettera alla moglie Alessia. Nel testo l’autore racconta il rapporto con la figlia, Zaira, 8 anni, affetta da ADNP. Un discorso, il suo, estendibile a tutte le coppie costrette a convivere nella totale incertezza, la stessa che spesso le logora per il differente approccio alla malattia, alla sofferenza, al senso di impotenza che avanza e sovrasta. Perché quando si parla di malattie rare, come rileva Savasta, non si parla solo di chi ne è affetto, ma di chi ogni giorno si prende cura di chi ne è affetto. Una piccola grande popolazione.

Sono circa 10 mila le malattie rare, tra cui rientrano le ultra rare, con un’incidenza di meno di 1 caso ogni 50 mila persone, come l’ADNP. Perché è così difficile intercettare e destinare risorse per la ricerca? Lo abbiamo chiesto a Ilaria Ciancaleoni Bartoli, direttrice dell’Osservatorio Malattie Rare-OMaR. «Per portare un farmaco ai pazienti, anche quelli affetti da malattie comuni, servono anni di ricerca, sperimentazioni e iter approvativi complessi. Per le malattie rare ci sono degli ostacoli in più: bisogna prima di tutto comprendere bene come agisca la singola patologia e poi cercare un numero sufficiente di pazienti idonei alla sperimentazione di una potenziale terapia. Nonostante ciò la ricerca, in parte pubblica ma per lo più privata, quindi condotta dalle aziende farmaceutiche, ha già portato allo sviluppo di numerosi farmaci orfani», come vengono definiti quelli indicati per le malattie rare. Al 31 dicembre del 2022 in Europa ne risultavano approvati 139, un buon numero, tuttavia esiguo se raffrontato alle «migliaia di patologie rare prive di terapia. La ricerca dunque c’è – tiene a sottolineare Ciancaleoni Bartoli – e porta anche a risultati importanti, ma la strada è ancora lunga e occorre capire come incentivare ulteriormente gli sforzi della scienza nel campo delle malattie rare e, soprattutto, ultra-rare. Le terapie che abbiamo oggi sono arrivate negli ultimi 20 anni e se ciò è avvenuto lo si deve in buona parte al Regolamento Europeo sui Farmaci Orfani Regolamento CE n. 141/2000) che ha saputo incentivare le aziende dando facilitazioni burocratiche e garanzie senza cui sarebbe stato difficile affrontare questa sfida, costellata di difficoltà che si riflettono anche sul prezzo finale di questi medicinali. Non è semplice rendere questo sforzo sostenibile per la ricerca privata e, al tempo stesso, per un sistema sanitario come il nostro, dove – per fortuna – non ci sono meccanismi assicurativi che discriminano le persone in base al reddito ma in cui, di contro, bisogna cercare di far bastare le risorse per tutti i cittadini». Il cuore del problema è quello del prezzo e della redditività dei farmaci. Tradotto: il gioco non vale la candela per pochi pazienti e le terapie rimangono indietro. Una lentezza che contrasta con l’urgenza conoscitiva – non risolutiva – di genitori, come Salvatore e Alessia, che hanno avuto la diagnosi solo nel 2022, dopo anni di peregrinazioni per ambulatori e ospedali e dopo essersi trasferiti da Palermo a Pordenone per consentire a Zaira di essere seguita all’IRCCS Materno Infantile Burlo Garofalo di Trieste. Una diagnosi che li ha messi di fronte a una verità che hanno accettato in tempi diversi, con modalità diverse, con speranze diverse. Perché l’irreversibilità della malattia di chi si genera può creare divisioni, confusione di ruoli, può portare all’auto isolamento sociale, all’auto emarginazione. Savasta declina la solitudine, forse più protettiva della fiducia nella vita e nella scienza, un lusso che richiede energia e tempo. «Ora – le parole di Ciancaleoni Bartoli – si sta lavorando ad una revisione del Regolamento CE n. 141/2000 che vada in direzione di incentivare la ricerca sulle malattie ultra-rare, ma questa revisione deve compiere ancora molti passaggi ed è difficile dire se si riusciranno a produrre gli effetti sperati».

Approfondimenti sui farmaci orfani consultare il VII Rapporto OSSFOR

L’autrice: Camilla Ghedini è giornalista, scrittrice e docente a contratto al master di giornalismo della Alma Mater Bologna