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Cosa c’è dietro il veto del governo sull’educazione sessuale a scuola

Con l’approvazione in Commissione cultura della Camera dell’emendamento al disegno di legge Valditara, il governo ha eliminato, fino alla fine della media, una delle iniziative più significative e delicate della scuola: quella pensata per l’educazione alla sessualità e all’affettività.

Per inciso, già il termine “educazione” merita una riflessione. “Educare” alla lettera vuol dire “tirar fuori”. La parola è bella e profonda, se intesa nel senso di permettere ai ragazzi di esprimere il loro pensiero, le loro passioni, o nel senso di interessarsi al loro sviluppo personale e sociale. Idealmente, però, non dovremmo aver bisogno di educare, di “tirar fuori” né l’affettività né la sessualità, che appartengono all’assoluta naturalità dell’essere umano. Ciò che gli adulti dovrebbero piuttosto scongiurare è che tali dimensioni del tutto spontanee vengano offese o vadano perdute. Ma, al di là delle parole, ciò che conta è rendere questi percorsi stabili, diffusi e accessibili a tutti. Non sono un lusso, ma una necessità civile.

La nuova norma stabilisce, invece, che nelle scuole dell’infanzia, primarie e secondarie di primo grado, quindi fino a circa quattordici anni, siano vietate tutte le attività e i progetti che affrontano direttamente la sessualità o l’affettività, anche attraverso laboratori o incontri con esperti esterni. Solo nelle scuole superiori tali iniziative restano possibili, previo consenso scritto delle famiglie, che devono essere informate nel dettaglio su temi, materiali e persone coinvolte.

Togliere ai ragazzi la possibilità di confrontarsi con questi argomenti proprio durante la pubertà può avere effetti molto negativi sul loro sviluppo psichico: è in questo delicato passaggio dall’infanzia all’adolescenza che rischiano, infatti, di incontrare difficoltà nel costruire un senso di intimità e identità. Lavorare su affettività, rispetto e relazioni sane a scuola può essere, inoltre, decisivo per chi vive in contesti familiari difficili: negare questi spazi significa lasciare quei ragazzi senza punti di riferimento, privandoli della possibilità di percepire speranza, fiducia negli altri e di vivere rapporti validi alternativi alla famiglia. Sentirsi amati. Affidare poi ai genitori la decisione di dare o meno il consenso è paradossale: le famiglie più chiuse o problematiche, dove l’intervento scolastico sarebbe più necessario, spesso rifiutano; mentre i genitori attenti e disponibili, per i cui figli l’iniziativa della scuola non è essenziale, danno l’assenso. Si svuota così il compito fondamentale di una scuola equa, dove ogni ragazzo, al di là del contesto sociale di origine, dovrebbe poter accedere alle stesse opportunità di crescita.

Il messaggio implicito è chiaro: si diffida della scuola e si affida alla famiglia il potere di decidere cosa i ragazzi possono sentire, sapere e cercare nelle relazioni. Quello che dovrebbe essere un diritto alla comprensione e alla tutela diventa controllo, che alimenta il silenzio anziché il confronto e genera sospetto verso la conoscenza stessa.

Il ministro Valditara parla di “tutela delle famiglie” e di “diritto all’informazione”. In realtà, l’emendamento tradisce sfiducia nei confronti della scuola e dei giovani. Riduce l’autonomia educativa delle istituzioni, sostituendola con una logica paternalista e conservatrice. La sessualità diventa una minaccia, la curiosità un rischio, e la formazione un confine da non oltrepassare. Invece di proteggere, si mortifica: i ragazzi vengono privati della possibilità di comprendere, di ricevere risposte e di confrontarsi con la complessità e la ricchezza della propria interiorità.

Questa posizione non è una novità nella storia culturale italiana. Ogni germoglio di cambiamento viene spesso soffocato da una retorica che confonde pudore e paura. Da decenni l’Italia non ha un percorso stabile e sistematico per affrontare questi temi in modo laico, scientifico e umano: le iniziative nascono per lo più dal basso, da insegnanti, dirigenti scolastici, associazioni, psicologi, e finiscono spesso nell’indifferenza o, peggio, nell’ostilità politica. Solo in momenti straordinari, come durante la pandemia, si erano aperti spazi di ascolto e confronto sull’affettività, sull’identità e sulle relazioni. Ma il ritorno alla “normalità” ha visto il ritorno del silenzio o del vuoto di contenuti che pesa sulle giovani generazioni.

Mentre il mondo intorno evolve, l’Italia sembra guardare indietro. In Paesi come la Finlandia, i Paesi Bassi o la Svezia, sessualità e affettività sono considerate parti integranti della crescita: si parla di corpo e psiche, di emozioni e diversità, di consenso e rispetto. Si comprende che conoscere significa prevenire, che nominare le cose è il primo passo per non percepirle minacciose e poterle affrontare. In Italia, invece, la parola dei ragazzi è censurata, la conoscenza rinviata, la paura elevata a norma.

Sono i giovani stessi a chiedere strumenti per capire sé stessi e gli altri. Non cercano lezioni teoriche o morali, ma spazi aperti in cui parlare senza vergogna, senza giudizio, senza sentirsi sbagliati. I ragazzi vogliono parlare di sessualità ma non con i genitori. E a ragione. Un conto è rispondere con naturalezza alle curiosità dei bambini, un conto è affrontare con figli adolescenti aspetti di crescita intimi che, in quanto passi qualitativi di sviluppo dell’identità, richiedono una certa separatezza interiore dai genitori. Molti ragazzini si sentono soli e disorientati, cercano risposte su internet, nei social, nei gruppi online, ma spesso trovano solo altre domande in un circolo vizioso. Quando si rivolgono agli adulti, incontrano disagio, imbarazzo o reticenza: parlare di sessualità è ancora un tabù.

I giovani non vogliono più tacere. Vogliono confrontarsi e crescere in modo libero e consapevole. È probabile che sia proprio questa loro esigenza a suscitare timore: la libertà di interrogare il mondo, di mettere in discussione ruoli di genere e gerarchie consolidate, di esplorare nuove modalità di relazione diventano elementi da controllare. L’emendamento al disegno di legge Valditara non è solo un atto amministrativo, ma un messaggio culturale: si tenta di soffocare il nuovo imponendo il vecchio, riaffermando un modello di famiglia che controlla, giudica e regola e uno di scuola che addestra invece di favorire lo sviluppo dell’identità.

Dietro l’appello alla “tradizione” si nasconde la paura della libertà: la sessualità, intesa come apertura e relazione, viene percepita come una minaccia da confinare. Il diritto alla conoscenza si trasforma in sospetto e controllo. La ricerca scientifica è chiara: offrire strumenti concreti per affrontare la sessualità riduce gravidanze precoci, previene la violenza di genere, migliora la salute mentale e favorisce relazioni sane. Non si tratta di ideologia, ma di benessere collettivo. Eppure, l’Italia continua a ignorare l’evidenza, scegliendo oscurantismo e propaganda invece della ricerca.

Si condannano la violenza di genere, i femminicidi, le aggressioni tra adolescenti, e si chiudono, poi, le porte dei luoghi in cui quella violenza potrebbe essere prevenuta. Si interviene sul sintomo e si coltiva la causa. La sessualità non è un pericolo da evitare, ma un linguaggio da rendere sempre più fluido e personale: curiosità, attesa, consapevolezza di sé, apertura all’altro, libertà di scegliere e esprimersi. Trasformarla in tabù significa ostacolare lo sviluppo, ridurre la curiosità, mortificare l’immaginazione. La scuola, invece di essere laboratorio di umanità – per fortuna ci sono docenti che custodiscono il valore umano e sociale della loro professione – rischia di diventare un ufficio della conformità, un posto dove si insegna a non chiedere, a non sentire, a non pensare.

L’emendamento leghista è la fotografia di un Paese che teme i propri giovani, un Paese che di fronte alle nuove generazioni sceglie chiusura, controllo e censura. Ma la storia non si ferma: ragazzi e ragazze continueranno a parlare, a cercare, a scoprire, anche dove gli adulti si sono fermati. È da loro che può nascere un’Italia capace di comprendere che la crescita personale non è un recinto morale, ma un percorso di identità e libertà.

l’autrice: Cecilia Iannaco è psicologa, psicoterapeuta e vice presidente Netforpp

Foto di Taylor Flowe su Unsplash

“Vivono”. Al Centro Pecci la storia “dimenticata” dell’Aids in Italia

Vivono. Arte e affetti HIV e AIDS in Italia. 1982-1996, laa mostra curata da Michele Bertolino al Centro Pecci di Prato (aperta fino al 10 maggio 2026) non è una semplice retrospettiva, ma un atto fondativo per la storiografia dell’arte italiana alle prese con una drammatica emergenza sanitaria a lungo oscurata: la crisi Hiv/Aids. L’iniziativa si posiziona come la prima mostra istituzionale italiana dedicata esclusivamente alla ricomposizione della storia dimenticata degli artisti italiani colpiti da questa epidemia.
Il periodo selezionato, che va dal 1982 (prima segnalazione di Aids in Italia) al 1996 (introduzione delle terapie antiretrovirali, Haart), è cruciale. Esso demarca quattordici anni di profonda vulnerabilità, assenza di cure efficaci e un clima di intensa stigmatizzazione sociale. L’obiettivo della curatela è restituire l’urgenza di quel tempo, in cui il silenzio politico e lo stigma sembrarono in grado di cancellare le conquiste del movimento per i diritti Lgbt+, riportando alla ribalta, anche in Italia, il nesso tra omosessualità e una malattia con esito per lo più mortale. Questo nesso fu strumentalizzato da settori oscurantisti del mondo cattolico per demonizzare entrambe le cose.
A differenza dei Paesi anglosassoni, che videro l’emergere di un forte attivismo artistico e politico, come l’Activist art, un’arte di forte impatto politico e sociale immediato, del collettivo Gran Fury negli Stati Uniti, l’Italia manifestò un ritardo nel dibattito pubblico e, come sottolineato dal direttore del Pecci, Stefano Collicelli Cagol, “mai una presa d’atto forte” contro il silenzio politico. Questo vuoto storiografico e la mancanza di una tradizione di attivismo museale hanno portato a una narrazione frammentata del trauma.
L’approccio curatoriale di Bertolino, supportato da un’estesa ricerca finanziata dal Mic, risponde a questa frammentazione adottando una metodologia basata sugli “affetti”. La mostra è concepita come un “puzzle” che integra opere visive con poesie, paesaggi sonori e materiali d’archivio e memorie personali. Questo privilegia la testimonianza soggettiva e la ricostruzione emozionale, ritenute essenziali per recuperare la “vulnerabilità di quel periodo”. L’interpretazione esige un atteggiamento “timido”, quasi ricettivo, data la natura intima e dispersa dei materiali italiani.
In assenza di una forte agency politica organizzata, l’arte prodotta in Italia in quel periodo si è incanalata nella fenomenologia del dolore privato e della testimonianza corporea e poetica. La mostra celebra questa resistenza affettiva dedicando tre sale monografiche a figure centrali la cui opera integra strettamente “poesia, immagine e corpo”. Tra loro, Nino Gennaro (1962–1994), riconosciuto come un “pioniere queer”: la sua arte e vita sono una testimonianza di un'”umanità tanto ‘esclusa’ quanto vitale e creativa”. Il suo lavoro è un fondamentale archivio queer mappato attraverso l’espressione corporea. Patrizia Vicinelli (1943–1991), presentata come figura la cui esperienza di malattia si traduce in una nuova forma espressiva. Vicinelli “dà alla parola uno spessore fisico, la trasforma in corpo, fragile e combattivo”. Questo riflette l’invasione fisica della malattia e la resistenza poetica attraverso la propria vulnerabilità. Infine, Francesco Torrini (1962–1994) è l’autore di Commemuro (1993), un memoriale in vetro, carta e piombo per “amiche e amici morti a causa dell’Aids”. L’opera, già parte della collezione del Pecci, funge da ancoraggio memoriale istituzionale e simbolo contro la cancellazione.
La risposta italiana all’emergenza sanitaria fu un attivismo di natura essenzialmente affettiva, l’unica forma possibile in un clima di oscurantismo. Parallelamente, anche in letteratura, autori come Pier Vittorio Tondelli (Camere separate, 1989) e Dario Bellezza raccontarono la malattia come dolore per la perdita e come “accusa a una società che fugge pavidamente”. L’inclusione in mostra di opere internazionali di artisti come Gran Fury (con i manifesti dell’attivismo tattico) e Felix Gonzalez-Torres (con l’intimità del suo linguaggio concettuale) contestualizza il dibattito, riattivando influenze che negli anni 80 e 90 non trovarono un corrispettivo politico efficace in Italia.
La mostra acquisisce una risonanza particolare nel contesto contemporaneo. La recente pandemia da Covid-19 ha esposto l’umanità a una consapevolezza della vulnerabilità che rievoca il terrore e l’incertezza degli anni iniziali dell’Aids. Tuttavia, la persistenza dello stigma legato all’Hiv – anche in presenza di progressi medici come il concetto U=U (Undetectable = Untransmittable), che ha de-medicalizzato la crisi – dimostra che la vulnerabilità biologica non si traduce automaticamente in sensibilità sociale. Lo stigma attuale è prevalentemente sociale e culturale. Vivono dimostra che la guarigione sociale dallo stigma richiede un lavoro culturale continuo e istituzionale. L’atto di recuperare memorie, affetti e figure come Nino Gennaro costituisce un atto politico nel dibattito contemporaneo sui diritti queer e serve da strumento di memoria storica affinché le nuove generazioni possano – come recita il comunicato stampa della mostra – “cautelarsi quando si confrontano con altri corpi e desideri”. È compito delle istituzioni trasformare la vulnerabilità biologica in sensibilità sociale.

L’autore: Lorenzo Pompeo è slavista, traduttore, saggista e docente universitario. Per i tipi di Left ha pubblicato il libro Carlo Levi, vita di un antifascista, medico e artista 

Abbonamento al male: rinnovato per altri tre anni

Otto anni dopo, l’Italia continua a firmare assegni ai suoi torturatori. Si chiama Memorandum Italia-Libia, ma è un contratto di outsourcing della vergogna: noi paghiamo, loro sparano, torturano, rinchiudono. Ogni tre anni il rinnovo scatta da solo, come un abbonamento al male. Nessun governo lo ha mai revocato. Tutti lo hanno protetto, da Minniti a Meloni, passando per chi finge di non averlo mai letto.

Nel 2025 più di 19 mila persone sono state intercettate in mare e riconsegnate alle galere di Tripoli e Al Khums. Dentro quei capannoni si muore di fame, si viene venduti, stuprati, estorti. L’ONU li definisce “scenari di crimini contro l’umanità”, ma per Roma sono “partner affidabili”. Ad agosto una motovedetta donata dall’Italia ha aperto il fuoco sulla Ocean Viking, con decine di naufraghi a bordo. Le immagini mostrano uomini armati che sparano contro chi salva vite. È la logica del Memorandum ridotta all’essenza: delegare la ferocia per restare puliti.

Nel Mediterraneo si consuma ogni giorno la menzogna europea dell’umanità selettiva. Le motovedette libiche sparano, le autorità italiane sorvegliano dai radar e chiamano soccorso solo quando conviene. Frontex segnala, i libici catturano, e noi applaudiamo ai “successi nella lotta ai trafficanti”. È la catena del disonore: Bruxelles che paga, Roma che tace, Tripoli che colpisce.

Il Parlamento ha appena lasciato che il rinnovo scattasse da solo. Nessuno ha alzato la mano. Si preferisce contare i voti, non i morti. Si dice “ordine”, si pratica la barbarie. E chi prova a raccontarla viene criminalizzato. Le navi umanitarie sequestrate, i volontari inquisiti, i corpi restituiti al mare.

Il Memorandum non ferma i trafficanti: li finanzia. Li veste da guardia costiera, li arma, li legittima. È la fotografia perfetta di un Paese che chiama sicurezza ciò che è viltà, e politica ciò che somiglia terribilmente a un crimine. Un Paese che ha sostituito il diritto con la paura e la paura con l’abitudine.

E quando, fra qualche anno, un’altra inchiesta ONU dirà che l’Italia era complice, qualcuno fingerà sorpresa. Diranno che non sapevano, che obbedivano agli alleati, che era “necessario”. È la stessa scusa che accompagna ogni disastro morale: la burocrazia del male funziona solo quando tutti scelgono di non guardare.

Buon venerdì.

Immagine dal sito della Ong Sea-Watch

Italia complice: il governo Meloni rinnova il patto con la Libia dei lager dove scompaiono i migranti

Il 2 novembre 2025 scade di nuovo la finestra per interrompere il Memorandum tra Roma e Tripoli sul contrasto all’immigrazione illegale. L’accordo – di durata triennale con rinnovo automatico – prevede fondi, addestramento e supporto logistico alla cosiddetta Guardia costiera libica, oltre alla costruzione e manutenzione di centri di detenzione per migranti “irregolari”.

L’Italia sembra aver già scelto la via della continuità: ieri la Camera ha approvato la mozione della maggioranza che chiede di “proseguire la strategia nazionale di contrasto ai trafficanti e di prevenzione delle partenze dalla Libia”, confermando di fatto l’intenzione di rinnovare la validità del Memorandum stipulato per la prima volta nel 2017. Respinte entrambe le mozioni dell’opposizione: quella di Pd, Alleanza Verdi e sinistra, Italia viva e +Europa, che chiedeva di non procedere a nuovi rinnovi automatici e sospendere ogni cooperazione che comporti ritorni forzati in Libia, e quella del M5s, che proponeva di interrompere il rinnovo per consentire una revisione dell’accordo.

«Ho lasciato il Sudan e ho vissuto gran parte della mia vita in campi profughi. Lì ho capito davvero cosa spinge le persone a lasciare la propria terra. Sono stato anche detenuto in un lager per migranti a Tripoli. Quando sono arrivato in Libia, ho trovato una situazione completamente diversa da quella che immaginavo».

A parlare è Mahamat Daoud, uno dei fondatori di Refugees in Libya, un movimento nato dal basso da persone sopravvissute alla detenzione e alla tortura nei centri libici per migranti. È in quelle celle, racconta, che la consapevolezza individuale si è trasformata in azione collettiva: «Nessuno parlava di noi, di ciò che subivamo. Così è nato Refugees in Libya, da un gruppo di persone superstiti ai lager per migranti. Eravamo a Tripoli, in un centro di detenzione, e abbiamo deciso di iniziare a protestare. Il primo ottobre del 2021 abbiamo organizzato la prima manifestazione davanti all’ufficio dell’Unhcr (l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, ndr), seguita da un presidio durato cento giorni, chiedendo visibilità, protezione e rispetto dei diritti umani».

La risposta, però, non è stata il dialogo, ma la repressione: arresti, pestaggi, nuove deportazioni. «Alcuni di noi – racconta Daoud – sono stati rinchiusi in celle frigorifere, senza cibo né acqua. C’erano donne, bambini, anziani. È stato un inferno. Ma abbiamo continuato a denunciare e a provare a farci sentire dall’opinione pubblica globale, perché sapevamo che dietro tutto questo c’erano anche i soldi e le decisioni dell’Europa».

Dal 2017 a oggi, oltre 135 mila persone sono state intercettate in mare e riportate con la forza nei lager libici, secondo i dati di Oim e Unhcr. Numeri che non raccontano “salvataggi”, ma respingimenti delegati alla sedicente Guardia costiera di Tripoli.

Le missioni civili di monitoraggio e soccorso nel mare Mediterraneo, come quelle di Mediterranea Saving Humans e Sea-Watch, e il team del progetto Alarm Phone che raccoglie e rilancia gli sos dei migranti hanno documentato decine di casi di coordinamento diretto tra le autorità italiane e libiche, con navi europee che restano a distanza mentre i migranti vengono catturati e riportati nei centri di detenzione. Un sistema sofisticato che consente all’Europa di dire “non li abbiamo respinti”, ma che produce lo stesso risultato, con la differenza che la violenza resta invisibile.

Il sistema corroborato dal Memorandum è quello di una esternalizzazione della frontiera. Così l’Europa paga perché la Libia faccia il “lavoro sporco”.
Motovedette, prigioni e milizie che gestiscono i centri – spesso le stesse coinvolte nel traffico di esseri umani – operano grazie a fondi europei e addestramento italiano. Le denunce di torture, stupri e sparizioni non hanno mai interrotto il flusso di denaro.

«Il Memorandum ha “legittimato” pratiche disumane», spiega Daoud. «Ci sono comandanti dei centri di detenzione libici che dovrebbero essere processati dalla Corte penale internazionale, e invece ricevono addestramento e stipendi. L’Italia e l’Unione Europea sanno tutto questo, e continuano a chiamarla cooperazione».

Il 4 giugno 2025 l’Ufficio dell’Alto commissariato Onu per i Diritti umani ha avviato un’inchiesta sulla scoperta di fosse comuni nei pressi di Tripoli. Secondo le indagini, “decine di corpi” – alcuni carbonizzati, altri conservati in frigoriferi ospedalieri – sarebbero stati rinvenuti in siti riconducibili al gruppo armato Stabilization support apparatus (Ssa), operativo sotto la Presidenza del Consiglio del governo di unità nazionale libico.

Se il governo non cambierà rotta entro il prossimo 2 novembre il Memorandum sarà rinnovato automaticamente per altri tre anni.
Le associazioni impegnate nel fermare l’accordo – tra cui Refugees in Libya, Mediterranea Saving Humans, Asgi e altre reti internazionali – chiedono la cancellazione immediata dell’intesa e la fine dei finanziamenti a un sistema di detenzione e tortura che opera con la complicità dello Stato italiano.

In questi giorni, Roma è il cuore degli Action Day contro il Memorandum: una settimana di iniziative, incontri pubblici e presìdi per denunciare la politica dei respingimenti e chiedere la fine della cooperazione con la Libia.

Momento centrale della mobilitazione sarà la manifestazione di sabato 18 ottobre, alle ore 14 in Piazza Vidoni. L’appello delle associazioni è chiaro: “Stop al Memorandum”, basta fondi a chi tortura e detiene, basta complicità europee nei crimini che si consumano ai confini del Mediterraneo. Una voce collettiva che, parte dalle strade di Roma per chiedere all’Italia e all’Europa di scegliere finalmente l’umanità.

Lavoro. Quante falle nella narrazione ottimistica del governo Meloni

La narrazione molto ottimistica del governo Meloni è fatta di rivendicazioni di risultati e di silenzi su quel che non funziona. In campo economico si sbandiera l’andamento moderatamente positivo dei conti dello Stato tacendo o negando i molti tagli che favoriscono una contabilità “ordinata”. Nel campo del lavoro si infiocchettano molto i numeri dell’occupazione. Che, almeno fino a questa estate, venivano presentati come straordinariamente positivi. E che però, in agosto, hanno cominciato a perdere terreno.

Contemporaneamente, si tace l’arretramento costante del tessuto industriale, mentre il ministero delle Imprese e del Made in Italy fa, più o meno, sempre gli stessi annunci, ad esempio su siderurgia e automotive, da tre anni a questa parte. In merito alla sicurezza sul lavoro, poi, ben poco si dice dal fronte governativo. A parte fare un po’ di makeup ai dati incrociandoli con quelli dell’occupazione: + occupati: stessi infortuni = diminuzione degli incidenti. Fatto sta che, il 6 ottobre, l’Inail ha diffuso i dati relativi alle denunce di infortuni e malattie professionali nei luoghi di lavoro e in itinere, ossia durate il tragitto casa-lavoro-casa, presentate nei primi otto mesi del 2025.

Ebbene, districandoci tra i numeri emerge che nei primi 8 mesi di quest’anno i casi di infortuni mortali denunciati all’Inail, esclusi gli studenti, sono stati 674: cioè un numero equivalente quello dello stesso periodo del 2024. Di questi, 488 sono avvenuti sui luoghi di lavoro, 15 in meno rispetto ai 503 registrati nel 2024, con una flessione del -3%; 186 casi si sono verificati in itinere e sono 15 in più rispetto ai 171 registrati nel 2024, ovvero un + 8,8%. Quindi, il numero dei morti sul lavoro e in itinere di quest’anno rimane, fin qui, invariato rispetto all’anno precedente: sono sempre 674. A cambiare è la composizione dell’insieme tra “occasione di lavoro” e “in itinere”.

Questi dati, inoltre, confermano che siamo ancora lontani dall’obiettivo di abbattere il muro dei mille morti sul lavoro all’anno. Naturalmente si tratta, come spiega l’Inail, di dati provvisori, non consolidati, e il loro confronto richiede una certa cautela nelle analisi. Vedremo perciò i dati definitivi una volta certificati. Ma la tendenza appare in sé chiara. Le denunce di infortuni, esclusi quelli subiti dagli studenti, presentate nei primi otto mesi del 2025 sono state 333.775, di cui 271.976 in occasione di lavoro e 61.799 in itinere: nel complesso un -1,1%. Vediamo la situazione nei settori produttivi. Gli infortuni calano nei servizi di supporto alle imprese (-4,9%), nei Trasporti e magazzinaggio (-3%), nella Manifattura (-2,9%). Crescono, invece, nelle Costruzioni (+2,4%), nel Commercio (+1,4%), nella Sanità, nell’assistenza sociale e nelle Attività dei servizi di alloggio e di ristorazione (+0,2%).

Da notare che la diminuzione delle denunce di infortunio che emerge dal confronto tra il 2024 e il 2025 riguarda solo gli uomini, con un calo del 2,5%, mentre per le donne si registra un aumento dello 0,3%. In flessione le denunce dei lavoratori italiani (-2,6%) al contrario di quelle degli stranieri (+1,8%). L’analisi per classi di età mostra un calo nella fascia che va dai 15 ai 59 anni (-2,7%) e aumenti per gli over 59 (+5,9%). In coerenza, va rilevato, con la crescita dell’occupazione degli ultra-cinquantenni e del calo di quella giovanile. C’è purtroppo da segnalare, e questo è il dato certamente più doloroso, una ulteriore crescita delle denunce di infortunio relative agli studenti. Si tratta di 50.232 casi, in crescita del 2,5% rispetto ai 49mila del 2024. Delle oltre 50mila denunce di infortunio, 1.229 riguardano studenti coinvolti nei percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento (PCTO), in riduzione dell’11,1% rispetto al 2024. L’incidenza degli infortuni occorsi agli studenti rappresenta il 13,1% del totale delle denunce registrate nel 2025.

I casi mortali denunciati entro il mese di agosto 2025 risultano essere 7 contro i 6 del 2024. Per quel che riguarda le denunce di malattia professionale protocollate nei primi otto mesi del 2025, esse sono 64.118, ossia 5.261 in più rispetto allo stesso periodo del 2024, in crescita percentuale del 9%. Un altro dato allarmante. Le malattie crescono del 9,0% in Industria e servizi e di quasi il 9% in Agricoltura. Le patologie del sistema osteo-muscolare e del tessuto connettivo e quelle del sistema nervoso e dell’orecchio continuano a rappresentare, anche nei primi otto mesi del 2025, le prime tre tipologie di malattie professionali denunciate, seguite dai tumori e dalle patologie del sistema respiratorio. Insomma, la situazione sul fronte della tutela della salute e della sicurezza sul lavoro non sta affatto migliorando. E dalle azioni dell’Esecutivo non si registra nessuna spinta verso l’adozione di misure e strumenti che favoriscano la prevenzione dei rischi. Questo, nonostante il fatto che le tecnologie digitali e l’AI ci offrano strumenti che potrebbero permetterci di migliorare notevolmente la situazione. Vedremo la chiusura del 2025 sul fronte degli infortuni e delle malattie professionali. Ma, al momento, non c’è ragione di manifestare ottimismo. Nel complesso, i dati dell’economia e del sociale mostrano evidenti contraddizioni e criticità. Vedremo che risposte saprà fornire la legge di Bilancio. 15 ottobre 2025

L’autore: Già ministro del Lavoro, Cesare Damiano è presidente di Lavoro&Welfare

Pamela e l’educazione che non vogliamo insegnare

Pamela Genini aveva 29 anni. È stata uccisa a coltellate dal compagno, a Milano. Lui non ha accettato la sua libertà. Una donna punita per avere espresso la propria volontà. È cronaca che ritorna: un «no» trasformato in condanna.

Non è gelosia. È la cultura del possesso che scambia l’amore con il dominio e la libertà femminile con una minaccia. È il lessico che addolcisce la violenza, titoli che parlano di raptus, interviste che cercano attenuanti, giornali che raccontano il carnefice come una vittima del momento.

Ogni femminicidio accade dentro un sistema che ancora non riconosce il rifiuto come diritto. Il «no» di una donna è percepito come affronto. Prevenire significa credere alle donne, costruire reti che funzionino prima e dopo la denuncia, formare chi ascolta le loro parole, proteggere chi decide di uscire.

Intanto la politica imbocca una scorciatoia: un emendamento che cancella dalle scuole medie l’educazione sessuale e affettiva. Si toglie ai ragazzi lo spazio in cui si impara il consenso, si nominano i confini, si riconosce la violenza. È un arretramento culturale profondo. Chi rimuove quella lezione rinuncia a fare prevenzione e preferisce tornare alla rassegnazione.

Ogni volta che l’Italia spegne la voce dell’educazione, lascia parlare la cronaca nera. Ricominciare da lì – dall’educazione affettiva obbligatoria, con docenti formati e programmi verificati – non è ideologia: è sopravvivenza civile. Cancellarla è scegliere l’ignoranza come politica pubblica.

Foto di Xavi Cabrera su Unsplash

La povertà non cala perché il lavoro vale sempre meno

In Italia ci sono più di un milione di occupati in più rispetto all’inizio della legislatura, eppure la povertà resta esattamente dov’era. L’Istat fotografa un Paese che lavora di più ma vive peggio: 5,7 milioni di persone in povertà assoluta nel 2024, pari al 9,8% dei residenti, contro il 9,7% dell’anno precedente. Cresce anche la povertà relativa, che riguarda quasi 9 milioni di italiani.

È la smentita più chiara alla narrazione del governo Meloni, che da due anni celebra il “record di occupazione” come segno di benessere diffuso. I numeri raccontano altro: il 7,9% delle famiglie con un occupato è povero, come lo era nel 2023 e nel 2022. Tra gli operai il tasso sale al 15,6%, e nel Mezzogiorno tocca il 10,5%. Un terzo delle famiglie composte solo da stranieri è in povertà assoluta.

Mai così tanti, poi, i minori poveri: 1,3 milioni, il 13,8% del totale. È il dato più alto della serie storica. L’Italia del “lavoro che cresce” è anche l’Italia in cui le famiglie numerose sopravvivono con salari che non coprono l’inflazione, dove l’intensità della povertà resta inchiodata al 18,4%, e dove chi lavora spesso è solo un povero con meno tempo libero.

Dietro la retorica dell’occupazione, c’è la realtà del salario minimo mancato, dei contratti precari e del costo della vita che corre. Il lavoro non basta più a vivere: in un Paese che si illude di crescere, la vera emergenza è che la fatica non paga. E che il merito, tanto evocato dal governo, vale solo finché serve a giustificare le disuguaglianze, non a correggerle.

Buon mercoledì. 

 

Foto di Shivendu Shukla su Unsplash

Povertà alimentare in Italia: la scelta negata che rovina la vita di adolescenti e famiglie

In Italia parlare di povertà alimentare significa descrivere una condizione ormai strutturale, che attraversa il Paese in modo silenzioso e diseguale che riguarda un numero crescente di persone e famiglie che faticano a garantire continuità, qualità e dignità alla propria alimentazione. Nel 2023 l’11,8% della popolazione sopra i sedici anni – quasi 6 milioni di persone – era in condizione di deprivazione alimentare materiale o sociale, cioè non riusciva, per ragioni economiche, a permettersi un pasto con carne, pesce o un equivalente proteico ogni due giorni (deprivazione materiale) e/o a condividere almeno un pasto al mese con amici o familiari (deprivazione sociale). Si tratta in larga parte di persone che non rientrano nelle soglie ufficiali di povertà assoluta o relativa dell’Istat e che quindi restano invisibili alle politiche pubbliche, pur vivendo una vulnerabilità alimentare concreta e quotidiana. Non parliamo di “fame” in senso stretto. Povertà alimentare, in Paesi ricchi come il nostro, non significa necessariamente non avere abbastanza cibo: è una condizione che limita la possibilità di scegliere cosa, quanto, come e con chi mangiare. Costringe a farsi guidare dal prezzo più che dalle proprie preferenze, a rinunciare alla qualità e alla varietà, a ridurre porzioni e a evitare momenti conviviali, per l’imbarazzo o la vergogna di dover ammettere di non poterselo permettere.
Si tratta di una progressiva compressione della libertà di scelta legata al cibo, che incide su dignità e autonomia, e che è il risultato di dinamiche economiche e sociali: salari bassi, lavori precari e redditi insufficienti, a cui si aggiungono disuguaglianze abitative, territoriali, sociali e di genere. Le conseguenze non sono solo materiali ma anche psicologiche e relazionali: stress costante nella gestione del bilancio familiare, perdita di autonomia, isolamento e stigmatizzazione. La povertà alimentare non è solo una condizione di bisogno: è una violazione di un diritto umano fondamentale, quello ad un cibo adeguato.
La povertà alimentare non si manifesta in modo uniforme, ma assume caratteristiche diverse a seconda dei contesti sociali e delle fasi della vita. Per gli adolescenti l’impatto può essere ancora più profondo, poiché sono soprattutto le dimensioni sociale ed emotiva a essere coinvolte, in una fase della vita in cui la costruzione dell’identità si intreccia con il bisogno di autonomia, appartenenza e riconoscimento. Che si tratti di mancanza effettiva di cibo o di limitazioni nelle esperienze di vita ad esso legate, diversi studi hanno dimostrato che negli adolescenti non è solo il corpo, ma anche la mente a risentirne, con effetti a breve e lungo temine sul piano fisico, cognitivo ed emotivo.
Nel secondo rapporto su adolescenti e povertà alimentare in Italia dal titolo “Il malessere invisibile di non poter scegliere”, realizzato da ActionAid insieme all’Università degli Studi di Milano e Percorsi di Secondo Welfare nell’ambito del progetto DisPARI, raccontiamo proprio di come l’esperienza della povertà alimentare sia strettamente connessa agli aspetti emozionali, sociali e questi, a loro volta legati alla libertà di scelta. Il cibo occupa un posto centrale nella vita degli adolescenti, talvolta come un’assenza che pesa altre volte come un dono che unisce, ma sempre elemento legato alle relazioni, ai gesti di cura e alle attenzioni reciproche.
I risultati mettono in evidenza quanto la socialità sia centrale per gli adolescenti — sia nelle relazioni con i pari che all’interno della famiglia — e come il cibo non rappresenti soltanto nutrimento, ma un vero e proprio linguaggio sociale. Il cibo racconta condizioni materiali (abbondanza o mancanza), ruoli familiari (i sacrifici dei genitori, il sostegno dei nonni, le responsabilità dei figli) e diventa strumento di relazione, dentro e fuori casa. Tra pasti condivisi e rinunce silenziose, il cibo misura le possibilità economiche, rafforza i legami, segna confini generazionali e alimenta forme di solidarietà tra pari. È un coro di voci quello che, attraverso il loro racconto, restituisce la quotidianità dei ragazzi, delle ragazze e delle loro famiglie: esperienze diverse, ma unite da un filo comune — la presenza del denaro o, meglio, della sua scarsità, come limite costante alle possibilità delle scelte quotidiane, soprattutto quando si parla di cibo. Dalle loro parole emergono rinunce, adattamenti e piccoli gesti che raccontano cosa significhi crescere in una famiglia in bilico tra stabilità e difficoltà economiche. C’è chi parla del desiderio di un piatto che appare quasi un lusso – il sushi, mai assaggiato quanto si vorrebbe perché “non ci sono soldi” – o della carne, che arriva di rado e lascia la sensazione che qualcosa, nella dieta quotidiana, resti incompleto. Dietro ognuno di questi racconti si intravede un equilibrio fragile, sospeso tra adattamento e desiderio, tra rassegnazione e voglia di riscatto. Pasta, tonno e salsa di pomodoro rappresentano certezze di stabilità così come sfizi, merendine e piatti “più ricchi” restano desideri, molte volte inespressi. E i ragazzi e le ragazze, che osservano con attenzione, imparano presto a leggere negli scaffali del supermercato e nel frigorifero di casa i segni della fatica, ma anche quelli della cura che li circonda.
Ciò che spesso manca non è soltanto il cibo in sé, ma – come un ritornello che attraversa i loro racconti – la libertà di scegliere.
C’è ancora molto da capire su quanto profondo sia il malessere o disagio che ragazze e ragazzi provano quando viene limitata la loro libertà di scegliere cosa, quanto, come e con chi mangiare, una libertà che la psicoterapeuta Cecilia Iannaco ha definito un «diritto psichico legato alla socialità». Ogni volta che tale libertà è limitata, si genera malessere, a prescindere dalla maniera matura e responsabile con cui essi/e affrontano la situazione.
Di fronte a questo quadro, serve interrogarsi sull’efficacia delle risposte attuali e se gli interventi siano in grado di affrontarne davvero la complessità. La risposta alla povertà alimentare in Italia si basa ancora in larga parte su strumenti di assistenza materiale, come la distribuzione di pacchi alimentari e l’accesso a mense e empori solidali. Negli ultimi anni il ruolo del Terzo settore è diventato centrale nel garantire un sostegno immediato a chi è in difficoltà, spesso supplendo alle carenze del welfare pubblico.
Tuttavia, questa rete di aiuti resta concentrata soprattutto sulla risposta ai bisogni più urgenti e immediati e fatica a intercettare quelle forme di povertà alimentare meno gravi ma più diffuse, che riguardano la quotidianità di molte famiglie e restano spesso invisibili. Inoltre, l’aiuto alimentare fornisce un supporto importante, ma non affronta le cause profonde: il basso reddito, il lavoro povero, la mancanza di servizi territoriali, l’aumento del costo della vita e le disuguaglianze sociali. Per molte famiglie ricevere aiuto significa sopravvivere nel breve periodo, ma rimanere intrappolate in una condizione di dipendenza nel lungo termine.
Per contrastare davvero la povertà alimentare servono politiche pubbliche strutturali e multidimensionali, capaci di integrare misure di sostegno al reddito, politiche alimentari e interventi di prevenzione delle disuguaglianze. Occorrono strumenti che rafforzino la sicurezza economica delle famiglie – lavoro dignitoso, salari adeguati, misure contro la povertà minorile – insieme a interventi territoriali che riducano le barriere di accesso al cibo: mense scolastiche universali e di qualità, sostegno alle reti di prossimità, servizi educativi e comunitari, politiche urbane per quartieri più equi e inclusivi. La povertà alimentare non è un problema individuale da risolvere con la carità, ma una questione sociale che riguarda diritti, giustizia e uguaglianza. Per questo è necessario passare da un approccio assistenziale a una strategia pubblica che riconosca il cibo come un diritto umano fondamentale.

Foto di JAEMAN JUNG su Unsplash

Vannacci scopre di essere la minoranza che disprezza

Tra le molto scassate idee dell’ex generale Roberto Vannacci, vicepresidente di Salvini, c’è quella secondo cui tutte le minoranze non sarebbero “normali”. L’europarlamentare leghista – salito alla ribalta per avere avuto lo stomaco di scrivere un libro a forma di rutto al bancone del bar – spiega in tutte le salse che le minoranze in Italia hanno troppo spazio nel dibattito pubblico, monopolizzano giornali e televisioni e soprattutto vorrebbero imporre le proprie idee “alla maggioranza degli italiani”.

Viene naturale pensare quindi che Vannacci sia convinto di rappresentare una larga fetta della popolazione italiana. Sarà per quello che sfila da una rete televisiva all’altra con il suo incedere militare, spargendo basso paternalismo che aspira a essere politico, spaziando su tutti i temi dello scibile umano con la leggerezza di un frate laico che porta i suoi elettori a un campo scuola permanente.

L’ex generale Vannacci ha preteso – con non pochi mal di pancia all’interno del suo partito – di prendere la guida della Lega per le elezioni regionali toscane. Ha deciso gran parte dei candidati, ha diffuso significativi video elettorali (imperdibile quello con un pesce in braccio) e ha collezionato il peggior risultato della Lega in Toscana, finendo ben dietro a Forza Italia e perfino alla candidata di sinistra Antonella Bundu.

Vannacci da ieri quindi è un “anormale” che, pur essendo risibile minoranza, pretende di infestarci con le sue opinioni per imporre un mondo al contrario. Dietro di lui, sullo sfondo, il suo segretario Salvini, che sta riuscendo nel capolavoro politico di trasmettere al suo partito la stessa credibilità di un treno annunciato senza arrivare.

Buon martedì.

Foto di Vannacci da wikipedia

Presidenziali in Cile: la comunista Jara in testa nei sondaggi, al secondo posto il candidato figlio di un ex nazista

Manca solo un mese alle elezioni presidenziali del 16 novembre in Cile, e i sondaggi vedono in testa Jeannette Jara, rappresentante del Partito comunista (Pc) ed ex ministro del Lavoro nel governo di centro-sinistra di Gabriel Boric.
Al secondo e terzo posto si collocano due figure appartenenti all’estrema destra: José Antonio Kast, leader del Partito repubblicano (Pr) e Evelyn Matthei dell’Unione democratica indipendente (Udi).
José Antonio Kast, che concorre per la presidenza per la terza volta, è una figura molto controversa.
Da fondatore del Partito Repubblicano, attivo dal 2019, ha avanzato proposte politiche focalizzate sull’abrogazione della legge sull’aborto, opponendosi inoltre all’impiego di metodi contraccettivi. Dal punto di vista economico, difende lo stato minimo, tra frasi populiste sull’efficienza dello Stato e attacchi ai funzionari pubblici.
Kast è figlio di un ex membro della Gioventù hitleriana. Suo padre, Michael Kast, si iscrisse al partito nazista nel 1942, una circostanza che il candidato aveva tenuto nascosta fino al 2021, quando lo scandalo è emerso grazie ai documenti rivelati dall’Associated Press.
La tessera del partito nazista del padre, divulgata dall’AP e dal giornalista cileno Mauricio Weibel, ha smentito le dichiarazioni di Kast secondo cui il padre avrebbe aderito all’esercito tedesco per costrizione.
I reporter Joshua Goodman e Frank Jordans sono riusciti a dimostrare, grazie al contributo di storici tedeschi, che l’iscrizione al partito nazista (Nsdap) era sempre frutto di una scelta e riservata alle élite della società.
“Non abbiamo un solo esempio di qualcuno che sia stato costretto ad entrare nel partito nazista”, afferma Armin Nolzen, uno storico tedesco che ha studiato approfonditamente le affiliazioni al Nsdap.
Secondo Nolzen, il padre di Kast avrebbe fatto parte della Gioventù Hitleriana per almeno quattro anni prima di entrare volontariamente nel partito nazista, raccomandato dal leader del distretto.
Inoltre, ulteriori indagini hanno portato alla luce il coinvolgimento di Michael Kast con il regime di Pinochet dopo il suo trasferimento in Cile.
“Se fosse vivo, voterebbe per me”, ha affermato Kast riferendosi a Pinochet durante la sua campagna presidenziale nel 2017.
Fervente sostenitore del movimento apostolico di Schönstatt, organizzazione religiosa nata in Germania nel 1914, con precetti simili all’Opus dei, José Antonio Kast viene supportato da una coalizione che include il Partido social cristiano (Psc), creato nel 2022 dall’evangelica ultraconservatrice Sara Concha, e dal Partido nacional libertario (Pnl), fondato nel 2024 da Johannes Kaiser, sostenitore di politiche filo-Pinochet, antiscientifiche e favorevole alla liberalizzazione del possesso di armi.
Questa combinazione politica di estrema destra ricorda simili movimenti osservati in altri paesi latinoamericani, con gravi conseguenze per i diritti civili, soprattutto quelli delle donne e delle minoranze. Di contro, Jeannette Jara emerge come una figura capace di costruire consenso anche oltre la tradizionale base del Partito Comunista.
Paragonata spesso all’ex presidente Michelle Bachelet per le sue doti conciliative, Jara ha saputo posizionarsi in maniera critica verso regimi non democratici come quello del Venezuela, dimostrando indipendenza politica e attirandosi talvolta dissenso tra alcune fazioni interne al PC.
La sua abilità nel mobilitare l’elettorato giovane ha giocato un ruolo cruciale nella vittoria delle primarie. Da Ministra del Lavoro e della Previdenza Sociale, ha segnato importanti successi politici, tra cui l’approvazione della legge per ridurre gradualmente la settimana lavorativa da 45 a 40 ore entro il 2028. Inoltre, ha innalzato il salario minimo, portandolo al livello più alto in America Latina, circa 450 euro, e condotto una riforma previdenziale storica dopo decenni di fallimenti da parte dei precedenti governi.
Figlia di un meccanico e una casalinga, Jeannette Jara è diventata un simbolo dell’ascesa sociale: ha iniziato a lavorare già da bambina, ancora dodicenne, come bracciante agricola, si è formata in scuole pubbliche e ha ottenuto una laurea in Amministrazione Pubblica presso l’Università di Santiago del Cile, proseguendo poi gli studi in Giurisprudenza.
La sua leadership viene interpretata dagli esperti come rappresentativa di un nuovo corso generazionale del Partito Comunista cileno: una formazione politica che sembra vivere un momento elettorale favorevole, corroborato dai successi conseguiti durante il secondo processo costituente nel 2023.
Per lo storico Alfredo Riquelme, il trionfo di Jara nelle primarie evidenzia una combinazione tra la sua eccezionale capacità personale e l’eredità delle giovani generazioni cresciute all’interno del PC sotto la guida di Guillermo Teillier. Quest’ultimo, scomparso nel 2023, fu un importante riferimento per il partito: sopravvissuto ai campi di concentramento di Pinochet, con un passato da rivoluzionario e politico di lunga esperienza, ha presieduto il partito dal 2005 fino alla sua morte, contribuendo a forgiare una classe dirigente capace di attraversare con competenze solide i governi Bachelet e Boric.
Il programma di governo proposto da Jara agli elettori cileni si distingue per concretezza e un forte orientamento verso la giustizia sociale.
Articolato in 110 pagine, elenca 383 misure pratiche che affrontano tematiche come politica internazionale, uguaglianza di genere, sviluppo sostenibile, diritti umani, multilateralismo e transizione energetica. In questo ambito, sono previsti investimenti significativi nelle energie rinnovabili, in particolare solare ed eolica.
Grande enfasi è stata posta sulla lotta alla criminalità organizzata, sulla gestione delle frontiere e sulle politiche di prevenzione della violenza di genere, con interventi mirati nelle scuole e attività pensate per bambini a partire dai 7 anni.
Criticata duramente dall’estrema destra, bersagliata da insulti gravi e falsità, e contestata dai cattolici per il suo sostegno al diritto di scelta sulla gravidanza, Jeannette mira a favorire il dibattito sulla proposta di legge per la depenalizzazione dell’aborto. Attualmente in Cile, l’Ivg è permessa solo in tre circostanze specifiche: rischio per la vita della donna, violenza sessuale o gravi malformazioni fetali incompatibili con la sopravvivenza.
Se nessun candidato raggiungerà il 50% dei voti il prossimo 16 novembre, si terrà un secondo turno elettorale il 14 dicembre.